La nostra era, quella del riscaldamento globale del pianeta, può essere chiamata “capitalocene”, più che antropocene: la vera causa dell’aumento delle temperature è il capitalismo predatorio e non l’uomo in se stesso. Lo si capisce dalle parole di Papa Francesco quando afferma che questo sistema economico è malato.  Lo pensa Telmo Pievani, professore di Filosofia delle scienze biologiche all’Università di Padova, saggista con più di 230 pubblicazioni sul tema dell’evoluzionismo,  che ha appena pubblicato il  suo ultimo saggio: “La Terra dopo di noi”.
 
L’intervista
 I cambiamenti climatici sono una fatto conclamato ormai: non ci sono più dubbi dal punto di vista scientifico. Eppure c’è ancora chi non ci crede o non è preoccupato. A Pievani abbiamo chiesto se serve più informazione scientifica o qualcos’altro.
“A proposito è in atto una forte discussione. Senz’altro serve come base un’informazione scientifica. Chiaramente però, lo possiamo constatare oggi, non è sufficiente. Alcune settimane fa stavo parlando con Piero Angela: le sue prime trasmissioni televisive sulla questione del cambiamento climatico risalgono alla metà degli anni ‘70. Significa che in Italia  di fusione dei ghiacciai o innalzamento dei mari  si parla per lo meno  da 45 anni. E’ evidente che qualcosa non ha funzionato nella comunicazione: era necessaria una condivisione della consapevolezza di ciò che stava accadendo. Oggi ci sono due filoni di studio su come aumentare la coscienza: uno è quello di capire perchè non ha funzionato la comunicazione e perché non riusciamo a renderci consapevoli. Su questo versante ci sono diverse ragioni: confusioni, negazionisti, interessi economici. Ma non bastano: gli studiosi oggi sostengono ci sia un problema legato al tipo di processo del riscaldamento climatico. Si tratta di un fenomeno molto vasto, tendenzialmente lento, nel quale siamo immersi e non possiamo osservarlo “dalla giusta distanza”.
 
Il global warming quindi sarebbe difficile da capire?
“E’ obiettivamente complicato far capire che lo scorso anno abbiamo avuto un maggio molto freddo e piovoso a causa del riscaldamento climatico. Non è facile spiegare le correnti atmosferiche”.
 
Quindi su che versante state lavorando?
“Quello dei linguaggi: i numeri e i fatti sono importanti, ma non bastano, perchè non scaldano i cuori, non toccano il nostro immaginario. Da parte mia credo si debba lavorare su progetti nuovi, in grado di mescolare la scienza, l’arte, la narrazione o la musica. “La Terra dopo di noi” è un esercizio di questo tipo: si basa su un paradosso narrativo con la funzione di provocare”.
 
Di fatti spesso sentiamo dire che dobbiamo “salvare il pianeta”, ma in realtà la Terra, con o senza di noi, andrà avanti anche se per noi non ci saranno più le condizioni di vita. Quanto tempo abbiamo ancora per rendercene conto e iniziare rispettare la terra “per noi”? 
“E’ molto difficile fare delle proiezioni sul futuro: il riscaldamento climatico per troppo tempo lo abbiamo percepito come qualcosa che riguardava il futuro e invece è adesso. La Terra è già più calda di 1,1 gradi: è un dato irreversibile. Gli accordi di Parigi non verranno rispettati e andremo quasi sicuramente verso i 2 gradi in più. Quindi già adesso non possiamo più tornare indietro. Sarebbe lungimirante ed essenziale ora mettere in campo molteplici azioni di riduzione di gas clima alteranti: smetterla di accelerare il processo. Questo è possibile: la grande sfida è da qui alla metà del secolo. Dobbiamo riuscire a restare sui 2 massimo 2.5 gradi. Se arriveremo oltre sarà molto costoso: il tema generale infatti è quello dei costi sociali ed economici di tutto ciò. E’ vero che magari si potrà fare il bagno nei laghi della Siberia, ma la desertificazione in Africa ed Asia sarà drammatica”.
 
Ma chi è che deve cambiare? Sono gli assetti geopolitici od ognuno di noi quando va a fare la spesa o usa l’automobile sapendo di contribuire all’aumento della CO2?
“Ci sono degli studi che hanno cercato di quantificare una risposta a questa domanda. I comportamenti individuali sono importanti ma non bisogna gonfiarne il rilevo. Non è l’unica soluzione cambiare stili di vita: sia perché diventerebbe un alibi nei confronti della politica.Gli stili di vita individuali  influiscono del 30-35% sull’effetto globale. Più del 60% dipende dalle scelte geopolitiche, dal fatto che India e Cina continuano a bruciare carbone per esempio. Anche la storia ce lo conferma: contano le grandi negoziazioni internazionali. Basti guardare alla questione del buco dell’ozono che è stata risolta eliminando i gas fluoroclorocarburi con il protocollo di Montreal: il problema è stato risolto al 75%. Esempio di come un accordo globale abbia un effetto maggiore della somma di tutti i comportamenti individuali”.
 
In ogni caso fino a quando il sistema capitalistico basato sul profitto sarà imperante difficilmente si proverà a cambiare strada?
“Molti parlano di capitalocene e non di antropocene: il problema di fondo del riscaldamento globale non è l’uomo in quanto tale ma il sistema capitalistico. Sono abbastanza d’accordo. Non perché se ne debba uscire con modelli  anticapitalistici che in passato non hanno funzionato, ma perché il sistema economico deve essere profondamente riformulato in termini di costi. Il sistema capitalistico attuale, obiettivamente predatorio, ci porterà a pagare dei costi molto più alti dei guadagni che stiamo avendo.
 
Alberto Piccioni