Nel 1994 Nelson Mandela è diventato il primo presidente eletto democraticamente in Sudafrica. Fin dall’inizio del mandato, era determinato a prestare servizio per una sola legislatura. E nel corso dei cinque anni dell’incarico, lui e il suo governo hanno compiuto un’impresa straordinaria, trasformando una nazione lacerata da secoli di colonialismo e apartheid in una democrazia autentica, nella quale tutti i cittadini sudafricani siano uguali di fronte alla legge.
La sfida della libertà è la storia degli anni della presidenza di Mandela, a partire dalle memorie che lui stesso cominciò a scrivere nell’ultimo periodo del suo mandato, senza però riuscire a concluderle. Oggi Mandla Langa, una delle voci letterarie più autorevoli in Sudafrica, ha completato l’opera e ha portato a termine il progetto incompiuto di Mandela, raccogliendo i suoi appunti, preziosa cronaca in diretta degli eventi, e una grande quantità di materiale d’archivio ancora inedito.
Con un prologo scritto dalla vedova di Mandela, Graça Machel, il risultato è un resoconto vivido e ricco di ispirazione, che ricostruisce giorno dopo giorno la creazione di una nuova democrazia. E racconta la vicenda eccezionale di un paese che affronta un cambiamento profondo e radicale, testimoniando le sfide vinte da Mandela per rendere realtà la propria visione di un Sudafrica libero.
 
Descrizione

Titolo: La sfida della libertà
Autore: di Mandla Langa, Nelson Mandela
Traduttori: Marianna Matullo – Valentina Nico
Editrice: Feltrinelli
Data: Febbraio, 2018
Pagine: 456
Prezzo: 25,00€
ISBN: 9788807492303
 
 
Mandela Autobiografia della riconciliazione
di Riccardo Michelucci
«Con la libertà vengono le responsabilità, e io non oso indugiare: il mio lungo cammino non è ancora finito». La monumentale autobiografia di Nelson Mandela Lungo cammino verso la libertà, uscita per la prima volta in Italia nel 1995, si concludeva con questa frase evocativa, dalla quale prende avvio l’attesissimo seguito di quel libro che ha venduto milioni di copie in tutto il mondo, ispirando anche una recente riduzione cinematografica. Uscito in inglese nell’autunno scorso, Dare Not Linger, il nuovo capitolo sulla vita di uno dei più grandi statisti del XX secolo sta per uscire anche in traduzione italiana col titolo La sfida della libertà. Come nasce una democrazia (Feltrinelli). Racconta gli anni che seguirono la caduta del brutale regime dell’apartheid, dal 1994 al 1999, nei quali Mandela divenne il primo presidente nero del nuovo Sudafrica democratico. Una fase storica cruciale di transizione dopo decenni di dittatura che non era stata finora approfondita, e la cui rilettura appare particolarmente utile anche alla luce degli ultimi sviluppi della politica sudafricana. Mandela cominciò a lavorare al manoscritto di questa seconda autobiografia alla fine del mandato presidenziale ma alla sua morte, nel 2013, la prima bozza del testo non risultava ancora conclusa. Aveva scritto di suo pugno circa settantamila parole, prima che il venir meno delle forze non gli impedisse di continuare. L’arduo compito di portare a termine il lavoro è stato affidato, d’intesa con la Fondazione Nelson Mandela, a una delle voci letterarie più autorevoli del moderno Sudafrica, il poeta e romanziere Mandla Langa, che fu a sua volta incarcerato e poi esiliato dal regime di Pretoria negli anni 70. Usando i manoscritti originali, gli appunti e le interviste alle figure politiche di spicco di quegli anni, oltre a materiale d’archivio ancora inedito, Langa è riuscito a ultimare il progetto incompiuto di Mandela anche in vista del centenario della sua nascita, che sarà celebrato il 18 luglio prossimo.
Dal libro non emerge soltanto la sua evoluzione da rivoluzionario a statista, da simbolo della resistenza a politico impegnato nella gestione del potere dopo un’estenuante lotta per la libertà. Suddiviso in capitoli tematici, ciascuno dei quali analizza la trasformazione dello stato, dell’economia e della società sudafricana, il volume racconta anche come Mandela interpretò il suo ruolo di primo presidente del Sudafrica post-apartheid, la sua strategia politica solcata da proverbiali gesti di riconciliazione, l’incessante impegno a difesa di quella rivoluzione democratica di cui era stato protagonista, lo stretto controllo dell’economia e dell’apparato di sicurezza dello stato. «Mi ritengo fortunato – scrive Mandela – perché la Storia mi ha permesso di prendere parte alla transizione del Sudafrica verso una nuova era per la quale abbiamo gettato le fondamenta insieme». Dalle pagine affiora l’immagine di un leader politico d’altri tempi, abituato a rompere le regole e le convenzioni, a non seguire quasi mai i discorsi scritti, un pre- sidente che poteva insistere per rifarsi il letto in un albergo o pulirsi le scarpe da solo, come ci mostra un’eloquente foto che lo ritrae durante uno spostamento in aereo. C’è poi il gigantesco profilo politico, con risvolti ed episodi inediti che evidenziano i rapporti non sempre idilliaci con il suo predecessore alla presidenza, il bianco Frederik de Klerk, l’uomo che ordinò la sua scarcerazione e nel 1993 fu poi insignito del Nobel insieme a lui. Quando de Klerk gli scrive, chiedendogli di impegnarsi per porre fine alle violenze nella provincia sudorientale del Kwazulu-Natal, Mandela gli risponde a muso duro: «Piuttosto che suggerire incontri privi di utilità, preferirei avere un tuo contributo su come affrontare il retaggio del disumano sistema di apartheid del quale sei stato uno degli ideatori».
Ma la battaglia più grande che Mandela si trova a dover affrontare nel Sudafrica post-apartheid è quella contro la diffusione della piaga dell’Aids, una sfida che lo vedrà infine soccombere e che in anni recenti, come in un fatale contrappasso, gli porterà via anche l’unico figlio maschio. Nei suoi anni da presidente iniziano a scoppiare anche i cosiddetti “Aids scandals” legati ad altrettanti casi di corruzione: nel 1996 la campagna Serafina II per diffondere l’educazione all’Hiv tra le masse travolse l’allora ministro della salute Nkosazana Dlamini-Zuma. Quando la don- na gli presentò le dimissioni, Mandela le respinse attirandosi non poche critiche. Sarebbe stato il preludio di un futuro sempre più a tinte fosche, destinato a deflagrare già all’epoca di Thabo Mbeki, il successore che lui stesso aveva designato.
Ancora oggi molti suoi detrattori ritengono che Mandela sia almeno in parte responsabile del disastro dell’Aids in Sudafrica – la cui diffusione è cresciuta in modo esponenziale proprio tra gli anni Novanta e Duemila – e degli altri mali di un paese che da tempo versa in una grave crisi, sempre più falcidiato dagli scandali e dalla corruzione. Nella prefazione a La sfida della libertà, Langa rievoca i canti della folla riunita alla conferenza del 1997, quella che vide Mandela lasciare per sempre la presidenza dell’African National Congress. «Qualunque cosa fosse accaduta da quel momento in poi, il Sudafrica non sarebbe stato mai più lo stesso, perché non esisteva nessun altro come lui». E forse proprio il suo idealismo e la sua statura morale gli impedirono di rendersi conto della modestia e della meschinità dei suoi successori. Leggendo questo libro si comprende quanto il Sudafrica odierno abbia tradito molti degli ideali propugnati da Mandela, e quanto la sua gigantesca eredità politica, intellettuale e umana rappresenti un monito per le generazioni future.
in “Avvenire” del 3 febbraio 2018
 
 
Madiba: dalla liberazione alla libertà
di Lara Ricci

Pubblicata la seconda parte della biografia del leader, dalla scarcerazione alla costruzione della democrazia, ma quasi 25 anni dopo la fine dell’apartheid il modello avanza con difficoltà.
«La verità è che non siamo ancora liberi: abbiamo conquistato soltanto la facoltà di essere liberi, il diritto di non essere oppressi. Non abbiamo compiuto l’ultimo passo del nostro cammino, ma solo il primo su una strada che sarà ancora più lunga e più difficile; perché la libertà non è soltanto spezzare le proprie catene, ma anche vivere in modo da rispettare e accrescere la libertà degli altri. La nostra fede nella libertà dev’essere ancora provata. Ho percorso questo lungo cammino verso la libertà sforzandomi di non esitare, e ho fatto alcuni passi falsi lungo la via. Ma ho scoperto che dopo aver scalato una montagna ce ne sono sempre altre da scalare. Adesso mi sono fermato un istante per riposare, per volgere lo sguardo allo splendido panorama che mi circonda, per guardare la strada che ho percorso. Ma posso riposare solo qualche attimo, perché assieme alla libertà vengono le responsabilità, e io non oso trattenermi ancora: il mio lungo cammino non è ancora alla fine».
Così finisce la prima parte dell’autobiografia di Nelson Mandela Lungo cammino verso la libertà (Feltrinelli, 1994) che ne racconta la vita dalla nascita alla liberazione, dopo 27 anni di prigione. Con questa stessa frase, in esergo, inizia l’ancora più interessante – dal punto di vista politico – seconda parte: La sfida della libertà, ora nelle librerie italiane. Parte infatti dalla scarcerazione per attraversare tutti gli anni di presidenza dando conto dell’impresa più difficile del leader sudafricano, un’impresa che aveva dell’impossibile: trasformare la liberazione in libertà, attuare la trasformazione non violenta del Paese e della macchina statale (senza licenziarne i dipendenti!) dal regime dell’apartheid alla democrazia, cercando di porre le basi perché questa potesse sopravvivergli e durare nel tempo, cosa assai rara nelle giovani, fragili e fragilizzate democrazie del continente.
Se lottare contro il sistema dell’apartheid rischiando la vita aveva richiesto coraggio, avrebbe richiesto una determinazione – e un’astuzia – ancora maggiore la sfida che Mandela si prefissò una volta uscito di prigione, ovvero sottomettere lo stesso sistema al servizio della democrazia senza spargimenti di sangue e senza che la dominazione dei bianchi sui neri si trasformasse in una dominazione dei neri sui bianchi, memore forse delle parole di Marthin Luther King secondo cui la violenza non può mai portare a una pace duratura.
Queste memorie risultano più interessanti ora che, dopo quasi due mandati segnati da scandali e corruzione, le dimissioni di Jacob Zuma hanno portato alla presidenza del Sudafrica il suo vice, Cyril Ramaphosa, tante volte qui citato (Zuma meno). Sfortunatamente però Mandela non riuscì a portarle a termine: ne scrisse solo dieci capitoli, rielaborati e completati usando discorsi ufficiali e interviste da un giornalista ed ex combattente, Mandla Langa, per volontà della vedova, Graça Machel.
Quando fu liberato, nel 1990, Madiba (è affettuosamente chiamato col nome del suo clan) si trovò di fronte problemi enormi, il Paese frammentato dalla violenza e dall’odio razziale, dalla paura delle vendette, dalle divisioni politiche, etniche e tribali fomentate dal governo che aveva creato i “bantustan”, regioni autonome e in alcuni casi indipendenti, dove i capi tradizionali (non eletti ma ereditari) avevano barattato il potere in cambio della collaborazione col regime e dell’opposizione alla lotta armata. L’economia – cosa meno nota – era allo sfascio, il debito pubblico enorme, l’inflazione a due cifre, mentre perché la pace fosse possibile bisognava al più presto estendere i servizi come la sanità, l’istruzione, acqua ed elettricità a tutti e come se non bastasse, per stessa ammissione di Mandela, lui e i membri del suo partito, l’African national congress, non avevano alcuna esperienza in settori fondamentali come la macchina parlamentare o la gestione dell’economia.
Per calmare gli animi Mandela si fece forte dell’insegnamento del suo mentore e collega avvocato Oliver Tambo e cercò quanto più possibile di arrivare a decisioni per consenso, avviò consultazioni popolari che rinvigorirono la società civile e soprattutto cercò di coinvolgere nella transizione tutti gli attori, anche gli antichi nemici, perché tutti si impegnassero affinché «da un’inaudita tragedia umana durata troppo a lungo nascesse una società di cui tutta l’umanità sarebbe stata fiera», convinto com’era che della fine dell’apartheid avrebbero potuto beneficiare tutti.
«Noi non ci imponiamo, persuadiamo», diceva questo leader che aveva una grande capacità di contrastare le argomentazioni altrui partendo dai loro stessi assunti, ma che era anche capace di ascoltare: racconta per esempio come rinunciò alla statalizzazione dopo l’incontro al World economic forum di Davos del ’92 con Li Peng, il primo ministro cinese che gli disse che l’esperienza fatta in Cina suggeriva che la nazionalizzazione sarebbe stata un errore, parere espresso anche dal primo ministro vietnamita.
Dialogando, coinvolgendo, convincendo il settantacinquenne Madiba arrivò alle prime elezioni in cui poterono votare anche i neri. Più volte disinnescò il rischio di una seconda Angola, per esempio quando nel ’93 fu ucciso dalla destra bianca uno dei più popolari leader africani, Chris Hani, e decine di migliaia di persone si riversarono nelle strade. Miccia spenta solo grazie a un suo tempestivo intervento televisivo (e fu qui, secondo Langa, che avvenne il vero trasferimento di potere, non nel ’94 quando vinse le elezioni). Elezioni che lo videro candidato solo in seguito all’insistenza del suo partito e solo dopo aver chiarito che avrebbe svolto un unico mandato. Elezioni libere e regolari che furono protette dalle forze militari la cui missione, fino a poco tempo prima, era stata di scongiurare quel momento.
Come previsto dalla Costituzione provvisoria del 1993 fu formato il Governo di unità nazionale con tutti i partiti che avevano ottenuto oltre il 10% dei voti, dunque oltre all’Anc anche il National party di de Klerk e l’Inkatha freedom party guidato da un principe zulu alleatosi con gli estremisti bianchi. «Non renderemo il Governo di unità nazionale un contenitore vuoto – si impegnò Mandela – . Vogliamo che tutte le organizzazioni politiche vi partecipino sapendo che sono parte integrante della macchina governativa, che farà di tutto per venire incontro alle loro idee entro la cornice del Programma per la ricostruzione e lo sviluppo». Programma fondativo che mirava a ridurre la povertà e colmare le gravi lacune dei servizi sociali e che si rivelò molto difficile da attuare anche a causa della disastrata e insospettata situazione finanziaria del paese ereditata dal regime che Madiba cominciò a risanare (dati economici alla mano, il libro mostra come ottenne progressi insperati). Mandela decise di cambiare strategia avviando una politica per lo sviluppo che alcuni definirono “neoliberale”. «A noi non interessano le etichette, se il nostro sistema sia capitalista o socialista. A noi interessa fornire servizi alle masse a cui sono stati negati i più elementari diritti di cittadinanza» disse nel ’97. A chi non trova i risultati soddisfacenti, non senza amarezza Madiba risponde che quando «non ci si rende conto appieno della portata dei problemi da risolvere, ecco che non sempre vengono riconosciuti i risultati straordinari conseguiti».
Durante il governo di questo «soldato per la pace», ossimoro che Mandela impiegò per definire Chris Hani, ma che ben si adattava anche a lui, venne scritta la Costituzione (1996), si attuò il costituzionalismo (affinché «nessun ufficio o istituzione potesse porsi al di sopra della legge»), si formò un Parlamento che trasformò il diritto da uno strumento di segregazione e oppressione «in un monumento al servizio di tutto il popolo». Con la sua capacità di negoziazione l’ex combattente riuscì a dar vita a autorità locali che fossero elettive e non ereditarie senza che si rivoltassero i capi tradizionali e fece persino lavorare fianco a fianco nelle Forze di difesa sudafricane i soldati dell’apartheid e i membri dell’Umkhonto we Sizwe, braccio armato dell’Anc.
Ricostruzione e sviluppo per Madiba non si potevano attuare senza la riconciliazione. Dette vita alla Commissione per la verità e la riconciliazione che gli valse molte lodi all’estero e infinite critiche in patria: far sapere ciò che era accaduto era per lui l’unico modo perché le ferite del paese iniziassero a guarire. «Uno dei punti di forza della nuova nazione che stiamo edificando consiste nel fatto che, rimuovendo le cause delle tensioni e dei conflitti (…) può sbocciare quanto di meglio vi è in tutti noi. Sono queste le circostanze che stanno dando vita a una nuova generazione di leader per una società prospera e giusta, in pace con se stessa». Come far emergere ciò che di meglio c’è nell’uomo è forse uno dei più grandi insegnamenti di Mandela, che ha saputo applicare ai massimi livelli l’etica dell’ ubuntu (benevolenza verso il prossimo) e quella saggezza tradizionale che predilige la cooperazione alla competizione.
Nelson Mandela e Mandla Langa, La sfida della libertà. Come nasce una democrazia , prologo di Graça Machel, trad. di M. Matullo e V. Nicolì, Feltrinelli, pagg. 432, € 25
in “Il Sole 24 Ore” del 25 febbraio 2018

Di |2018-02-24T17:33:30+01:00Febbraio 24th, 2018|Approfondimenti, Secondaria II° grado|Commenti disabilitati su “La sfida della libertà. Come nasce la democrazia”: Autobiografia di Nelson Mandela

Condividi questo articolo, scegli la piattaforma!

Scritto da: