Tra i più noti filosofi francesi, ricercatore presso l’École des hautes études en sciences sociales di Parigi e a lungo direttore di Le Monde des religions, una delle riviste europee che meglio hanno cercato di affrontare negli ultimi anni sia gli aspetti sociali che quelli spirituali della fede, Frédéric Lenoir è l’autore de L’anima del mondo, Bompiani, (pp. 238, Euro 14) un testo che arriva oggi in libreria e che racconta di come sette persone, appartenenti a sette «mondi religiosi» diversi possano incontrarsi di fronte al caos e alla guerra che regnano sul pianeta per cercare quella che i filosofi dell’antichità chiamavano l’«anima del mondo»: la forza per cercare insieme pace e armonia.
Prevedendo l’imminente fine del mondo, sette saggi provenienti dai quattro angoli del mondo si incontrano a Tulanka, un monastero sperduto tra le montagne tibetane, per trasmettere a Tenzin e Natina, due giovani adolescenti, le chiavi della saggezza universale. Al di là delle differenze culturali e storiche delle loro rispettive tradizioni, i sette saggi si lasciano ispirare da quella che i filosofi dell’antichità chiamano l’“anima del mondo”: la forza misteriosa e buona che mantiene l’armonia dell’universo. Il loro messaggio filosofico e spirituale risponde agli interrogativi cruciali che si pone ogni essere umano: qual è il senso della mia esistenza? Come conciliare le esigenze del mio corpo con i bisogni della mia anima? Come imparare a conoscere me stesso e a realizzare il mio potenziale creativo? Come passare dalla paura all’amore e contribuire alla trasformazione del mondo? Una storia che, lontano da ogni dogmatismo, conquista i lettori con la forza di un grande racconto iniziatico e la potenza di un messaggio rivolto all’umanità, che tocca il cuore e la mente.
 
I prescelti in attesa dell’apocalisse
intervista a Frédéric Lenoir 
All’indomani della strage di venerdì scorso, Alain Touraine ha spiegato come l’atteggiamento degli jihadisti sia profondamente religioso, ma in senso fanatico, apocalittico. Qualcosa che nelle società secolarizzate si fatica perfino a comprendere. È così?
Daesh come già Al Qaeda rappresentano gruppi musulmani estremisti che pensano di poter provocare con le loro azioni il caos e, per questa via, la fine del mondo. I loro sforzi sono tutti concentrati su questo: sul tentativo di avvicinare nel tempo l’avvento dell’Apocalisse. Non si tratta di un fenomeno che riguarda solo gli ambienti islamici, basti pensare al peso che hanno avuto i fondamentalisti evangelici statunitensi nel sostenere o favorire le guerre condotte dall’amministrazione Bush o simili tendenze emerse in seno alla destra israeliana. Il problema è che presso gli integralisti musulmani queste spinte contribuiscono ad alimentare forme di terrorismo sempre più feroce, come si è visto a Parigi, nella prospettiva di suscitare una guerra globale tra tutte le nazioni del mondo che porti alla fine dei tempi.
 
I giovani jihadisti cresciuti in Europa sembrano cercare una sorta di «purificazione» rispondendo all’evocazione da parte dei propagandisti dell’Isis di nozioni come quella del ritorno alle radici della fede o dell’abbandono della vita mondana. Di cosa si tratta?
Oltre che a decriptrare l’interpretazione fanatica della fede che viene utilizzata alla stregua di un’ideologia in questi gruppi, credo che per capire le dinamiche seguite da chi vi si avvicina ci si debba volgere al funzionamento delle sette. Parallelamente al processo di progressiva secolarizzazione delle nostre società, penso perlomeno all’ultimo mezzo secolo, abbiamo visto emergere il fenomeno delle sette e delle figure che sentono il bisogno di seguire quello che considerano come un percorso di «purificazione», in nome del quale arrivano molto presto ad una radicalizzazione delle proprie idee come del proprio stile di vita. Persone simili le troviamo anche presso le frange integraliste di tutti i gruppi religiosi, basti pensare ai tradizionalisti cattolici, ma, ripeto, il percorso seguito dagli apprendisti jihadisti si avvicina soprattutto a quello degli appartenenti al mondo delle sette: pensano che possono purificarsi o avvicinarsi a Dio allontanandosi dal resto della società e isolandosi anche rispetto ai loro affetti e alle loro famiglie. Per taluni, tutto ciò assume la forma di un rigetto della società materialistica in cui vivono, a cui oppongono un mondo segnato dal sacrificio e dal fanatismo, fino all’estremo di preferire la morte alla vita.
 
In questi anni lei ha analizzato a più riprese il rapporto tra psicologia e religione. A quali bisogni interiori ritiene risponda questo tipo di percorso?
In passato ho studiato a lungo le traiettorie seguite dagli adepti di alcune sette radicali e mi sono reso conto che l’elemento comune a tutti costoro era rappresentato dal fatto di soffrire di vere e proprie ossessioni, di essere molto inquieti e angosciati quanto alla percezione di sé. Queste persone sentivano fortemente il bisogno di una sorta di «sovrastruttura» che contribuisse a definirne l’orizzonte esistenziale, avevano bisogno che gli si dicese che appartenevano ai «buoni», ai «sani» e che era il resto mondo ad essere nell’errore. Mi sembra che il profilo di molti giovani jihadisti ci dica qualcosa di simile, nel senso che si tratta di persone che hanno avuto spesso percorsi familiari o educativi difficili e che vivono una condizione di emarginazione. A costoro, i gruppi fondamentalisti spiegano che in realtà sono invece proprio loro «i migliori», «i prescelti», quelli che sono stati selezionati per una missione fondamentale per le sorti della fede. E questo tocca il narcisismo di taluni individui, fortifica il loro ego, sembra indicargli che così possono dare finalmente un senso alle loro vite, dopo anni in cui si sono percepiti come dei paria che vivevano ai margini della società o negli ambienti criminali. Dei giovani senza storia finiscono così per sentirsi proiettati nel ruolo di eroi della fede. Questa dimensione psicologica è determinante nella campagna di reclutamento dei terroristi.
 
Anche se l’Islam in quanto tale non può essere assolutamente confuso con questi gruppi, è chiaro che quello che lei ha definito come «la paura della modernità dei capi religiosi musulmani» e la diffusione nel mondo di un’interpretazione letterale del testo del Corano non facilitano certo le cose…
Questo è il problema più grave con cui dobbiamo misurarci. Perché possiamo lavorare finché vogliamo per evitare la radicalizzazione dei giovani musulmani nelle periferie urbane, come nelle prigioni, ma se non si affronta alla radice il modo in cui una parte considerevole della cultura islamica si rapporta con la modernità, certe spinte rischiano di poter trovare anche in futuro un qualche alibi. Mi spiego, ancora oggi la grande maggioranza degli imam e dei chierici musulmani, sia sciiti che sunniti, non si discostano troppo da una lettura letterale del Corano, quando presso altri monoteismi, penso in particolare al cristianesimo, siamo ormai abituati da più di un secolo ad un vivace dibattito teologico, alla critica esegetica dei testi, delle fonti, delle interpretazioni precedenti. Ciò non significa che in questi ambienti si legittimi il terrorismo, al contrario, ma questo ritardo nel lavoro di elaborazione critica della fede, di riflessione e di esame dei testi sacri e, in ultima analisi, questo timore nel confrontarsi con la modernità, non aiuta ad isolare coloro che cercano di indottrinare all’odio e al terrore i giovani in nome di una presunta purezza religiosa.
 
a cura di Guido Caldiron, in “il manifesto” del 20 novembre 2015