Dopo mesi di chiusure e paura lentamente l’Italia si riapre alla vita. Molte restrizioni permangono ma si può ricominciare a pensare al domani. La crisi economica è già qui ed è drammatica. Milioni di persone avranno bisogno di protezione ed aiuti. Lo Stato deve poter provvedere all’emergenza con un welfare puntuale e una politica d’investimenti coraggiosa, oltre ogni imposizione estera. Ma non basta. Per comprendere l’importanza di concetti come solidarietà e comunità occorre che si faccia largo una nuova idea di economia, anche a livello globale, non più basata sullo sfruttamento e sulle diseguaglianze.   
 
Una parvenza di normalità torna a bussare alle porte degli italiani. Se la virulenza del Covid pare diminuire sensibilmente un nuovo spettro egualmente minaccioso incombe su famiglie ed imprese. La crisi economica che si teme prolungata e devastante è l’eredità del morbo e ha già iniziato a mietere vittime. I dati su produzione e lavoro sono lì ad evidenziare quanto difficile sia il contesto con cui tutti noi siamo chiamati a misurarci. E le previsioni per i mesi avvenire non lasciano ben sperare. L’epidemia economica già in atto rischia di tramutarsi in emergenza sociale senza adeguati interventi a sostegno delle fasce più fragili e delle categorie produttive.
La rinascita non può che passare da un’approfondita riflessione sul ruolo dello Stato nelle vite delle persone, nei rapporti con i cittadini che a causa dei rovesci del destino si trovino in difficoltà. Un welfare più presente ed efficace che agisca nell’interesse dei più bisognosi e una politica d’investimenti attenta e capillare per stimolare la ripresa sono le vie da seguire. Anche se dall’esterno, da organismi sovranazionali ad esempio, dovessero giungere ammonimenti e richieste di tagli alla spesa e maggiore “frugalità” nei conti pubblici. Ciò non vuol dire legittimare pratiche deprecabili di spreco e mala gestione, ma dare un senso rinnovato alla parola solidarietà sintetizzabile in un’immagine: l’abbraccio delle Istituzioni ai propri cittadini; famiglie, categorie prostrate dalla crisi e lavoratori che rischiano di perdere tutto.
Non è sufficiente però ripensare uno stato sociale che riesca a soccorrere chi rimane indietro, ma serve rinsaldare il legame tra i singoli cittadini. Ritrovare il valore della comunità come rete di relazioni sublimate in atti concreti. Puntare sulle energie attorno a noi, nei territori, per creare anticorpi sociali contro la solitudine e la marginalità. Un sistema immunitario dal basso formato da associazioni, comitati, realtà nate dal volontariato in molteplici settori: dall’ambientalismo all’emergenza abitativa, fino al commercio di prossimità. Senza dimenticare il prezioso contributo del mondo cattolico. L’opportunità creata dall’aggressione del Coronavirus, quindi, è legata ad una nuova concezione di noi stessi con e nello Stato, visto come unione di destini ed energie tanto dal vertice quanto dalla base.
La straordinarietà dell’attuale situazione richiederebbe un’unità d’intenti, anche a livello continentale e globale, che tuttavia non si palesa ancora. In Europa l’estenuante dibattito sulle misure da adottare non ha ancora portato effetti concreti, anche a causa di diffidenze e piccole ostilità da parte di alcuni paesi nei confronti degli Stati più colpiti dalla crisi economica figlia del virus. La solidarietà rimane sulla carta purtroppo, nelle note stampa e nelle interviste.
Abbiamo bisogno di un nuovo approccio, un cambio di filosofia per avventurarci nei territori inesplorati che il passaggio del Covid ha aperto dinanzi a noi. Non solo in riferimento alla crisi economica italiana ed europea, ma anche ai nuovi assetti globali. Dobbiamo creare le basi di un futuro dignitoso e sostenibile per l’uomo e il pianeta ripensando il modello di sviluppo mondiale. Questa è l’occasione che ci viene offerta. La via è quella che conduce ad un’economia che non sia imperniata nello sfruttamento utilitaristico ed egoista, nell’inseguimento insensato di crescite esponenziali che non possono esistere, semplicemente perché nella realtà nulla si espande all’infinito, esistendo confini invalicabili per lo spazio e la materia. Nel nuovo mondo che potrebbe, dovrebbe nascere l’uomo non deve più essere mero strumento per la sopravvivenza del sistema economico. Al contrario, dovrà esserne il fine, la ragion d’essere. “Noi non produciamo per consumare, ma consumiamo per produrre e il meccanismo economico non è al nostro servizio, ma noi al suo”, scriveva Massimo Fini nel suo saggio Il Ribelle in un passaggio significativo. “Siamo tubi digerenti, i lavandini, i water attraverso i quali deve passare il più velocemente possibile ciò che altrettanto rapidamente produciamo”. E concludeva: “Siamo il terminale uomo, la variabile dipendente dell’economia; anzi, non siamo più nemmeno uomini, ma consumatori”.
Tutto il nostro mondo deriva da questa stortura: dalla povertà alle migrazioni di massa, dalla distruzione dell’ambiente per lo sfruttamento massivo delle risorse a quella delle identità delle genti, funzionale all’imposizione di un modello economico unico e pervasivo. Fino alla negazione di aiuti e solidarietà a popoli in ginocchio a causa di pandemie. Tutto ciò deve cambiare. O sarà stato tutto vano. O noi rimarremo vani.
 
MARCO BOMBAGI