Il disastro contemporaneo (cui Cioran  aveva risposto oltre trent’anni fa in Gli Esercizi di ammirazione, apparsi nel 1986) ha un nome preciso: è la morte dello stile, l’esaurimento del legame inviolabile che stringeva, fino a giorni ancora memorabili, la bellezza alla poesia. 
Prendiamo queste riflessioni da un articolo di T. Scarponi: “Lo stile è Dio (e l’unica rivoluzione possibile, oggi, è onorare i grandi maestri”, apparso su Pangea, il 19 dicembre 2020. Nel pantano in cui siamo immersi è necessario recuperare lo stile: “La prima cosa, inappellabile, che lo stile impone è l’ordine della verticalità: precisamente ciò che, oggi, non può essere tollerato dalla società – questo coagulo di lordure che Simone Weil chiamava, con Platone, Grande Animale, identificandovi la Bestia che Giovanni vide a Patmos”.
 
 
Ma che cos’è lo stile?
Monica Ferrando ha di recente indicato l’unica risposta plausibile: lo stile è Dio; perché in Dio non esiste alcuno strappo, e nella lingua divina non vi è discontinuità tra parola e cosa, tra forma e contenuto. Così è anche nella poesia: «Inscindibile è il rapporto che intercorre tra il nome dello strumento, lo stilus, cannuccia appuntita da un lato, per scrivere e disegnare, e appiattita dall’altro, per cancellare, e l’idea che questa stessa parola dovrà trasmettere». Lo stile penetra e innerva la scrittura, come un fuoco divorante: lo stile purifica, illumina e distrugge dall’interno i filamenti dell’opera stessa – perché alla fine resti non l’opera, ma la sua idea, indicante la vampa purificatrice. Un’opera che non sia passata per questa galleria di dolore e letizia, non apparterrà mai ad alcuno stile. (Tornano alla memoria le parole di Cristina Campo: «ogni volta che leggo un grande libro assisto alla distruzione del linguaggio, vedo la parola levitare al disopra di tutti i linguaggi e non posare in ullo, come la lingua di Dante al disopra delle parlate italiane»).

La prima cosa, inappellabile, che lo stile impone è l’ordine della verticalità: precisamente ciò che, oggi, non può essere tollerato dalla società – questo coagulo di lordure che Simone Weil chiamava, con Platone, Grande Animale, identificandovi la Bestia che Giovanni vide a Patmos («Il Diavolo è il collettivo… È quanto indica chiaramente l’Apocalisse con la bestia, che è evidentemente il grosso animale di Platone»; «La Bestia è l’idolatria sociale»). A questo idolo, che adora solo se stesso, tutto deve essere sacrificato, e la prima minaccia ch’esso si appresta a debellare è appunto la verticalità immanente all’operato del fuoco, che eleggendo distingue il santo dai miasmi circostanti. («Rifiutarsi di ammirare è il marchio della bestia», diceva Gómez Dávila). Per questo la società ha partorito gli intellettuali: ignari di cosa sia stile – ma proprio per questo riconoscibili. Per appartenere a questa specie, oggi, non occorre più sopravvivere allo spettacolo del linguaggio distrutto; basta saper inanellare qualche concetto, più o meno logicamente. Essenziale per questa pratica è che nulla venga aggiunto al già detto, che si facciano ristagnare – e puzzare – le acque. La società, nel tempo, provvede a far sì che agli occhi della massa desolata, resa analfabeta dell’anima, tutto ciò appaia comunque opera di genio.

Che fare, allora?  «Bisogna agire per diminuire lo squilibrio? O solo astenersi dal fare qualsiasi cosa possa aumentarlo? 
Bisogna pensare l’equilibrio e, per quel che si può, farlo pensare; vedere lo squilibrio e descriverlo, se possibile, pubblicamente» (così la Weil). Occorre attaccarsi disperatamente ai grandi passati; oggi, per chi vuole scrivere, la pratica del florilegio è un imperativo. La venerazione dei giganti (a loro volta schiavi disperati della perfezione) è irrinunciabile; bisogna adorare coloro che la Campo chiamò ‘imperdonabili’, gli araldi dello splendore verticale, che la società non può che avversare. Imperdonabile è sapere che il reale si distribuisce su molti piani ascendenti. Imperdonabile è riconoscere la marginalità che in tale gerarchia occupa il visibile. Imperdonabile è eccedere il piatto livellamento con la kénosis di chi elegge un maestro, un’autorità sopra di sé. Imperdonabile, in sintesi, è l’umiltà che ogni narcisismo scarnifica. Ma se lo stile è Dio, eseguirne i comandi implica un cuore sgombro, capace di ascolto sottile, come fosse in preghiera.

Schiavi del narcisismo che obbliga ogni uomo a vomitare le miserie del proprio ego, oggi gli intellettuali non possono dire nulla che sappia vagamente di realtà. All’opposto, lo stile permette di testimoniare, con i mistici, il mondo come calco, come vuoto della presenza di un Dio che si sottrae ai sensi volgari proprio mentre, nell’estasi, l’orante ne gode la pienezza. Stile è, di nuovo, riflesso di questa incandescente voragine. (Stesso schema nel Mirouer des simples ames di Marguerite Porete, nella speculazione sufi di Najm al-din Kubrà e Ibn ‘Arabi, nella pittura di Rothko, dove l’irruzione dell’invisibile deriva dall’ossessione dell’artista per la basilica di Santa Maria Assunta di Torcello). Con le parole di Ferruccio Masini, germanista dimenticato, col cuore fisso a Oriente, «la scommessa della scrittura s’identifica con quella stessa della ricerca, o meglio di una conoscenza… il cui oggetto si dissolve continuamente proprio perché non riguarda l’atto di un pensiero che pensa qualcosa, ma quel non-oggetto, quella impossibilità di oggetto che si chiama “vuoto”» – come l’unico fine della pittura, il suo eterno tormento, è l’esigenza di dipingere uno spazio bianco, privo di qualsiasi segno: ritrarre l’infigurabile.
Per questo la memoria onorata dei grandi maestri è, oggi, l’unica rivoluzione possibile. E per questo un itinerario che annuncia il florilegio letterario come esigenza, necessariamente doveva esprimersi, a sua volta, in una costellazione di citazioni venerabili, le cui linee s’intersecano all’infinito, in un proliferare di motivi e pensieri che trovano ogni volta connessioni inattese e subito disciolte. Perché la verticalità dello stile è anche la linea mobile di un sottile filo scarlatto, delicatissimo, che lega i lombi dei vivi a quelli adorati dei morti; ma risalire mediante questo filo i motivi dello stile insepolto – praticando il florilegio, donando nuova voce ai maestri – significa svolgere quel gomitolo-talismano che la barbarie cerca, ancora invano, di trattenere.
 
*In copertina: Ambrosius Francken, “Martirio dei Santi Cosma e Damiano”, particolare
da: T. Scarponi: Lo stile è Dio (e l’unica rivoluzione possibile , oggi, è onorare i grandi maestri, Pangea, 19 dicembre 2020