Le festività natalizie fanno scattare, nel discorso mediatico, un meccanismo consolidato: come andranno le spese delle famiglie in regali, cibo e vacanze? Come andranno i consumi?
Non solo a causa delle difficoltà di quest’ultimo decennio il Natale è annoverato fra gli indicatori dell’andamento dell’economia. La dimensione religiosa della ricorrenza, e non sempre, si declina nell’intimità familiare, nel privato o confinato alle comunità dei credenti. Eppure, la religiosità, così come l’ideologia politica, costituiva un universo di valori per le persone. Un insieme di norme che contribuiva a guidare l’azione dei singoli. Permetteva la costruzione di un senso comune. Offriva un obiettivo condiviso per la costruzione della società e del suo futuro.
Religiosità e ideologie erano le narrazioni delle comunità che (e di come) si sarebbero dovute costruire. L’uso dei verbi al passato non è casuale. Perché tali pilastri hanno perso la loro valenza. La dimensione religiosa è attraversata da tensioni profonde. Già all’inizio degli Anni 60 il sociologo Sabino Acquaviva evidenziò un’«eclissi del sacro». All’orizzonte comune dei valori religiosi di riferimento si è sostituita una declinazione individuale che definiremmo «tailor made», dove ognuno ritaglia su di sé la morale religiosa in una sorta di «fai-da-te». Tant’è che siamo in presenza di «un singolare pluralismo» morale e religioso, così come definito da una ricerca curata da Garelli, Guizzardi e Pace (Mulino) nel 2000.
Un limbo collettivo
A distanza di quasi 20 anni da quell’indagine sono ancora mutate la religiosità e la spiritualità degli italiani?
Community Media Research, in collaborazione con Intesa Sanpaolo per «La Stampa», ha ripercorso alcuni dei temi sugli orientamenti religiosi degli italiani. Pur con le cautele del caso, tuttavia il raffronto con quanto rilevato all’inizio del secolo evidenzia come i processi di trasformazione allora rilevati si siano approfonditi. E, in generale, la società italiana mostri evidenti segni di una progressiva erosione della dimensione del sacro. Le dichiarazioni di appartenenza religiosa raccontano che la maggioranza della popolazione si dichiara ancora oggi cattolica (60,1%). Largamente minoritari sono quanti appartengono ad altre famiglie religiose (dagli islamici ai buddisti, dagli ebrei alle altre cristiane o non cristiane: complessivamente il 6,5%). Per contro, un italiano su tre (33,4%) non sente di appartenere ad alcuna confessione religiosa.
Fin qui, dunque, l’Italia parrebbe un Paese popolato da cattolici. Se è così, tuttavia, tale quota decresce significativamente dal 2000 di 19,1 punti percentuali, quando allora era stimata al 79,2%. Tale travaso, però, più che andare a vantaggio di altri gruppi religiosi, va ad alimentare l’area della non-appartenenza: il 33,4%, contro il 18,8% del 2000. Quindi, la religiosità cattolica coinvolge ancora una larga fetta della società italiana, ma è in contrazione. Non a vantaggio di altre culture religiose, quanto di una sorta di limbo. Un ulteriore riflesso della minore tensione all’appartenenza religiosa è riscontrabile nella frequenza ai riti e alle funzioni religiose. Gli «assidui»” (partecipano tutte le domeniche o almeno più volte al mese) sono il 25,6%, in calo di 24 punti percentuali rispetto al 2000 (erano il 49,6%). Crescono sia i «saltuari» (partecipano solo ad alcune occasioni o ogni 4-5 mesi: 47,0%, dal 34,9% del 2000) sia chi non frequenta mai (27,4%, era il 15,5% nel 2000).
Così, a una diminuzione del senso di appartenenza, consegue un minor grado di partecipazione ai riti delle comunità religiose. È interessante poi osservare come anche all’interno delle famiglie religiose le due dimensioni (appartenenza e partecipazione) non siano così scontate. Fra i cattolici solo il 39,4% è presente in modo assiduo ai rituali, quota però più cospicua rispetto a quanti appartengono ad altri gruppi religiosi (26,2%). I cattolici, quindi, paiono più fedeli, ma è una (larga) minoranza a partecipare con costanza ai momenti comunitari.
Vita spirituale
I processi erosivi della trascendenza nella vita quotidiana si colgono analizzando quanti ritengono di avere una vita spirituale e di credere in un’entità soprannaturale. In entrambi i casi otteniamo che un’ampia minoranza si riconosce nelle due dimensioni: il 45,4% sente di avere propria una vita spirituale, il 40,4% è religioso. Sommando queste affermazioni, identifichiamo quattro profili di religiosità. Il gruppo prevalente è dei «materialisti» (46,3%), che dichiara di non avere né una vita spirituale né religiosa, particolarmente presenti fra i 40enni (64,5%), assai più che fra i giovani (44,5%). Le caratteristiche opposte le troviamo nei «credenti» (34,5%), che sono il secondo gruppo, più diffuso fra gli adulti (oltre 55 anni: 43,4%). Fra questi due insiemi incontriamo quanti hanno una «spiritualità soggettiva» (11,1%), ma non riconoscono alcuna entità superiore. E, viceversa, chi ha un’appartenenza religiosa ispirata dalle consuetudini: la «religiosità culturale» (8,1%). Va sottolineato come la metà fra i cattolici (51,1%) rientri nel gruppo dei «credenti» e il 29,0% alberghi fra i «materialisti».
I processi di secolarizzazione proseguono la loro marcia. La perdita di intensità della dimensione del sacro lascia spazio a una materialità individuale e nelle relazioni, come denunciato dallo stesso Papa Francesco. Eppure il fenomeno dell’eclissi (del sacro) adombra come il lato oscuro nasconda un’altra realtà, che fatichiamo a vedere. Il pluralismo religioso e spirituale emerso dalla rilevazione è anche indice di una ricerca a fronte della perdita del tradizionale orizzonte di valori. È una nuova domanda di senso per l’epoca di trasformazioni che stiamo attraversando. Che richiede una grande opera di discernimento.
L’Italia smarrisce il senso del sacro e si riduce il numero dei cattolici, di Daniele Marin, in “La Stampa” del 22 dicembre 2017
 
Nota metodologica
Community Media Research, in collaborazione con Intesa Sanpaolo per La Stampa, realizza l’Indagine LaST (Laboratorio sulla Società e il Territorio) che si è svolta a livello nazionale dal 9 al 16 ottobre 2017 su un campione rappresentativo della popolazione residente in Italia, con età superiore ai 18 anni. Gli aspetti metodologici e la rilevazione sono stati curati dalla società Questlab. I rispondenti totali sono stati 1.561 (su 13.413 contatti). L’analisi dei dati è stata riproporzionata sulla base del genere, del territorio, delle classi d’età, della condizione professionale e del titolo di studio. Il margine di errore è pari a +/-2,5%. La rilevazione è avvenuta con una visual survey attraverso i principali social network e con un campione casuale raggiungibile con i sistemi CAWI e CATI. Documento completo su www.agcom.it e www.communitymediaresearch.it
 
 
“C’è chi vuole pregare e cerca il tempo e il luogo”
intervista a Carlo De Marchi
Don Carlo De Marchi è vicario della Prelatura dell’Opus Dei per l’Italia Centro Sud. Milanese, da 20 anni a Roma, ha un’esperienza di 10 anni di lavoro in una Ong di cooperazione allo sviluppo. Don De Marchi, lei ha pubblicato il saggio «La formula del buonumore».
Qual è la sua percezione sul crollo della dimensione religiosa? Quali sono le cause e i bisogni da cui deriva?
«Il crollo è un dato di fatto, anche se mi pare che papa Francesco vada più in là: la religiosità fondata sull’appartenenza di famiglia o di ceto sociale è finita. I luoghi tradizionali si svuotano? Andiamo a parlare uno per uno con chi sta fuori».
L’«eclissi del sacro» significa che la gente non cerca più il trascendente? Oppure ognuno ritaglia su di sé la morale religiosa?
«Il cristianesimo non è una morale. Sottolineo una linea di fondo: la lotta contro il perfezionismo. Non ci si salva con i propri muscoli, bisogna accettare i difetti propri e altrui. Il cristianesimo non è credersi perfetto, ma incontrare Gesù che salva le persone e le relazioni».
Quali sono i segni più evidenti di questo calo di religiosità?
«Esiste una certa suscettibilità negli ambienti di lavoro: c’è tolleranza su tutto, ma si nota imbarazzo appena si fa un cenno alla fede. È un imbarazzo che si scioglie quando si entra in dialogo a tu per tu. Non si tratta tanto di convincere i colleghi o il mondo, ma di condividere con gli altri un’esperienza».
I cattolici paiono più fedeli, ma è una (larga) minoranza a partecipare con costanza ai momenti comunitari. Questo che cosa significa?
«Ho un’esperienza, comune a tanti sacerdoti: ho condiviso sul web alcune meditazioni e ho notato con sorpresa che varie centinaia di persone le ascoltano. Vogliono pregare ma non trovano il tempo o il luogo. Per questo le ho chiamate “meditazioni in tangenziale”.
Anche un ingorgo si può trasformare in luogo sacro. I numeri globali calano, ma forse queste persone e famiglie stanno crescendo. Benedetto XVI parlava di creatività delle minoranze. Mi pare che il Vangelo anche oggi attragga, quando è presentato in modo autentico e personale. Il cristianesimo di facciata è in crisi, ma forse è meglio così».
La secolarizzazione è irreversibile in tempi brevi?
«I processi non sono irreversibili, anzi il trend è già cambiato. L’altro ieri pomeriggio sono stato cinque ore in confessionale. Dovunque un prete si mette ad ascoltare si crea una coda paragonabile alle auto in doppia fila per le spese natalizie».
a cura di Domenico Agasso jr, in “La Stampa” del 22 dicembre 2017