L’esistenza è destinata a rimanere un enigma incomprensibile? Siamo condannati al vuoto della solitudine? Se c’è un Dio, perché tace? Sono le domande radicali che si pone l’uomo contemporaneo. La società postmoderna in Europa si è allontanata dal cristianesimo che non è più, sociologicamente, la religione civile dominante, «ma non è detto – scrive il cardinale Scola – che sia venuto il tempo del “Postcristianesimo”. Ancora oggi ci sono donne e uomini che continuano ad attendere l’Altro che venga loro incontro, liberandoli da se stessi e restituendoli a se stessi, continuando a salvarli con la sua esistenza. A questa tenace attesa si deve la forma interrogativa del titolo “Postcristianesimo?”, perché è proprio con quell’attesa che il cristianesimo vuole entrare in dialogo, per poter offrire una speranza per l’oggi e per il domani». Da qui un percorso di ricerca che attraverso le pagine di questo libro affronta molte questioni cruciali del nostro tempo: il rapporto con Dio, la paradossale libertà che ci paralizza, il valore che oggi assume la testimonianza dei cristiani.
 
Descrizione
Titolo: Postcristianesimo? Il malessere e le speranze dell’Occidente
Autore: Angelo Scola
Editore: Marsilio
Pubblicato 30/03/2017
Prezzo: 9,90
EAN-13 9788831741361
 
 
Postcristianesimo?Il malessere e le speranze dell’Occidente
di Giulio Boscagli
Nel mondo dell’informazione il “colore” attira sempre più del contenuto. Così anche la recente intervista del card. Scola al Corriere ha enfatizzato nel titolo la sua prospettiva di ritirarsi a Imberido una volta che papa Francesco avrà accolto le dimissioni e nominato il successore (“farò il prete in un paesino”) lasciando sullo sfondo le questioni più serie che pure vengono affrontare (ad esempio sul ruolo del prete o della donna nella chiesa).
E’ un destino che mi sembra tocchi troppo spesso agli interventi di Scola che vengono messi in archivio anche da chi avrebbe il compito di farli conoscere e soprattutto, di provare a metterli in pratica. C’è una continuità tra gli interventi magisteriali di Scola (non dimentichiamo che è stato vescovo di Grosseto e patriarca di Venezia prima di essere nominato a Milano, nonché Rettore della Pontificia Università Lateranense) e gli interventi da studioso e teologo che ha pubblicato negli anni e che meritano di essere meglio conosciuti e studiati come aiuto alla navigazione nel nostro tempo. Ultimo arrivato è questo testo “Postcristianesimo? Il malessere e le speranze dell’Occidente” di cui provo a dare qualche spunto per una lettura.
Nella prima parte significativamente titolata “Il travaglio di civiltà”, Scola percorre con il suo giudizio alcuni tra i nodi più profondi del disagio attuale. Si sofferma innanzitutto sul tema del travaglio o della transizione evidenziando in particolare la crisi della politica, la confusione delle lingue. Si interroga poi su religione e laicità nella società plurale, affronta il tema delicato e difficile del rapporto con l’Islam, per poi entrare nei temi dell’economia, dell’ecologia e infine della pace.
Chi conosce i suoi precedenti scritti vi ritroverà suggestioni e proposte già incontrate altrove. Tuttavia mi pare che qui la riflessione sia in qualche modo più compiuta e in un certo senso anche più drammatica.
Intanto il tema del travaglio, o della transizione infinita: ”come non riconoscere che non si tratta solo di problemi tecnici, legati al malfunzionamento del sistema, bensì del disagio più profondo, che implica un intero modo di concepire l’umano?”.
Quello che è in gioco è una concezione della persona e non si può affrontare la sfida se non immergendosi profondamente in questo travagli e nelle questioni che pone. E tra le prime ci sono “ la crisi della rappresentanza politica e la mancanza di una grammatica condivisa dell’umano”. Sulla prima questione Scola mette l’accento sulla dipendenza della politica dai sondaggi di opinione e dalla ricerca del consenso immediato. Il che mette in questione il necessario rapporto tra diritti e doveri da cui solo possono nascere leggi equilibrate. E porta ad esempio le questioni legate al diritto alla vita e agli affetti su cui si legifera alla luce di desideri individuali assurti a diritti incontestabili. Ma grave appare anche la mancanza di “una visione unitaria e condivisa dell’uomo” che mette in crisi non solo la costruzione sociale ma anche la stessa percezione che la persona ha di sé.
“E’ in momenti di travaglio come questi che esplode il problema del senso della vita” (…) Credo che ogni uomo abbia il desiderio, come Giobbe, di poter guardare l’attuale travaglio con spirito di ad-ventura, rivolto al futuro. Occorre soltanto l’audacia di porre con radicalità la domanda esistenziale fondamentale”.
Sul tema della religione nella società post secolare e della laicità nella società plurale, Scola riprende e amplia sue precedenti riflessioni in dialogo con affermazioni di Maritain (quando afferma il bene pratico del vivere in comune) e con la posizione laica di Habermas che ritiene essenziale la presenza nella società laica della posizione religiosa (“affinché la società laica non si privi di importanti risorse di creazione di senso”). Troviamo qui un’osservazione particolarmente acuta e attuale: “Negli ultimi decenni abbiamo constatato che la neutralizzazione dello spazio pubblico porta a una riduzione drastica delle pulsazioni vitali del dibattito democratico”, affermazione forse difficile ma che trova mille documentazioni anche se solo si analizzano le trasmissioni tv dedicate alla politica e ai temi sociali che sono sempre più lontane dai bisogni veri della gente mentre ne enfatizzano ogni sentimento divisivo in nome della audience.
Riconosciuta innanzitutto ” l’impossibilità di eliminare del tutto il trascendente da questa stessa società” e nello stesso tempo “che l’ambito politico non necessita, per essere in buona salute, del consenso totale intorno a visioni sostantive della vita (cosa assai improbabile)”, Scola definisce la laicità non come uno spazio neutro ma come luogo in cui tutti possano confrontarsi e dialogare, “luoghi di crescita antropologica, di edificazione delle identità personali, di cura delle relazioni…”
Perché questo possa avvenire, o almeno iniziare ad essere sperimentato, occorre accettare di mettersi in discussione personalmente, in particolare “annunciare l’avvenimento di Gesù Cristo in tutta la sua interezza, giungendo quindi a mostrarne tutte le implicazioni, è il compito affidato ai cristiani, più che mai nell’odierna società plurale”.
Il capitolo dedicato al rapporto tra Occidente e Islam è particolarmente impegnativo e ricco di riflessioni grazie anche al lavoro svolto dalla fondazione Oasis cui Scola diede vita quasi dieci anni fa quando era Patriarca a Venezia e si interrogava sulla storia dei rapporti storici e attuali tra queste due civiltà.
Emerge la vera sfida che l’Islam pone all’Occidente un “intreccio tra una tensione universalistica analoga a quella cristiana e una differente visione del mondo …[i credenti musulmani] con la loro semplice presenza, come singoli e come comunità, essi pongono il problema della convivenza di differenti mondovisioni universali nella sfera pubblica”
Una sfida che per essere affrontata adeguatamente necessita della capacità di “testimoniare all’Islam in modo particolare, l’insuperabilità del nesso verità-libertà, per cui la libertà è orientata strutturalmente alla verità, ma d’altro canto la verità non si dà mai senza libertà”.
Sorvoliamo sui capitoli dedicati all’economia e all’ecologia in cui Scola fa proprio il magistero di Benedetto XVI nella Caritas in Veritate e di Francesco, e quello dedicato a Guerra e Pace, che si conclude con l’affermazione radicale della testimonianza di pace possibile solo con “il coraggio del perdono…non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono”.
Affrontiamo la seconda parte “Cristo speranza dell’uomo”, una riflessione teologica impegnativa per chi, come il sottoscritto non è uno specialista. Tuttavia è possibile segnalare alcuni punti cruciali.
Intanto l’affermazione – è ”urgente mostrare la possibilità per l’uomo di ogni tempo e luogo di entrare in rapporto con Cristo come suo contemporaneo”- evidenzia come la questione centrale per i cristiani non è tanto quella di una affermazione di valori, di un attaccamento a forme che, come tali, possono e debbono sempre essere rimesse in discussione, ma di dimostrare che il cristianesimo “è l’incontro con un avvenimento, con una Persona , che dà alla vita un nuovo orizzonte e, con ciò, la direzione decisiva”(Benedetto XVI , Deus Caritas est). E’ a partire da questo che Scola vuole dimostrare agli uomini del nostro tempo “la convenienza dell’annuncio cristiano”.
Come spesso nel suo costante insegnamento, il cardinale affronta le dimensioni dell’umano che lui sintetizza nelle dimensioni dell’esperienza: gli affetti, il lavoro e il riposo. Nella sua riflessione Scola riprende temi approfonditi in passato (il tema della nuzialità, ad esempio) e fa riferimento a maestri come De Lubac e von Balthasar.
Ci ricorda che è nell’Eucaristia che è possibile “l’accesso al Gesù reale. Nell’Eucaristia il Risorto si rende contemporaneo alla libertà di ogni uomo e lo urge a dar forma eucaristica a tutta la sua esistenza”. Accenna alle problematiche del Gesù storico e della necessità della testimonianza che ha un metodo preciso : “nessuno può seguire Cristo e può vivere di Lui senza di lei [la Chiesa]”.
Gli ultimi due capitoli sono dedicati proprio alla testimonianza in cui si intravvede l’ascolto dell’insegnamento di Francesco,che chiede di uscire da sé stessi per portare a tutti Gesù, e infine al martirio.
Se ad alcuni cristiani (sempre di più purtroppo), è chiesto il martirio del sangue, “la grande sfida per ogni uomo si gioca innanzitutto nella pazienza (è interessante che la radice etimologica di pazienza sia la stessa di passione) con cui porta il peso di ogni giorno, in come vive gli affetti, il lavoro, il riposo e la festa, l’impegno sociale, la vita e la morte, la malattia, l’educazione, la giustizia e la solidarietà. In una parola, dipende da come assumiamo la fatica del tempo” .
Quello del martirio è una tema già più volte indagato da Scola e da lui segnalato già da tempo come una possibilità non più soltanto remota. Tutte da leggere le riflessioni finali che riportano le parole del priore dei monaci di Thibirine uccisi quasi vent’anni fa, e quelle delle suore di Madre Teresa recentemente uccise nello Yemen.
L’ultima parola del libro è scritta per togliere il punto di domanda dal titolo “Postcristianesimo?”. “Fino a quando sulla faccia della terra si troveranno donne e uomini di tal fatta, che si mettono alla sequela di Gesù fino all’effusione del sangue, instancabili nella dedizione agli altri, soprattutto ai poveri; fino a quando ci
saranno almeno una donna e un uomo così non si potrà parlare di postcristianesimo”.
da: Resegoneonline.it , Lecco 5 aprile 2017
 
 
Cristianesimo e speranza in occidente
di Angelo Scola
Come dire una parola sulla guerra che non sia disperatamente inadeguata? Due volte nel secolo scorso è calata sull’intero globo, portando con sé il suo lugubre corteo di lutti e tuttora sembra in corso una terza guerra mondiale «a pezzi», per riprendere l’espressione di papa Francesco.
Tutti credevano che il primo conflitto, il primo a fregiarsi del titolo di “mondiale”, sarebbe stato una guerra-lampo, ma a ben vedere si spense solo nel 1945. Autentica «guerra dei Trent’Anni del ventesimo secolo» – come ebbe a definirla Raymond Aron -, provocò sconvolgimenti che ancora incidono in profondità in tutto l’Occidente ma anche nel mondo musulmano e nell’Asia orientale Eppure non è sufficiente rievocare quelle immagini di allora, come non basta l’elenco delle ferite materiali e psicologiche inferte alle città e ai loro abitanti. Per rifiutare la guerra occorre sforzarsi di pensarla; mentre rinchiuderla nel regno del puro irrazionale significa esporsi al pericolo del suo eterno ritorno.
Vorrei rievocare quella che mi sembra essere la grande intuizione di René Girard, che nel suo celebre saggio «La violenza e il sacro» scrive: «Per far cessare la vendetta non basta convincere gli uomini del fatto che la vendetta è odiosa; è proprio perché ne sono convinti che si fanno un dovere di vendicarla». Con queste paradossali parole Girard denuncia il rischio di un pacifismo ingenuo, che s’illuda di chiudere le porte della guerra con la semplice dimostrazione della sua dannosità sociale ed economica. Finché il conflitto è lontano, presentarne gli aspetti distruttivi svolge opera di dissuasione. Ma quando l’incendio s’avvicina, quegli stessi aspetti distruttivi diventano una potente spinta emotiva per mobilitarsi e rispondere alla minaccia. Non a caso, ogni ostilità tende a presentarsi come la risposta a un’aggressione precedente, con immancabili scambi di accuse su chi abbia cominciato per primo, come dimostra il dibattito storiografico, tuttora aperto, sulle responsabilità nello scoppio della prima guerra mondiale. Insomma, tutti sanno che la guerra è odiosa. Lo sanno talmente bene che, pur di evitarla, sono disposti… a farla. Questa considerazione può forse spiegare perché l’uomo, in fatto di guerra, sembra non imparare mai dalla sua storia.
Istruttiva è la vicenda del Novecento: è innegabile che l’«inutile strage » del primo conflitto mondiale abbia condotto a una messa in discussione della violenza in termini fino ad allora sconosciuti. Il Novecento è infatti il secolo dei movimenti pacifisti di massa, del magistero di san Giovanni xxiii, del beato Paolo vi e di san Giovanni Paolo ii, di personalità politiche della statura di Gandhi o di Martin Luther King. Ma è anche il secolo che ha conosciuto in assoluto più morti militari e civili e che ha vissuto sotto l’imperio della paura; paura dell’annientamento atomico prima, diventata oggi paura di un terrorismo che viene percepito come pericolo mondiale, anche oltre le sue effettive capacità militari.
Il nostro è quindi un tempo profondamente contraddittorio, sospeso tra aspirazioni sempre più nobili e pericoli sempre più brutali. Per realizzare le prime e scongiurare i secondi occorre allora chinarsi sulle radici profonde della guerra. Indagare da dove venga all’uomo la ricorrente tentazione della violenza è quindi essenziale per non ridurre tutto a una questione di congiunture sfavorevoli, cambiando le quali s’instaurerebbe una pace perpetua.
in “Trentino” del 12 aprile 2017