Superato il tempo dell’esclusione a priori per infirmitas sexus e, grazie al Concilio vaticano, spalancate le porte della partecipazione diffusa che già premeva, e per la quale molte donne erano già più che pronte, la presenza femminile nella vita ecclesiale è ora ampiamente tale e non di rado prevalente rispetto a quella maschile: nella catechesi, nelle istituzioni educative, nell’animazione liturgica, nei gruppi Caritas, nella pastorale familiare e battesimale… Questo non basta, tuttavia, a rendere superflua la riflessione su “donne nella chiesa oggi”. La conquistata normalità dell’esserci rischia infatti di mettere in ombra la vera questione di oggi, che riguarda la qualità, le condizioni, l’agio e il disagio che questo “esserci” porta con sé.
Occorre dunque abbandonare una volta per tutte, nella parola e nel pensiero, il singolare “donna”, perché le donne che abitano gli spazi ecclesiali non sono tutte uguali, anche se hanno tutte un corpo più o meno simile. Al tempo stesso è indubbio che, per il fatto stesso di essere nate con questo corpo, tutte ci troviamo a confrontarci con un’eredità di discorsi e convinzioni sul femminile prodotti in tempi molto diversi dal nostro ma dotati di una grande vischiosità, che condizionano anche pesantemente relazioni quotidiane e istituzionali, forme organizzative, strutture di pensiero, riflessioni teologiche.
Anche se variamente confezionate e abbellite con qualche aggiornamento di superficie, le dominanti di questa eredità sono quelle classiche della minorità e della specificità. Nello spettro che va dall’informale delle battute sessiste alla formalissima connotazione quasi esclusivamente maschile di tavoli di convegni, conferenze, seminari dei più importanti organismi ecclesiali, la difficoltà a concepire che le donne abbiano la medesima dignità e siano titolari di competenze e capacità pari a quelle degli uomini traspare in modo evidente.
Su un altro piano, ma nella stessa direzione, troviamo i discorsi basati su quello che qualche decennio fa si chiamava “lo specifico femminile”, oggi anche “genio femminile”. Ammesso che esso esista, infatti, se veramente fosse ritenuto necessario per la riflessione teologica, per la conduzione delle comunità, per l’annuncio del kérygma, per la lettura dei segni dei tempi, ecc., la chiesa cattolica sarebbe in assoluto il luogo della maggiore condivisione, in ogni ambito e a ogni livello, fra uomini e donne. Ma non è questa la situazione che viviamo; anzi, quando si esalta il genio femminile esso è giocato normalmente in funzione divergente, per la separazione. Agli uomini il governo, la razionalità, la deliberazione; alle donne l’intuito, la famiglia, la cura, la sensibilità, la capacità di soffrire. E mentre papa Francesco denuncia a più riprese la servidumbre femminile nella comunità ecclesiale, chiedendo spazi reali e ampi per le donne nei processi decisionali e nei luoghi di governo (e, prima ancora, nel modo di pensare)1, nella chiesa italiana sembra prevalere un orientamento diverso: si pensi, ad esempio, alla compattezza a senso unico con cui parrocchie, diocesi e uffici pastorali di vario livello accordano legittimazione e risonanza alle teorie di Costanza Miriano (2), o anche al diffuso e infastidito negazionismo riguardo alle teologie e alle prassi misogine documentate nella chiesa di ieri e documentabili in quella di oggi. C’è tutto questo nell’aria che respiriamo come donne cattoliche, e al tempo stesso ci sono i percorsi personali, gli studi e gli incontri extra-ecclesiali, i modelli e gli esempi ricevuti, i contesti formativi e comunitari in cui ci si è trovate a crescere, i processi e i bisogni da cui si è originata ogni personale sintesi fra soggettività e tipo di fede e di impegno ecclesiale.
Il panorama si presenta dunque molto variegato.
Sul piano delle autorappresentazioni consapevoli è evidente una prima, grande faglia. Da una parte, ci sono donne che scelgono convintamente la secondità o quantomeno una forma di “specificità” in linea con quella separazione degli ambiti e delle attitudini cui si accennava prima, sostenendola con argomenti di tipo essenzialista, che dal discorso antropologico travalicano in quello ecclesiologico (3). Va da sé che questa scelta porta, sul piano delle relazioni, il vantaggio di non mettere in discussione lo status quo (che è di origine storica, e non evangelica), e quindi di godere di un’ampia accettazione da parte soprattutto degli uomini di chiesa. Dall’altra, molte donne esprimono il disagio causato da orizzonti simbolici e prassi ecclesiali escludenti; ma sia l’espressione del disagio che la proposizione di studi, riflessioni e pratiche alternative comportano costi — dal sorriso paternalistico alla marginalità nei contesti accademici — che non tutte vogliono o sono in grado di fronteggiare (4).
Il quotidiano esserci e operare delle donne nella comunità ecclesiale mostra poi ulteriori elementi di complessità, anche volendo lasciare da parte il pur grave fenomeno dell’abbandono, da parte delle donne giovani, della partecipazione alla vita della chiesa: un processo segnalato da qualche anno ma in corso da decenni. Quelle che rimangono sostengono gran parte della vita concreta delle parrocchie, spesso ne sono l’anima; tuttavia, per molte — spesso insospettabili — la dedizione e la costanza convivono con una percezione acuta di quello che viene senza mezzi termini definito “maschilismo della chiesa”. Alcune sopportano, altre compatiscono e ironizzano, altre provano, quando ce n’è l’occasione, a reagire. Ma la questione che dovrebbe interrogare tutto il popolo di Dio è come mai, nonostante la presenza ormai indispensabile di tante donne, non solo la chiesa sia percepita all’esterno come maschilista, ma questa percezione sia confermata dalle cattoliche stesse. La domanda è rilevante, se non altro perché una tale situazione è, secondo molte coscienze credenti, in contrasto con il Vangelo. Le possibili risposte coinvolgono una complessità di fattori e processi che non sono circoscritti alla discriminante del sesso per i ministeri ordinati e istituiti, ma si manifestano, ad esempio, nelle narrazioni che — nonostante la testimonianza biblica — tramandano come unici protagonisti della storia della salvezza gli uomini, dai patriarchi della Genesi agli evangelizzatori delle prime comunità cristiane; traspaiono nella selezione dei modelli — l’esaltazione di Maria e l’oscuramento e la distorsione della figura e del ruolo di Maria Maddalena, come anche di Marta —; condizionano la percezione di Dio ogni volta che la sua paternità è interpretata, immaginata e rappresentata antropomorficamente come maschilità.
Fa poi ovviamente parte del vissuto delle donne nella chiesa il tema del potere.
Normalmente, quando la questione viene posta o si teme che sia sul punto di esserlo, essa viene blindata da reazioni che evocano peccaminose rivendicazioni e funeste cupidigie degne della progenitrice cacciata dall’Eden. In realtà, come l’esperienza mostra continuamente, le donne che chiedono una riflessione condivisa sul potere sono generalmente quelle che non ambiscono affatto a possederne una fetta, ma portandolo alla luce, e sottolineando come su di esso si sia storicamente costruita la soggettività maschile, sollecitano a vantaggio di tutti e di tutte un ripensamento complessivo delle relazioni ecclesiali e il cammino verso una comunità realmente fraterna e sororale, in cui il servizio non sia paravento retorico ma reale orientamento per le soggettività maschili e femminili e per le loro reciproche relazioni.
Meno lineare è il processo che si può osservare invece tra le donne che si oppongono, biasimandolo, a qualsiasi discorso sul potere perché esso sarebbe estraneo al sesso femminile, vocato, per natura e per volere di Dio, ad altro. Accade però che in molti casi troviamo poi proprio queste stesse donne, singolarmente, a esercitare pezzi di potere informale ma inaggirabile concessi loro dagli effettivi detentori (il clero, ad esempio) in cambio di un’acquiescenza silenziosa allo status quo. Solitamente questo modo di stare da donne nella chiesa ha come corollari sia l’assenza di interesse, e non di rado la palese resistenza, a condividere con le altre gli spazi “conquistati”, sia la difficoltà a confrontarsi alla pari con donne che abbiano fatto scelte differenti.
Non siamo di fronte a “beghe femminili”, ma a manifestazioni di quelle intricate dinamiche di genere che solo con uno sguardo che non si fermi al sesso si possono cogliere, interpretare, orientare. E lo stesso vale per le “beghe maschili” e per la difficoltà degli uomini di chiesa, ancora, a vedere l’altra “di fronte a sé” e a sentirsi a propria volta “altro”.
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*Rita Torti è laureata in storia contemporanea, socia aggregata del “Coordinamento delle teologhe italiane”, si occupa di studi di genere e collabora con enti pubblici, scuole, realtà ecclesiali e associazioni che intendono riflettere sugli aspetti storici, culturali, religiosi ed educativi del rapporto tra donne e uomini. Su questi stessi temi svolge attività pubblicistica, ed è autrice della ricerca Mamma, perché Dio è maschio? Educazione e differenza di genere (Effatà, Cantalupa TO 2013).
Note
1. Si vedano, ad esempio, i miei due contributi: «Genere», in A. Carriero (a cura di), Il vocabolario di papa Francesco, Elledici, Torino 2015, e «Donne», in A. Carriero (a cura di), Il Vocabolario di papa Francesco 2. Parole profetiche per il nostro tempo, Elledici, Torino 2016.
2. Su questo caso specifico, e in generale sul modo parziale e distorto con cui le donne sono considerate nella chiesa, condivido molte delle riflessioni di S. Segoloni, Tutta colpa del Vangelo. Se i cristiani si scoprono femministi, Cittadella, Assisi 2015.
3. Si vedano in questo senso gli statuti di alcune famiglie religiose di recente fondazione, in particolare quelle nate per offrire, proprio in quanto donne, servizio e sostegno ai “sacerdoti”; ma anche i casi di realtà miste in cui, ad esempio, le “sorelle” vivono come naturale e normale che il compito loro assegnato sia quello di apparecchiare con grazia la tavola mentre i “fratelli” sono incaricati di spiegare la parola di Dio. Molte altre consacrate di diverse famiglie religiose esprimono invece una femminilità e una coscienza di sé molto diverse.
4. Un sostegno importante per uscire dalle secche dell’impotenza reale o percepita viene da quelle realtà che favoriscono la condivisione del pensiero e la sinergia delle risorse umane e intellettuali, come, ad esempio, il Coordinamento teologhe italiane.
Donne nella chiesa di oggi, di Rita Torti, in “Servitium” n. 228 del novembre/dicembre 2016