Sono più di due miliardi oggi nel mondo coloro che si professano cristiani. Tale numero è destinato sicuramente a diminuire se si considera chi, tra questi, mette in pratica realmente nella propria esperienza di vita i consigli evangelici. C’è chi, infatti, concepisce la fede in Cristo secondo la propria forma mentis, accentuando così in base alle proprie preferenze, o l’aspetto idealistico, o quello etico sociale oppure quello cultuale. L’autentica testimonianza di fede, invece, consiste nella piena conformazione a Cristo, trasformando così colui che recepisce la Parola di Dio come un alter Christus.
La canonizzazione di monsignor Oscar Romero, avvenuta ad ottobre del 2018, ha rappresentato proprio un autentico esempio di come il discepolo si è reso simile al maestro, offrendo la propria vita  per il bene dei fratelli. Una fede, dunque, non intesa “come una qualsiasi dedizione, temperata dal giudizio del momento e manipolata dall’uomo, ma un’anticipazione dell’offerta della vita in ogni singola situazione di una esistenza cristiana”.
Lo svuotamento di se stessi, al fine di riempirsi dell’amore di Cristo, richiede però l’armonia tra pensiero e azione. E’ in questo modo, infatti, che Gesù si è rivelato : “la manifestazione di Dio humanis gestis verbisque  stabilisce una struttura costitutiva del fatto cristiano”, e in questo senso allora, “l’incarnazione rimane il punto di partenza, il punto centrale di ogni fede cristiana”.
San Romero facendo proprio il principio dell’incarnazione, è diventato un collaboratore di Cristo nell’intento di continuare nel tempo a costruire il regno di Dio. Ma il regno di Dio concepito da Romero, è il regno rivelato da Cristo attraverso le beatitudini e l’osservanza degli insegnamenti della dottrina sociale della Chiesa. Il suo orientamento teologico e pastorale è rimasto sempre in sintonia con il magistero ecclesiale ( Sentir con la Iglesia), senza inquinamenti di tipo ideologico.
Per molti, invece, il suo impegno nel sociale è stato etichettato come impegno politico a sostegno dei movimenti popolari rivoluzionari di area marxista, per altri, la sua appartenenza alla Chiesa e il suo attaccamento all’identità sacerdotale, ha significato una propensione verso il conservatorismo ecclesiale.
L’errore che è stato compiuto con monsignor Romero, e che da secoli si ripete sempre sia in campo ecclesiale che in ambito politico, è quello di ridurre e subordinare il proprio giudizio sulla realtà e sulle persone, alla tipica dicotomia compendiata  all’interno della categoria   deduttivo/induttivo.  Procedendo di questo passo, si finirebbe per diventare, secondo un esempio di Jacques Maritain, o Ruminanti della Santa Alleanza nel primo caso, o Montoni di Panurgo nel secondo.
I primi “sbarrano la strada a pericoli incombenti, chiudono porte, erigono dighe”; i secondi “sono soprattutto scossi dal rispetto umano: fare come tutti, almeno come tutti quelli che non sono fossili”.
Se nei primi, dunque, è evidente una sorta di fissismo ultra metafisico, nei Montoni di Panurgo, si evidenzia, invece, una sorta di allergia verso ciò che rappresenta l’essere, preferendo ciò che non è a ciò che è. La visione del reale in quest’ultimo caso è lasciata al giudizio esclusivo delle scienze sociali, in particolare alla sociologia, o meglio al sociologismo, “ dove la persona sarebbe subordinata al gruppo sociale considerato più importante della persona”.
L’analisi non può ridursi a descrivere il semplice fatto, altrimenti vi sarebbe una subordinazione dell’etica all’“estetica”, ma è necessario interpretarlo e valutarlo mediante l’applicazione di “una metodologia fenomenologico-ermeneutica veritativa”.
Emerge allora l’importanza del discernimento, che non consiste nella vittoria di una parte o dell’altra, ma in “un operazione morale prima che intellettuale”. Assolutizzare l’osservanza dei principi e delle norme al fine di mantenere l’integrità della dottrina, oppure estremizzare il desiderio di riformare continuamente con lo scopo di raggiungere livelli maggiori di evoluzione e progresso, comporterebbe un impedimento nella costruzione della pace sociale e del bene comune. Verrebbe meno il dialogo costruttivo tra le varie parti sociali perché si agirebbe solo per far prevalere le proprie convinzioni, sbarrando cosi la strada alla realizzazione di una visione cristiana dell’uomo.
Quanto compiuto dall’arcivescovo salvadoregno, invece, esula completamente da queste contrapposizioni ideologiche: la sua figura, se analizzata in chiave ermeneutica- esistenziale, dimostrerebbe quanto il suo modo d’agire sia stato caratterizzato fortemente dal connubio tra universale e particolare, o meglio, dall’applicazione di qualcosa di universale a una situazione concreta. Anche prima della sua famosa “conversione pastorale”, avvenuta dopo la morte di padre Rutilio Grande, ma da monsignor Romero stesso meglio definita come “sviluppo del processo della conoscenza”, era presente in lui un’attenzione particolare verso chi viveva in situazioni di disagio sociale: “ visitava regolarmente i carcerati, aiutava le prostitute a lasciare la strada e gli alcolisti anonimi a smettere di bere, visitava ogni settimana i malati in ospedale”. Ma, oltre a questo, già iniziava a denunciare il trattamento ingiusto nei confronti dei contadini e degli operai da parte dei proprietari terrieri e delle imprese, che facevano capo alle famiglie dell’oligarchia del paese.
L’accusa di intromissione nella politica e nelle questioni sociali, soprattutto durante il suo episcopato, quindi, già verrebbe meno, in quanto anche da sacerdote, Romero, aveva dimostrato una grande sensibilità per le tematiche sociali che di riflesso andavano inevitabilmente ad incidere in ambito politico. Era molto chiara in lui la distinzione  tra Dio e Cesare, riconoscendo allo Stato e alla Chiesa la propria sovranità e indipendenza: “la Chiesa non si occupa delle leggi dello Stato perché non sono di suo dominio; ma qualora le leggi dello stato calpestassero la legge divina, allora la Chiesa le condannerebbe e proibirebbe ai cattolici di servirsene”. Era fortemente contrario alle ingerenze del potere civile in campo ecclesiale, stigmatizzando sempre la collusione tra le due sfere al fine di realizzare un compromesso di soli interessi a scapito delle classi sociali più povere.
Il vero mantenimento dell’ordine sociale per monsignor Romero, dipendeva esclusivamente dalla conversione del cuore; dall’amore verso i fratelli, sia ricchi, sia poveri, secondo la prospettiva evangelica. Non era schierato politicamente, anche se ha lasciato sempre trasparire una simpatia per il partito democristiano del Salvador, da cui qualche volta rimase anche deluso quando mostrava poco coraggio nel denunciare i soprusi del governo contro il popolo in protesta.
Romero considerava la democrazia come la forma di governo migliore per il perseguimento del bene comune, e qualsiasi partito politico si fosse impegnato per raggiungere questo nobile scopo era ben accetto. Forse negli ultimi anni della sua vita,  a causa della feroce repressione della giunta militare contro le classi popolari, non disdegnava  le modalità pastorali e il forte richiamo alla giustizia sociale delle comunità di base, soprattutto perché rivedeva in esse un approccio al Vangelo simile a quello delle  comunità cristiane primitive. Secondo il parere di alcuni critici, però, non riuscì ad impedire la deriva ideologica di questi movimenti, che in molti casi aderivano espressamente al pensiero marxista.
La sua visione comunque è apparsa sempre molto chiara ed era fondata sulle direttive presenti nei documenti del Concilio Vaticano II e delle conferenze di Medellin e Puebla: “fede e politica devono essere unite nel cristiano che ha vocazione politica, però senza identificarsi. La Chiesa desidera che ambedue le dimensioni siano presenti nella vita complessiva dei cristiani, per questo ho dovuto rammentare che non è vera fede quella che vive separata dalla vita. Il cristiano con vocazione politica deve realizzare una sintesi tra fede cristiana e l’azione politica, ma senza identificarle. La fede deve ispirare l’azione politica del cristiano, tuttavia senza confondersi […]. La Chiesa  non si identifica con nessun movimento, alcun partito, alcuna organizzazione. Un vescovo non è un uomo politico. La mia prospettiva è pastorale ed è fondata sul Vangelo”.
La partecipazione dei cristiani alla vita politica è un’ “obbligazione morale”, e questo Romero lo sapeva bene, perché partecipare alla vita politica seguendo gli insegnamenti evangelici significherebbe  collaborare alla umanizzazione del mondo per edificare una società più giusta e fraterna. Il cristiano ha il dovere, dunque, di denunciare ogni tipo di ingiustizia volta a ledere la dignità umana e a promuovere il miglioramento delle condizioni di vita di tutti gli uomini.
Tutto ciò corrisponde con quanto scritto da papa Francesco in Evangelii  Gaudium al numero 218: “La pace sociale non può essere intesa come irenismo o come una mera assenza di violenza ottenuta mediante l’imposizione di una parte sopra le altre. Sarebbe una falsa pace quella che si servisse come scusa per giustificare una organizzazione sociale che metta a tacere o tranquillizzi i più poveri, in modo che quelli che godono di maggiori benefici possono mantenere il loro stile di vita senza scosse mentre gli altri sopravvivono come possono. Le rivendicazioni sociali […] non possono essere soffocate con il pretesto di costruire un consenso a tavolino o un’effimera pace per una minoranza felice. La dignità della persona umana e il bene comune stanno al di sopra della tranquillità di alcuni che non vogliono rinunciare ai loro privilegi. Quando questi valori vengono colpiti, è necessaria una voce profetica”.
Oscar Romero rappresenta proprio questo modello di voce profetica e, forse, il Santo Padre implicitamente ha preso proprio spunto dal contributo dell’arcivescovo di San Salvador nella difesa dei diritti dei più poveri, nel suo riferimento al documento sopra citato. Del resto li accomuna una forte identità latinoamericana, una sorta di sano patriottismo, completamente diverso dal nazionalismo, che comprende i vari ambiti nazionali: sociali, storici, culturali e religiosi.
Per noi europei non è facile capire il significato di questa appartenenza, spesso rinvigorita proprio dallo sfruttamento delle potenze occidentali verso i paesi del continente latinoamericano. Bisognerebbe aver vissuto in quei contesti, osservando dal vivo ciò che realmente è accaduto, prima di dare dei giudizi, che tra l’altro nella maggior parte dei casi risultano essere precostituiti sulla base di concezioni ideologiche.
Romero non era un marxista, né era un sostenitore dei partiti vicini al liberal capitalismo.  Cercava il dialogo con tutte le forze politiche presenti nel paese e, anche sul versante ecclesiale, rifacendosi alla corretta interpretazione del Concilio, cioè quella dell’aggiornamento nella continuità, vedeva di buon occhio l’unità tra tradizione e progresso. Egli sapeva bene quali erano i rischi del comunismo e del capitalismo: “il comunismo pretende di generare una nuova specie di uomini[ …. Il segno specifico dell’uomo è la religiosità[…]. Senza la religione l’uomo non è più di un animale. Ebbene, il comunismo questo vuole: “sradicare dall’uomo ogni sentimento religioso”. Contro ogni forma  politica fondata sull’accumulo e produzione ingente di ricchezza, invece, così inveiva: “l’assolutizzazione della ricchezza colloca l’ideale dell’uomo ‘nell’aver più’e pertanto diminuisce l’interesse per ‘essere più’, che deve essere l’ideale del vero progresso dell’uomo e del popolo. Il desiderio assoluto di ‘aver di più’ fomenta l’egoismo che distrugge la convivenza  fraterna dei figli di Dio. Perché questa idolatria della ricchezza impedisce alla maggioranza di servirsi dei beni che il Creatore ha fatto per tutti e porta la  minoranza che tutto possiede a un esagerato godimento di questi beni”.
Romero vedeva, dunque, nel magistero sociale della Chiesa quella via alternativa al liberalismo e al socialismo: “il liberalismo aveva dimostrato la sua impotenza a dirimere l’acuto problema; di più, lo aveva anzi creato. Il socialismo offriva dei rimedi che erano piuttosto dei veleni che aggravavano la situazione”. Anche in ambito ecclesiale esprimeva la sua posizione di distacco da queste due visioni ideologiche: “la Chiesa non può farsi complice di nessuna ideologia che tenti di creare  già su questa terra il regno in cui gli uomini siano completamente felici. Pertanto la Chiesa non può essere comunista. La Chiesa nemmeno può essere capitalista, perché il capitalismo ha pure uno sguardo miope, ponendo la felicità, la passione, il proprio cielo, nella terra, nei palazzi, nel denaro, nelle cose di questo mondo”. Un chiaro riferimento, quindi, ai compromessi della Chiesa con i governi conservatori di destra al fine di mantenere lo status sociale e, però, anche alle deviazioni della teologia della liberazione in chiave ideologica, attraverso la riduzione del Vangelo a prassi rivoluzionaria: “ci sono giovani i quali non credono che con l’amore delle Beatitudini si farà un  mondo migliore, ma scelgono la violenza, la guerriglia e la rivoluzione. La Chiesa mai sarà su questa strada, sia ben chiaro ancora una volta”.
Il bene comune per Romero può essere raggiunto solo attraverso il dialogo tra le varie componenti sociali. Per questo sosteneva che l’unico mezzo valido a creare un’armonia tra le classi, fosse la conversione dei cuori (concientizazion), mediante la quale tutti i cittadini agiscono secondo il principio della carità cristiana.
Dal 26 a 28 marzo scorso, ad Assisi, si sarebbero dovuti incontrare 2000 giovani economisti, imprenditori e sindacalisti di tutto il mondo, convocati da papa Francesco, con l’intento di concepire un nuovo modello di sviluppo inclusivo ed equo, capace di sostenere lo sviluppo integrale della persona, la salvaguardia dell’ambiente, delle relazioni comunitarie e dei diritti. A causa della pandemia in atto l’evento è stato rimandato a novembre. Guardare al modello pastorale già adottato da sant’Oscar Romero, per cui tra l’altro ha offerto la propria vita 40 annifa, potrebbe rappresentare una valida alternativa, dunque, “al modello economico che uccide, basato solo sul self-interest”.
Marco Mancini