Riportiamo alcuni contributi che affrontano la problematica del rapporto tra fede e violenza nei monoteismi ebraico, cristiano ed islamico. Nei testi sacri fondanti delle tre religioni coabitano riferimenti contraddittori che possono favorire una versione esclusivista e a volte guerriera del monoteismo. In particolare nella Torah e nel Corano sembrano coabitare due monoteismi differenti. Le vie della variante pacifica del monoteismo, nel contesto attuale, sembrano essere dominate da una retorica militarista, sia religiosa che laica. Se ancora nel 2015 si continua ad uccidere in nome della religione, è bene riflettere sulle relazioni tra il monoteismo e l’intolleranza e ritrovare la variante pacifica della fede.
Per riflettere su questi problemi, in un periodo segnato dal lutto dei tanti attentati terroristici, ci siamo rivolti non a rappresentanti ufficiali delle religioni, ma ad esperti, a critici letterari, ad etnologi e a sociologi che scrutano i testi, in particolare i testi sacri, perché ci dicano che cosa è fautore di violenza nel monoteismo.

 
Ritroviamo la variante pacifica della fede
di Thomas Römer
Le religioni monoteiste hanno una cattiva reputazione sulla stampa. Sono rimproverate di generare intolleranza, violenza e fanatismi. Per molti secoli l’avvento del monoteismo è stato tuttavia considerato un progresso intellettuale e filosofico nella storia dell’umanità. Grazie al monoteismo biblico istituito da Mosé, che è all’origine dell’ebraismo, senza il quale né il cristianesimo, né l’islam avrebbero visto la luce, si pensa che l’umanità ha abbandonato la divinizzazione della natura e si sarebbe liberata da una sottomissione superstiziosa agli elementi cosmici. Il monoteismo avrebbe così favorito l’autonomia dell’uomo e la sua capacità di controllare le forze naturali e cosmiche.
Non è un caso se il primo capitolo della Bibbia afferma che l’uomo (in quanto maschio e femmina) è creato a immagine di Dio e che gli compete di dominare il mondo e quanto contiene. Il monoteismo sarebbe responsabile delle catastrofi ecologiche che l’umanità ha incessantemente prodotto dall’inizio della rivoluzione industriale e delle «guerre di religione» che perdurano sino ad oggi?
Ricordiamo anzitutto che il termine “monoteismo” è apparso nella nostra lingua tardivamente. La Bibbia non conosce questo termine e neppure il suo opposto, «politeismo». Quest’ultimo termine sembra essere attestato per la prima volta in Filone d’Alessandria, filosofo ebreo del primo secolo dell’era cristiana. Quanto al concetto di monoteismo, sembra essere un neologismo del XVII secolo e sarebbe stato inventato dai platonici di Cambridge che volevano unire razionalità e approccio mistico del divino.
Henry More (1614-1687) utilizza il termine «monoteismo» per caratterizzare e difendere il cristianesimo contro il deismo [l’idea di un Dio senza legami con i testi sacri] ma anche contro l’accusa ebraica secondo la quale la dottrina della Trinità metterebbe in discussione l’idea dell’unità e unicità di Dio. Il vocabolo secondo questa prospettiva ha un carattere di esclusione, perché afferma che solo il cristianesimo rende testimonianza al solo vero Dio.
Al contrario, Henry Bolingroke sostiene che il monoteismo è l’esperienza originale di tutta l’umanità.
Per questo filosofo inglese, il monoteismo non sarebbe una specificità dell’ebraismo o del cristianesimo; tutti i sistemi religiosi e filosofici troverebbero le loro origini in un’idea monoteista. Si tratta dunque di una posizione inclusiva.
In questo modo l’idea monoteista può comprendersi in due maniere opposte: inclusiva e esclusiva. Queste due concezioni del monoteismo si trovano entrambe nei testi biblici. È sufficiente pensare alla figura centrale del pentateuco, Mosè.
 
Coabitazione religiosa
In numerosi racconti, Mosè appare come un essere violento. Nella storia del vitello d’oro, è iconoclasta, distrugge l’opera di suo fratello Aronne, la quale rappresentava Yhwh (Yahvé, Dio) sotto forma bovina. Ma fa anche massacrare una grande parte del popolo che aveva venerato questa statua di Yhwh. Mosè diventa così il campione di una religione intransigente. Nel Deuteronomio, ritenuto il suo testamento teologico, esorta i suoi destinatari a separarsi da altri popoli, a non contrarre matrimonio con loro, a distruggere i loro luoghi e oggetti di culto, e addisittura a sterminarli.
In alcuni passaggi aggiunti al Deuteronomio da scribi dell’epoca persiana, Mosè presenta Yavhé certamente come il Dio unico che ha creato il cielo e la terra, ma che tuttavia ha anche una relazione specifica con Israele, perché egli lo ha «eletto» come sua proprietà privata. Per questa ragione,
Israele deve separarsi dalle altre nazioni. Questo discorso deuteronomistico, messo in bocca a Mosè, corrisponde allora ad un monoteismo esclusivo.
In compenso, contrariamente al cristianesimo e all’islam che hanno ereditato questo concetto e lo hanno universalizzato, l’ebraismo non ha sviluppato una strategia missionaria per convincere o forzare altri ad aderire a questo Dio.
A lato del discorso segregazionista, si trovano nel Pentateuco, dei testi che riflettono una posizione di coabitazione religiosa. Così Mosè, che era scappato nel paese di Madian, sposa anzitutto Sephora, una straniera, per di più figlia di un sacerdote.
Nel libro dei Numeri, si parla di un matrimonio di Mosè con una donna Kushita [etiope]. E Miriam, sorella di Mosè che critica questa unione con una donna nera, è colpita da una malattia della pelle. Nello stesso contesto, Mosè è descritto come “l’uomo più umile su tutta la terra”, come se si volesse correggere il suo carattere collerico presente in altri testi.
Così coabitano nella Torah, legati alla figura di Mosè, due monoteismi differenti. Bisogna notare che le religioni monoteiste hanno sovente favorito la versione esclusivista e spesso guerriera del monoteismo.
È tempo di ricordare la variante pacifica, e di esplorarne le vie nel contesto attuale che, di nuovo, è dominato da una retorica militarista, sia religiosa che laica.

in “Le Monde” del 26 dicembre 2015 (traduzione: www.finesettimana.org)
 
 
Una violenza divina

di Nicolas Truong e Nicolas Weill
La credenza in un Dio unico è la fonte lontana dell’attuale ritorno del fanatismo? Mentre ancora nel 2015 si continua ad uccidere in nome della religione, riflettiamo sulle relazioni tra il monoteismo e l’intolleranza.
Gli dei sembravano essersi ritirati dal nostro Occidente disincantato. Le divinità sembravano essersi saggiamente eclissate dal nostro pianeta mondializzato. Ma ecco che nel 2015 l’assassinio di massa in nome di Dio arriva a colpire al cuore dell’Europa. Gli attentati di gennaio e poi le stragi del 13 novembre proprio a Parigi, lo scatenarsi spettacolare degli scontri sanguinosi nel Medio Oriente hanno messo di nuovo al centro dell’attualità il problema del legame tra terrore e credenza. “Ogni religione è basata su un capro espiatorio”, scriveva il filosofo René Girard (1923-2015) recentemente scomparso, che aveva posto il problema della violenza e del sacro al centro del suo pensiero.
Le grandi religioni monoteiste, quelle che aderiscono ad un Dio unico e universale, si trovano ormai sul banco degli accusati. Al di là delle configurazioni storiche e politiche del momento, non si potrebbe pensare che l’idea stessa di una potenza superiore “una”, sia all’origine delle atrocità che segnano spesso la storia della fede? Conquista di Canaan da parte di Giosuè guidato dal “Dio degli eserciti”, crociate ed inquisizioni, jihad e terrorismo sono malattie genetiche delle confessioni rivelate oppure devianze rispetto ad una dottrina monoteista che sarebbe al suo interno pacifica e disarmata?
Per riflettere su questi problemi, in questo periodo di feste segnate a lutto del dopo-Bataclan, ci siamo rivolti non a rappresentanti ufficiali delle religioni, ma ad esperti, a critici letterari, ad etnologi e a sociologi che scrutano i testi, in particolare i testi sacri, perché ci dicano che cosa è fautore di violenza nel monoteismo.
È la distinzione tra vera e falsa religione che Mosè stabilisce nel Pentateuco sul monte Sinai ad introdurre l’intolleranza in un mondo fino ad allora ricco di divinità che non si escludevano reciprocamente, si chiede l’egittologo tedesco Jan Assmann? Il biblista Thomas Römer ritiene piuttosto che una tradizione dimenticata di monoteismo aperto alla pluralità e pacifico è ben presente nella Bibbia, parallelamente ad una versione “segregazionista”. Gli scritti sono una cosa, la loro lettura un’altra. La sociologa Mahnaz Shirali insiste quindi sui pericoli di un “sapere canonizzato” che minaccia l’islam contemporaneo, mentre il critico William Marx è irritato nel vedere i musulmani “stigmatizzati” e rinchiusi in una “essenza fondamentalista”. Di fronte a questa guerra degli dei, non bisognerebbe, come l’etnologo Marc Augé, cantare “il genio del paganesimo”, refrattario al proselitismo?
Bibbia, Corano o Torah: nessun testo sacro delle grandi religioni monoteiste è esente da violenza. Per questo oggi il rischio risiede nella “tentazione della lettera grezza”, insiste lo storico dell’ebraismo Jean-Christophe Attias, che invita ad una “smilitarizzazione” dell’esegesi. L’avversario non è il monoteismo, ma il fondamentalismo in tutte le sue forme, riassume Jan Assmann. Sono tutti inviti a vivere credenze aperte alla pluralità dei mondi.
in “Le Monde” del 26 dicembre 2015 (traduzione: www.finesettimana.org)