“La signora Fisch portava sempre un cerotto sul braccio e noi chiedevamo: ‘Ti sei fatta male?’ E lei rispondeva: ‘Sì, molto.’ ‘Non è ancora guarito?’– ‘No, non guarirà mai.’ Solo più tardi abbiamo capito che la signora Fisch sul braccio aveva un tatuaggio di Auschwitz.” Peter Langer
“Nel marzo del 1944 Olimpia avrebbe compiuto quattro anni. Io ero stato ad Auschwitz qualche anno prima, e una delle cose che più mi colpì furono le trecce delle bambine: la visione di tutte quelle treccine mozzate era raccapricciante.” Cesare Moisè Finzi
Le vittime altoatesine della Shoah vennero sorvegliate ed espulse dalle autorità fasciste e in gran parte perseguitate e deportate da nazisti locali. Dopo il 1945 a molti dei sopravvissuti fu negato il risarcimento dei danni materiali e il ricordo delle vittime venne rimosso. “Quando la patria uccide” documenta le molteplici forme in cui si manifestò in Sudtirolo l’antisemitismo, profondamente radicato in questa terra, racconta le sofferenze di tante vittime della Shoah e dà un nome a colpevoli e profittatori. Le vittime sudtirolesi del nazismo amavano la loro Heimat e hanno dato un importante contributo nel campo della medicina, dell’economia, delle infrastrutture, della cultura, del turismo, del giornalismo e della vita sociale. Riportare alla luce le tracce lasciate dalla comunità ebraica nella storia dell’Alto Adige significa dare loro un riconoscimento, seppur tardivo.
Un commovente e doveroso viaggio nella memoria, corredato da oltre 380 foto per aiutarci a non dimenticare mai.
 
Descrizione
Autori: Joachim Innerhofer | Sabine Mayr
Titolo: Quando la patria uccide
A cura del Museo Ebraico di Merano
Prefazione di Peter Turrini
Prezzo: Euro 25,00
Pagine: 544
ISBN: 978-88-7283-512-8
 
 
«L’Alto Adige come l’Austria, il vittimismo batte la Shoah»
intervista a Marko Feingold a cura di Mauro Fattor
Ha visto aprirsi per quattro volte le porte dell’inferno. Ma ad attenderlo sulla soglia non c’ era Dumah, l’ angelo che nella tradizione rabbinica riceve le anime dei morti e annuncia l’ arrivo dei nuovi venuti. L’inferno di Marko Feingold ha molte porte. Sono quelle di Auschwitz, Neuengamme, Dachau e Buchenwald. Sulla soglia del silenzio ha incontrato solo demoni e i suoi demoni avevano la divisa dei nazisti. «Non riesco e non riuscirò mai a spiegare davvero cosa ho visto là dentro – dice il 103enne sopravvissuto alla Soah – bisogna esserci stati, per capire. Ma nonostante tutto l’ orrore che mi è passato davanti agl’ occhi, quello che non potrò mai dimenticare è l’ arrivo ad Auschwitz, il primo impatto con un campo di concentramento, nell’ autunno del 1940. Allora il treno non entrava nel lager e di fatto non esisteva strada. Raggiungemmo il campo a piedi. Ricordo quel chilometro e mezzo, dalla stazione ferroviaria ai cancelli del lager, fatto tra le bastonate e le urla di due ali di Ss, con la sagoma di Auschwitz, nera, sempre più vicina. Eravamo terrorizzati. Ricordo ancora tutto, vedo ancora tutto, come se fosse ieri…».
Marko Feingold, presidente della comunità ebraica di Salisburgo, è il più anziano sopravvissuto alla Soah in Austria e martedì sera era a Merano per il dibattito che si è tenuto nella sinagoga in occasione della presentazione del libro “Quando la patria uccide. Storie ritrovate di famiglie ebraiche in alto Adige” scritto dalla storica sudtirolese Sabine Mayr e dal direttore del Museo Ebraico di Merano, Joachim Innerhofer e pubblicato dalla casa editrice Raetia. Nel suo caso parlare di testimone dei fatti è francamente riduttivo. È nato nel 1913 a Neusohl, oggi Slovacchia ma allora ancora impero austroungarico. I suoi occhi hanno visto la Grande Guerra e poi la Seconda Guerra Mondiale e quattro campi di sterminio. È stato arrestato a Praga il 6 maggio del 1939 dalla Gestapo e liberato l’ 11 aprile del 1945, quando le truppe americane entrarono a Buchenwald, ultima stazione del suo calvario. Dal maggio del 1945 abita a Salisburgo. L’ abbiamo intervistato.
 
L’intervista
Signor Feingold, lei vive in Austria da tanto tempo. Nonostante la vittoria di Van der Bellen alle presidenziali, nel paese crescono insofferenza e odio verso profughi e stranieri. L’ incubatoio è lo stesso: un tempo gli ebrei, ora gli immigrati. Le due situazioni sono confrontabili?
«No, non lo sono. Si tratta di situazioni molto diverse con qualche punto di contatto».
In che senso?
«Nel senso che l’ antisemitismo in Austria è ancora largamente diffuso in molti strati della popolazione, soprattutto nelle zone rurali, e che oggi trova nella xenofobia una facile valvola di sfogo. In sintesi: io credo che una bella fetta della popolazione austriaca sia antisemita e una ancor più grande sia xenofoba. In questo senso potrei dire che sono complementari».
Lei pensa che possa tornare a rendersi pericoloso anche un nuovo antisemitismo militante?
«No, non credo. Senza ebrei, e in Austria ne sono rimasti davvero pochi, non c’ è antisemitismo. Non in senso militante almeno. Sopravvive invece come atteggiamento culturale, come categoria dello spirito. Fermo restando che in Austria un ebreo deve sempre avere la valigia pronta…».
Steinhaus nel dibattito di Merano ha detto che molti ebrei non vedono più un futuro in Europa.
«Non sono d’ accordo. Se un cristiano mi chiede perchè non vado a vivere in Israele io gli ripondo che lo farò dopo che lui sarà andato a vivere a Roma. Dunque posso stare tranquillo».
Torniamo all’ Austria. Perchè questo antisemitismo di fondo è ancora così diffuso?
«Perchè è mancata completamente una rielaborazione della storia, del ruolo di Vienna a fianco della Germania hitleriana. Vorrei solo ricordare che quasi tutti i comandanti dei campi di sterminio erano austriaci e che, nonostante questo, fino agli anni Ottanta la parola Shoah non compariva quasi neppure nei libri di storia a scuola. Per non parlare dei beni sequestrati agli ebrei, decine di migliaia di immobili nella sola Vienna che alla fine della guerra non sono mai stati restituiti. Gli austriaci si sono cullati nella favola della Anschluss, dell’ annessione, proponendosi sempre nel ruolo di vittime dell’ espansionismo hitleriano. Ma io nel 1938 c’ ero. Ero a Vienna nei giorni della Anschluss e ho visto le scene di entusiasmo, i festeggiamenti. E se devo fare un conto a spanne, direi che l’ ottanta per cento dei viennesi ha brindato all’ arrivo delle truppe tedesche e che il restante venti per cento certo non ha protestato».
Trova delle analogie con la situazione altoatesina?
«Analogie è riduttivo. Direi che in Alto Adige c’ è la stessa identica situazione. Una mancata rielaborazione di ciò che accadde in quegli anni, una vocazione autoassolutoria assoluta, con un vittimismo ancora più radicato che in Austria in virtù delle vessazioni subite durante il fascismo. Parla da solo il fatto che le prima richiesta di perdono ufficiale, pubblica, di un sindaco alla comunità ebraica meranese sia arrivata solo l’ altra sera, a distanza di 71 anni dalla fine della guerra. Comunque, sono felice di essere stato in questi giorni qui in Sudtirolo. Ho avuto l’ impressione di una comunità ebraica che piano piano rifiorisce e ritrova consapevolezza delle proprie radici e della propria storia. Per me è stato emozionante».
Quali sono le radici dell’ antisemitismo?
«Sono radici religiose. Cristiane. L’ albero del razzismo hitleriano aveva radici nell’ antigiudaismo cristiano. Questo spiega anche perchè sopravviva ancora oggi, almeno nell’«Europa profonda». Devo anche dire che la situazione è in rapida evoluzione. Anche in Austria c’ è una nuova generazione di vescovi nata nel Dopoguerra che non ha nulla a che spartire con le opacità dei loro predecessori. Sono stato invitato recentemente a Feldkirch ad una manifestazione organizzata dal vescovo. Una cosa incredibile: c’ erano cinquecento bambini e trecento adulti, tutti lì per ascoltare, per chiedere, per sapere cosa accadde a noi ebrei in quegli anni terribili».
Sono decenni che lei porta la sua testimonianza nelle scuole. Come la accolgono i ragazzi? C’ è interesse?
«In genere ho a che fare con studenti delle scuole superiori, ragazzi di 16-17 anni. Direi che in linea di massima sono interessati, fanno domande, anche se il modo di interagire nel corso degli anni è cambiato e ancora sta cambiando. Sono talmente abituati ad usare tablet e cellulari che pur avendomi lì davanti, in carne e ossa, preferiscono portarmi una lista di domande scritte. Una cosa che per me è di difficile comprensione, comunque mi adeguo e rispondo alle loro domande. Ma non è questo l’ unico problema».
Che altro c’ è?
«Una cosa che mi ha fatto pensare molto. Sono stato poco tempo fa in una scuola superiore in Alta Austria. Quando sono entrato in classe, l’ insegnante si è avvicinata e, prendendomi un po’ in disparte, mi ha avvisato che su trenta alunni solo un paio parlavano e capivano bene il tedesco. Due su trenta! Questo significa che avevo davanti dei ragazzi con un background culturale e familiare completamente diverso, o comunque molto diverso, da quello che noi, e io stesso, tendiamo a dare per scontato. Insomma, non hanno “memoria” della guerra e della persecuzioni razziali, né diretta né indiretta. Nessuna conoscenza acquisita, quasi per osmosi, da nonni, genitori, racconti di amici e conoscenti. Questo ovviamente apre problematiche nuove».

Memorie separate, insomma. Del resto non è che nei Paesi dell’ Est Europa le cose vadano molto meglio…

«È vero. A Riga gli ex-volontari della legione lettone delle Ss, sfilano in piazza e sono considerati eroi nazionali nella lotta antisovietica, in Ucraina non ne parliamo. La Shoah non è mai stato un tema in nessuno dei Paesi dell’ ex-blocco sovietico, anche quelli confluiti oggi nell’ Unione Europea. In Cechia, Romania, Slovacchia, il mito sovietico della “guerra patriottica” contro Hitler ha fagocitato per decenni qualsiasi altra memoria».
Del resto in Unione Sovietica in quella guerra sono morte venti milioni di persone. Forse in parte è anche comprensibile.
«È un tema su cui si potrebbe discutere a lungo e in cui non voglio entrare. Dico solo che se l’ antisemitismo oggi è ancora così forte e diffuso in tutti i Paesi dell’ Est Europa, gli stessi che riuniti nel cosiddetto gruppo di Visograd, sono i più ostili ad immigrati e profughi, una ragione probabilmente c’è».
in “Trentino” del 23 dicembre 2016