Nel tardo pomeriggio della giornata di San Valentino ho visitato il museo degli Uffizi, praticamente deserto. Allora il coronavirus era un fenomeno che riguardava soltanto Wuhan. All’aeroporto ci hanno misurato la temperatura, ma non c’erano ancora restrizioni sui viaggi e le persone che indossavano le mascherine erano davvero bizzarre. Mi ha piacevolmente sorpresa trovare Firenze così tranquilla. Ho pensato che fosse un periodo di bassa stagione: ecco il modo giusto per viaggiare.
 

La “Tebaide” (1418-20) di Beato Angelico è custodita agli Uffizi di Firenze

In quella visita, apparentemente lontana, un lungo e basso cassone con dipinto sopra La Tebaide attribuita a Beato Angelico (databile circa al 1420) aveva attirato la mia attenzione. La Tebaide è una raccolta di testi che narra le vite dei santi che, nei primi secoli del cristianesimo, si ritirarono nel deserto intorno alla città egizia di Tebe. Nel dipinto degli Uffizi è rappresentato un insieme di persone isolate, ognuna delle quali dichiara: “Voglio stare da sola”. Si rannicchiano nelle caverne, pregano su affioramenti rocciosi, si ritirano nelle capanne e fanno nidi sugli alberi. Altri, indeboliti, cadono in ginocchio. Se a prima vista il dipinto sembra quasi un risibile affollamento, alla stregua dell’attuale desolazione di Piccadilly Circus, una volta che si lasciano riposare gli occhi sulle scene in sequenza, si scopre che ognuno svolge qualcosa di discreto, completo e intimo. Potrebbero esserci svariate miglia tra di loro, eppure il distanziamento sociale è estremo.
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Sei settimane dopo. Adesso siamo tutti dei santi. La strada che dobbiamo intraprendere è quella degli asceti e degli anacoreti. L’isolamento è glorioso se viene cercato, ma non se viene imposto. Molti di noi, anche quelli abituati alla solitudine dello studio, della tana, della caverna, si sentono soli e spaventati. Dato che voli, treni, incontri, mostre, balletti e feste di compleanno sono stati cancellati, ho cercato conforto nelle immagini di eremiti nel deserto e di santi nelle loro celle. Il mio appartamento al sesto piano nel quartiere di Bayswater è lontano da Tebe, ma il dono dell’arte è quello di permettere alla mente di vagare, anche quando il corpo non può farlo.

Antonello da Messina, “San Girolamo nello studio”,1475 ca., National Gallery, Londra

È più difficile raggiungere la via contemplativa nell’era delle notizie continue. Questa è una virtù del deserto: non esiste wifi. Quello che occorre è un eroe che lavora da casa. Ho impostato, come sfondo del mio desktop, San Girolamo nello studio di Antonello da Messina (databile al 1475 circa). Girolamo, uno dei padri della chiesa occidentale, lo studioso che ha tradotto in latino l’Antico e il Nuovo Testamento, è seduto alla sua scrivania. In passato, fu un penitente nel deserto, dove ha rimosso una spina dalla zampa di un leone, mentre adesso si vede Girolamo ritirato serenamente in una spaziosa cella a Betlemme.
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Se avete mezz’ora da perdere – chi non l’ha oggigiorno? – provate a ingrandire l’immagine di questa opera sul sito della National Gallery. Viene svelata ogni piastrella e ogni simbolo di questo sublime quadro enigmatico: il pavone rappresenta il paradiso celeste; il gatto è in posizione di agguato, come il diavolo, per intrappolare le anime degli uomini; la coturnice, simbolo cristiano ed immacolato, rappresenta la concezione della fertilità. Attraverso la finestra di sinistra si intravvede l’attrazione dell’esistenza mondana: imbarcazioni da diporto, una lontana città, cavalieri e passanti lungo la riva del fiume. Dalla finestra di destra, sopra un irrequieto leone, c’è il deserto purificatore. Dal davanzale del lucernaio, gli uccelli prendono il volo. Come scrisse Girolamo, citando il Salmo 124: “L’anima nostra è scampata come un uccello dal laccio dei cacciatori: il laccio è stato spezzato e noi siamo scampati”.
La cella munita di colonne dove si trova Girolamo è un vero e proprio studio: libri appoggiati, alcuni sul dorso, altri con segnalibri. San Girolamo nel suo studio di Vincenzo Catena (databile al 1510 circa) è invece un uomo da un tomo alla volta. Il suo stanzino ordinato tiene volumi chiusi, candelieri, boccette e quella che pare un’invitante scatola di biscotti. Il santo sembra annuire. “Leggete spesso”, disse Girolamo ai suoi seguaci “e imparate tutto ciò che potete. Lasciate che il sonno vi accolga mentre siete con un libro in mano e permettete che la pagina sacra catturi la vostra testa abbassata”. San Girolamo nello studio di Jan Van Eyck (databile al 1435 circa), conservato nell’Institute of Arts di Detroit, è un messere. Il suo tavolo è ingombro: la penna cola sul panno, i libri sono posti in disordine sullo scaffale più alto. Nell’incisione di San Girolamo nella cella (datata al 1514) di Albrecht Dürer, il santo, dalle spalle larghe, è curvo su un leggio troppo piccolo. Il leone e il cane di Dürer sonnecchiano in un luogo soleggiato. È una situazione di pura concentrazione. Sintuisce che deve essere quasi l’ora del tè. Ne Il cardinale Albrecht di Brandeburgo come san Gerolamo nel suo studio di Lucas Cranach il Vecchio (datato al 1525)  l’umore è più di procrastinazione monastica: il cardinale Albrecht fissa lo spazio, il leone passeggia mentre il cane vuole camminare.
 

Lucas Cranach il Vecchio, “Il cardinale Albrecht di Brandenburgo come san Gerolamo nel suo studio”1525, Hessisches Landesmuseum, Darmstadt

Forse il santo di cui abbiamo più bisogno oggi è Sant’Antonio il Grande, padre fondatore del monachesimo cristiano e figura di santa guarigione. Quando la tosse persiste e il rotolo di carta igienica diminuisce, iniziate a pregare Sant’Antonio. Lo conoscerete per i suoi attributi iconografici: la campanella, la croce a tau e il maiale. Durante la vita solitaria intrapresa nel deserto, Sant’Antonio fu tormentato da visioni di denaro, gloria, cibo e vino. Il diavolo gli si presentava di notte come una bella donna o come un giovane ragazzo nero, assicurando di mostrarsi in differenti fornicazioni. Fu frustato e picchiato dai demoni, graffiato dai lupi, morso dalle vipere e punto dagli scorpioni. Il Dizionario dei soggetti e dei simboli nell’arte scritto da James Hall lo descrive così: “Come ci si potrebbe aspettare, la tentazione di Antonio ha suscitato molte immaginazioni artistiche”. In Le tentazioni di Sant’Antonio Abate di Jan Brueghel il Giovane, si vede in primo piano una moltitudine di diavoli. Nella parte centrale risaltano due splendide regine nude accanto al santo. Ma egli, senza farsi tentare, alza una mano. Sembra dire qualcosa come: “Per favore, lasciatemi leggere il libro”.
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Considerata la mia situazione attuale, il santo patrono che più mi si addice è Simeone Stilita il Vecchio. La vita di Simeone fu costellata da una serie di ritiri. Nella sua variegata vita ascetica, San Simeone, monaco cristiano siro dei primi anni del V secolo, si rinchiuse in una capanna, si incatenò a una roccia, visse sul fondo di un pozzo e trascorse gli ultimi 36 anni della vita in cima a una colonna in rovina alta 21 metri nel deserto siriano settentrionale. “Stilita” deriva dal pilastro greco “stylos”. Centinaia di pellegrini vennero a trovarlo e, se riuscivano a raggiungerlo, lo toccavano. Il British Museum ha una piccola collezione di “gettoni dei pellegrini” del VI e VII secolo: piccoli souvenir con impresse immagini di santi su scale prodotte in luoghi sacri. Il Louvre ha una placca d’argento battuta, originariamente parte del tesoro della chiesa sita nella città siriana Maʿarrat al-Nuʿmān, che mostra San Simeone seduto a gambe incrociate su un capitello corinzio e un serpente dorato che si snoda su per la colonna. Abbracciate l’anacoreta che è in voi, sebbene entro limiti ragionevoli. Nessuna chiusura a riccio. Nessun malumore. Nessun cilicio. Nessun flagello. Nessuna mortificazione e penitenza corporale di alcun tipo. È una punizione sufficiente aver esaurito le uova in casa.

*Questo articolo, riprodotto parzialmente, è stato pubblicato su “The Spectator” come “The art of the hermit”; la traduzione è di Caterina Rosa

 Laura Freeman, Scoprite l’eremita che è in voi, Pangea, 17 aprile 2020