Il documentario è stato in parte girato la scorsa estate presso il Centro Baobab di Roma – sgomberato nel dicembre 2015 dalle forze dell’ordine – esempio di centro di accoglienza autogestito dai cittadini romani, da cui sono passati numerosi migranti. Le riprese si sono poi spostate al presidio No Borders di Ventimiglia – anch’esso sgomberato dopo alcuni mesi di attività – in cui i migranti venivano accolti negli ultimi giorni di viaggio sul territorio italiano, prima del tentativo di superamento del confine francese.
L’intenzione del documentario è di fare un ritratto delle strutture autogestite
dai cittadini che si contrappongono categoricamente all’ondata di incontrollabile razzismo ed intolleranza che una parte degli italiani ha dimostrato negli ultimi anni, restituendo vita al senso di accoglienza, empatia ed umanità che ha spesso contraddistinto l’Italia.
Un’umanità e solidarietà, aggiungiamo noi, fortemente contrastata dal governo e che nella città ligure è stata ostacolata in tutti i modi, con le ordinanze che vietano perfino la distribuzione del cibo e con numerosissimi di fogli di via nei confronti degli attivisti che supportavano i migranti. La proiezione di “No Borders” può essere quindi un’occasione anche per raccontare questa storia nascosta dai media che si inserisce appieno nella nuova fase di gestione dei flussi migratori nel paese. Senza dimenticare che il 24 agosto si è assistito a un preoccupante “salto di qualità” del piano Alfano nelle operazioni di alleggerimento della pressione sui confini con il rimpatrio forzato di 48 profughi sudanesi.
I migranti sono stati catturati per le strade di Ventimiglia e fermati in frontiera mentre tentavano di superare il confine e immediatamente sottoposti a procedura di espulsione a mezzo della forza pubblica convalidata da un Giudice di Pace. Una operazione di rimpatrio forzato che rappresenta una grave violazione del divieto di espellere lo straniero verso paesi in cui questo potrebbe essere perseguitato, sottoposto a tortura o altri trattamenti inumani e degradanti (principio di non refoulement, art 3 CEDU) e del divieto di espulsioni collettive che impone di considerare individualmente la condizione dello straniero prima di procedere alla sua espulsione (art 4 Prot. 4 CEDU), principi cardine del sistema di tutela dei diritti umani.
Nel mentre succede tutto questo a Roma i migranti in transito dormono ancora all’addiaccio in via Cupa. E la stessa situazione si ripete a Milano, Como, Bolzano…
 
 
Intervista a Elio Germano
a cura di Angela Calvini

Un tema che sta a cuore a Elio Germano, storico attivista ora impegnato sul fronte dei diritti dei rifugiati. Lo abbiamo incontrato, infatti, alla Mostra del cinema di Venezia alle Giornate degli Autori per promuovere con passione un piccolo grande progetto in cui è il narratore, ovvero No Borders, il primo documentario in realtà virtuale, girato da Haider Rashid, regista fiorentino di origine irachena, sul tema dei migranti. Talmente coinvolgente, toccante e reale da vincere al Lido il premio MigrArti.
L’intervista
Pensa che le nuove tecnologie possano non solo essere intrattenimento ma aiutare a veicolare contenuti importanti?
«Certo, siamo in una fase di rivoluzione epocale. La prima volta che ho indossato una maschera col visore che mi proiettava in un viaggio interstellare, mi sono spaventato e l’ho tolta subito. A impressionare è la sparizione dell’individuo, totalmente immerso in un’altra realtà. Credo che sia lo stesso effetto che ebbero i primi spettatori davanti al treno dei fratelli Lumière. Ma dentro questa cosa preoccupante, si possono creare elementi per riportarla al reale».
Come in No Borders, dove ci si ritrova fianco a fianco con i migranti come se si fosse dei loro compagni di viaggio…
«Appunto, in questo documentario ci si ritrova accampati sugli scogli di Ventimiglia e, volgendo lo sguardo a destra e a sinistra, si vede ciò che sta intorno, gli attivisti No Borders da una parte e i poliziotti che li sgomberano dall’altra. O ci si ritrova in prima persona a servire alla mensa del Centro autogestito Baobab di Roma, sgomberato nel 2015, o sdraiati sotto un ponte con altri migranti che non hanno nulla. Tutto questo può rivoluzionare il modo di fare reportage, uscendo dall’appiattimento giornalistico, che riduce una tragedia a un fotogramma. La realtà virtuale ti porta a guardarti intorno e vedere oltre».
Come si è avvicinato al tema dei migranti?
«Mio nonno, contadino in un paesino del Molise, quando si trasferì a Roma negli anni 50 in cerca di lavoro venne arrestato perché non aveva il permesso di risiedere in città. Un trauma che ha segnato la famiglia. Ecco, lo stesso dramma personale oggi lo trasmettono ai loro figli tanti uomini che fuggono dalle guerre e che lo Stato italiano tratta come fuorilegge. Ma l’approccio dovrebbe ripartire dall’umanità».
Come fanno i volontari nel vostro documentario, dove si vedono fianco a fianco scout cattolici e no global al servizio dei migranti.
«Il volontariato e l’associazionismo stanno tenendo a galla questo Paese. Il ruolo della politica dovrebbe essere quello dell’ascolto. Scoprirebbe che tanti cittadini escono dall’individualismo e ritrovano umanità. Al posto di spingerci sempre l’uno contro l’altro, in una competizione sfrenata, dovremmo recuperare, e lo dico da molisano, quell’umanità che arriva dalla cultura contadina. Perché si è molto più felici nel donare che nel farci la guerra gli uni contro gli altri».
in “Avvenire” del 20 settembre 2016