Il 12 ottobre sarà il ventennale della morte di don Luigi Di Liegro, ma l’agiografia in cui è stato ingabbiato non restituisce la complessità del personaggio. Nel 2007 Canale 5 trasmise L’uomo della carità. Ebbe ascolti bassi, ma raggiunse l’obiettivo laico di addomesticare l’anomalia Di Liegro con il volto di Giulio Scarpati «noto principalmente per il ruolo di Lele Martini nella fiction Un medico in famiglia, secondo Wikipedia. Luigi era indubbiamente il prete dei poveri, ma era il suo carattere politico a dare scandalo.
LE BATTAGLIE
Ho conosciuto Luigi nel 1996, al tempo mi occupavo di senza tetto e l’amministrazione comunale stava aprendo le stazioni della metropolitana per i barboni: «Federi’, questi parlano di emergenza freddo, ma l’inverno arriva ogni anno», sentenziò con quel suo sorriso illuminato dagli occhi azzurri. Mi diede le chiavi di casa sua a piazza Poli per lavorare sul suo archivio privato. Voleva che l’aiutassi a scrivere un libro sul potere a Roma da presentare alla vigilia delle elezioni amministrative e con il grande Giubileo del 2000 alle porte. Insomma una bomba.
Nel 1993 incontrò sia Rutelli sia Fini («non mi ha mai guardato in faccia mentre parlavo perché c’era la partita del Bologna in televisione», raccontò riferendosi al secondo) e poi, con grande scandalo delle gerarchie ecclesiastiche, appoggiò il primo diventandone però presto uno dei principali critici. È vero che nel 2010 Rutelli e Fini si sono poi coalizzati con Casini nel Nuovo Polo per l’Italia, ma in quei giorni un neofascista rischiava di diventare sindaco di Roma e don Luigi aveva un peso politico importante. «Rutelli veniva da me in bicicletta», ricordava amareggiato, «io mi sono esposto, lui non ha mantenuto la parola sul sociale e a me l’hanno fatta pagare cara». Anche se i suoi nemici lo fecero, non era etichettabile come uomo di sinistra: «Meglio Andreotti di questi», commentava disgustato, «almeno lui i patti li rispettava». Luigi capiva che, da una città pubblica orientata ai servizi universali propria di Argan, Petroselli e Vetere, Roma stava tornando a essere la città del consumo degli anni bui.
Dalle sue carte emergeva il difficile rapporto con il Vaticano. Diceva che per capire e intervenire sulla realtà bisognava sporcarsi le mani. Era un realista nel senso che non faceva alleanze, ma trattative. Altrimenti negli anni di Sbardella non avrebbe mai realizzato cose straordinarie oggi impensabili con un centro-sinistra che nei quindici anni di governo ha usato la periferia come discarica per occultare le marginalità sociali. Così, a Villa Glori, aprì un centro per malati di Aids quando i Parioli non erano ancora diventati l’ultimo baluardo della sinistra.
Ci furono blocchi stradali e comitati di cittadini capeggiati dai missini Buontempo e Gramazio. Mentre il Cardinal Siri tuonava che l’Aids era un castigo di Dio, medici e professionisti della zona strillavano che il contagio si diffondeva nell’aria. Luigi fu minacciato di morte, una costante nella sua vita, ma quando sembrava che la partita di villa Glori fosse perduta, papa Woytila si schierò con lui. Di Liegro aprì anche un centro di ascolto in via delle Zoccolette, la mensa della Caritas a Colle Oppio, il dormitorio e il poliambulatorio in via Marsala, cioè nel cuore della Capitale e non solo nelle periferie abbandonate, a testimonianza che il centro storico non è una vetrina e che la città è di tutti.
LE ORIGINI
Era di Gaeta, di origini umilissime. Cosmo Di Liegro, suo padre, per scappare dalla miseria «provò più volte a entrare clandestinamente negli Stati Uniti come milioni di altri, ma fu sempre rifiutato come noi oggi rifiutiamo gli immigrati», dirà Luigi un giorno.
Nato nel 1928, entra presto in seminario dove lo soprannominano «Di Vittorio» perché si occupa da
subito di temi sociali. Negli anni ’50, Luigi è al San Leone Magno del Prenestino dove sarà accettato perché proletario. Nel 1958 è tra i minatori italiani in Belgio con la Gioventù operaia cristiana: pochi anni prima la Santa Sede ha condannato i preti operai, missionari in fabbrica e in tuta. I primi anni Sessanta portano la riforma scolastica che abolisce l’avviamento al lavoro (oggi reintrodotto) e il Concilio Vaticano II. Una rivoluzione. Luigi entra nella macchina vaticana a 36 anni diventando un prete potente, capo dell’ufficio pastorale della diocesi, e promuove un’inchiesta sulla religiosità a Roma dal risultato sconvolgente: i romani non hanno cultura religiosa e usano la comunità in senso clientelare.
Nel 1974, l’anno del referendum sul divorzio, don Luigi è tra i promotori del convegno sui “mali di Roma” («La responsabilità dei cristiani di fronte alle attese di giustizia e di carità»), destinato a cambiare la mentalità e le forme dell’associazionismo non solo cattolico. Nel convegno emerse il profilo – oggi purtroppo tornato attuale – di una Capitale indifferente e cinica piena di case senza gente (oggi circa 50.000) e di gente senza casa (circa 40.000) che viveva in stabili abbandonati e nelle baraccopoli. Quel convegno segnò le premesse per la nascita della Caritas, ma anche la carriera di don Luigi che non diventerà mai vescovo: nel 1976 Argan vinse le elezioni e dalla Dc si disse che fu colpa di quel prete.
FORZE CONTRARIE
Il 1984 è l’anno in cui il Papa commissaria la Cei con Poletti e Ruini e la Caritas viene di fatto liquidata. È un duro colpo per Luigi che nel frattempo inizia a lavorare con alcuni ex terroristi rossi. Nel 1990 scoppia il caso della “feccia immigrata” alla Pantanella e lui è di nuovo in prima linea, con la comunità musulmana, a chiedere riconoscimento politico per gli immigrati. Ma il 1990 è anche l’anno dei mondiali di calcio in Italia e si sprecano miliardi per rifare il trucco alle città. Di Liegro apre una trattativa con Andreotti trasformando la Pantanella in un caso nazionale. Finirà con uno sgombero per il decoro che Luigi definirà «deportazione», ma i riflettori sugli immigrati ormai sono accesi.
Il suo impegno per la città dimenticata gli creerà molti nemici e raffiche di calunnie, ma lui sarà prosciolto da ogni avviso di garanzia.
LA FINE
Un giorno della sua ultima estate rincasò alle tre di pomeriggio in una giornata torrida di luglio. Era infuriato con i medici del poliambulatorio della Caritas che non avevano fatto entrare un’africana incinta perché era ora di pranzo. E lui, sulla soglia dei settanta e reduce da ictus, era salito su un autobus infuocato perché i tassisti lo avevano rifiutato additandolo come l’amico dei negri e degli zingari, per far visitare la donna. «La Caritas sta diventando un ministero», sibilò.
Un amico mi comunicò la sua morte incitandomi a finire il libro perché tutti sapessero.
Ai suoi funerali nelle prime file c’erano i potenti che gli avevano voltato le spalle, la pletora di cardinali e la folla di miserabili in fondo e fuori dalla basilica di San Giovanni in Laterano. Un brivido corse lungo la schiena degli amici quando Ruini iniziò l’omelia: adesso si torna alla normalità, disse.
Ovviamente non ho mai scritto quel libro sui rapporti di Di Liegro con il potere, resterà il nostro segreto. Di Luigi ci manca la sua ruvida sincerità, la sua forza politica e lo sguardo limpido capace di trovare il compromesso per la causa dei più deboli senza mai abbassare la testa.
Di Liegro, la politica di un prete, di Federico Bonadonna, in “il manifesto” del 7 ottobre 2017