Quattro fenomeni profondamente interrelati costituiscono gravi ostacoli a una pace stabile a livello mondiale e mettono a repentaglio interessi e diritti basilari di generazioni presenti e future: l’escalation della violenza; il constante approfondirsi delle disuguaglianze nella distribuzione di risorse e potere; il crescente aumento della temperatura del pianeta e il conseguente degrado ambientale; il forte aumento dei flussi migratori nel mondo con decine di milioni di persone che fuggono dai massacri, dalle persecuzioni, dalla povertà cronica. Nei sei saggi raccolti in questo volume, Giuliano Pontara, argomentando che la guerra moderna è ingiustificabile, e che non si esce dal vortice della violenza con ulteriore violenza, esplora e analizza alcuni problemi centrali riguardanti la nozione e le vie della pace: dalla istaurazione di un governo mondiale democratico alla nonviolenza attiva, fino ai fattori istituzionali e alle forze situazionali che ne favoriscono o impediscono l’applicazione; memore del detto kantiano per cui, pur non sapendo “se la pace perpetua sia una cosa reale o un nonsenso […] dobbiamo agire come se fosse una cosa reale, il che forse non è, e operare per la fondazione di essa”, qui e ora.
 

Descrizione
Titolo:  Quale pace? Sei saggi su pace e guerra, violenza e nonviolenza, giustizia economica e benessere sociale
Autore: Giuliano Pontara
Editore: Mimesis
Anno: 2016
ISBN 8857536785, 9788857536781
Pagine: 158 pagine
Prezzo: 16,00
 
 
Scommettere sulla pace
di Carla Bagnoli
Nella Carta delle Nazioni Unite la pace universale, stabile e duratura è un fine supremo. C’è chi sostiene che siamo in un’era relativamente pacifica, rispetto al passato remoto dell’umanità. Considerando, però, che nel 2014 la spesa militare mondiale è stata di 1,776 miliardi di dollari, secondo il rapporto annuale del Stockholm International Peace Research Institute, c’è ragione per un certo pessimismo. Lo stesso rapporto stima che ci sono state più guerre nel 2014 che in qualsiasi altro anno successivo al 2000. Il Global Terrorism Index riporta 32.685 esseri umani assassinati in azioni terroristiche per il 2014 e secondo un comunicato dell’UNICEF di quello stesso anno, sono stati vittime di violenza politica 15 milioni di bambini. È un primato di brutalità che il presente detiene.
Quale futuro stiamo consegnando alle nuove generazioni? Questa domanda fa da pernio alla riflessione di Giuliano Pontara sui temi più difficili e minacciosi dell’età globale. Pontara è professore emerito dell’Università di Stoccolma, dove ha insegnato filosofia pratica per oltre trent’anni, occupandosi principalmente della giustificazione morale e razionale dell’agire politico, in particolare del consequenzialismo e dell’utilitarismo. È uno dei massimi studiosi della non- violenza a livello internazionale.
Al rigore del filosofo analitico Pontara accompagna l’impegno civico e la passione dell’attivista, mai disgiunta da una visione concreta, ben aderente alla realtà dei fatti. Pontara è stato uno dei fondatori della Università Internazionale delle Istituzioni dei Popoli per la Pace, con sede a Rovereto, che ha diretto dal 1993 al 2004. È membro del Tribunale permanente dei popoli fondato da Lelio Basso e, in questa capacità, è stato membro della giuria nelle sessioni del Tribunale sulla violazione dei diritti in Tibet (Strasburgo 1992), sul diritto di asilo in Europa (Berlino 1994), e sui crimini di guerra nella ex Jugoslavia.
In questi giorni pullulano in tutta Italia occasioni preziose di discussione intorno a Quale pace?, il libro in cui Pontara, con la consueta lucidità e chiarezza, affronta i temi complessi del conflitto e della pace, in relazione all’approfondirsi delle ineguaglianze economiche e ai grandi flussi migratori. Chi ha avuto la fortuna e il privilegio di ascoltare Pontara riconoscerà nel libro il tono fermo e aperto che il filosofo sa mantenere anche nella discussione più accesa. Si può ben attribuire a Pontara un’etica della responsabilità che pone al centro la questione delle generazioni future. È soprattutto verso chi non c’è ancora che siamo responsabili, poiché le azioni di oggi saranno i fatti di domani. Il vantaggio temporale che abbiamo sugli esseri che non esistono ancora è anche un onere che ci dobbiamo assumere. Sta a noi preoccuparci di quello che sarà e consegnare un mondo di pace.
La prima domanda da porsi è proprio di quale pace merita discutere, poiché c’è pace e pace. In un senso ampio, la pace è l’assenza di conflitto armato. In un senso più stretto, invece, la pace non è solo l’assenza di violenza diretta, ma richiede anche l’assenza della violenza strutturale che emerge in certe realtà istituzionali, a proposito della distribuzione del potere, e l’assenza della violenza culturale che ne fornisce la base di giustificazione. Ci sono infatti modi cruenti di fare cultura e modi cruenti di operare scelte economiche le cui conseguenze sono paragonabili al conflitto armato, in quanto altrettanto letali. Certo, queste definizioni di pace e di violenza sono discutibili e celano disaccordi importanti. Pontara utilizza il concetto tradizionale di pace, ma il suo approccio consente di articolare questi disaccordi in modo più organico e sistematico rispetto alle questioni economiche aperte dalla globalizzazione e dalle ineguaglianze. La guerra è condizionata da interessi che compromettono l’equità nella distribuzione delle ricchezze e comporta violazioni ingiuste dei diritti umani. La ricerca della pace è perciò intrecciata ai valori dell’eguaglianza e della giustizia.
Eppure, anche chi condivide questi valori si trova a sostenere che la guerra è talvolta giustificata, quando risponde ad un attacco, oppure quando interviene per proteggere contro la violazione sistematica dei diritti umani. La dottrina dei diritti umani è controversa e, anzi, ci sono molte dottrine dei diritti umani e molte posizioni differenti sulle implicazioni del loro riconoscimento. Pontara non entra nella questione della giustificazione filosofica, ma in fondo si trova d’accordo con Jeremy Bentham, che l’idea di diritti umani inviolabili è una «assurdità sui trampoli».
Il punto centrale per Pontara, proprio come per Bentham, è che ritenere che vi siano vincoli assoluti all’azione impedisce di prestare attenzione alle conseguenze. Ma essere responsabili significa prima di tutto stare attenti alle conseguenze delle proprie azioni. Dal punto di vista delle conseguenze, l’intervento armato non è mai giustificabile, nemmeno a scopo umanitario.
Quando si parla di conseguenze, l’argomentazione diventa complessa, poiché richiede un vasto dominio di conoscenze empiriche. Ma anche riconoscendo questa complessità e la limitatezza delle nostre conoscenze, è certo che la guerra provoca conseguenze peggiori di ciò che intende rimediare. «Vista la natura delle armi di distruzione di massa che sono disponibili, si può star certi che si tratterà di una guerra cruenta. Si può anche star certi che la guerra comporterà la violazione su vasta scala dei diritti di esseri innocenti, presenti e futuri. Incerti sono, invece, i risultati. Non sappiamo se la guerra risolverà il confitto che è chiamata a decidere. Ciò che, però, sappiamo è che la guerra rafforza il sistema militare industriale e comporta una militarizzazione della società che mina il carattere democratico delle istituzioni civili e innesca processi di deumanizzazione, di brutalizzazione e di frammentazione delle responsabilità. Questi processi di approfondiscono e tendono a perpetuare lo stato di guerra. Rispondendo con la guerra c’è, dunque, il rischio che questa spirale di violenza sia inarrestabile».
Per questo, è molto più ragionevole intraprendere le vie della pace, rafforzando quelle risorse costruttive di cui ci ha provvisto l’evoluzione, per gestire l’aggressività. Pontara argomenta che le situazioni sociali ed istituzionali in cui ci si trova contano di più dei tratti caratteriali. Bisogna scommettere sulle capacità di costruire la pace, prestando attenzione alle questioni di giustizia ed equità.
Questa scommessa è individuale, ma può essere gestita solo a livello globale. Per questo, Pontara ritiene che un governo globale, democratico, federale sia necessario perché il sistema degli stati nazionali, ciascuno impegnato a massimizzare i propri interessi e condizionato da questa logica, fallisce in modo sistematico nell’affrontare i problemi della globalizzazione. «Solo un governo federale globale può gestire in modo costruttivo i conflitti internazionali e affrontare in modo equo problemi come lo sfruttamento delle risorse naturali e la redistribuzione delle ricchezze».
È questo l’unico cedimento non-consequenzialista di Pontara, concordare con Kant che, anche se non sappiamo se la pace universale sia possibile, bisogna fare come se lo fosse ed impegnaci adesso perché il futuro sia possibile. I pessimisti avranno la responsabilità di aver posto fine alla storia.
Giuliano Pontara, Quale pace , Mimesis, Sesto San Giovanni-Milano, pagg. 158, € 16 Carla Bagnoli
in “Il Sole 24 Ore” del 26 febbraio 2017