Il punto di partenza per ogni considerazione circa il referendum del prossimo ottobre che sancirà il destino della riforma costituzionale approvata dal Parlamento è che “la Carta è sì un testo vivente, una sorta di bussola che orienta il cammino di un popolo. Ma non è un testo sacro”. A dirlo in una conversazione con il Foglio è il gesuita Francesco Occhetta, il giurista che sull’ultimo numero di Civiltà Cattolica, la rivista diretta da padre Antonio Spadaro che viene mandata in stampa previo placet della Segreteria di stato vaticana, ha definito “auspicabile” il successo del voto d’autunno. La Costituzione, spiega Occhetta, “accompagna l’evoluzione della cultura e respira del suo ossigeno. E’ per questo che intorno al testo della riforma il paese può incontrarsi su grandi domande, come ad esempio quali istituzioni consegneremo alle giovani generazioni, da dove ricominciare per rispondere alle sfide sociali che i costituenti non potevano prevedere”.
 
 
LA RIFORMA DELLA COSTITUZIONE
Francesco Occhetta S.I.
La civiltà cattolica
 
Il 12 aprile scorso, dopo due anni e quattro giorni, sei letture e 173 sedute del Parlamento, è stata votata a Montecitorio la riforma costituzionale che supera il bicameralismo perfetto e riforma il Titolo V della Parte II della Costituzione. Il nuovo dettato costituzionale modifica 43 articoli della seconda parte della Costituzione e un articolo della prima parte, ne abroga quattro, cambia tre leggi costituzionali e introduce 21 nuovi commi come disposizioni transitorie.
La legge costituzionale — che ha seguito l’iter della doppia approvazione secondo quanto stabilisce l’art. 138 Cost. — è stata approvata alla sesta votazione, due in più del previsto1, con 361 voti a favore, sette contrari e due astenuti. Le minoranze (eccetto il gruppo Ala), dopo aver fatto le dichiarazioni di voto, sono uscite dall’aula.
La riforma proposta dal Governo si basa su alcuni punti qualificanti: l’abolizione di un Senato elettivo e l’istituzione di un Senato delle autonomie formato da 100 componenti; lo snellimento nei tempi per approvare le leggi, l’abolizione del Cnel (Consiglio na- zionale dell’economia e del lavoro), il riordino delle competenze tra Stato e Regioni con il ritorno allo Stato di materie strategiche (1) per lo sviluppo e la programmazione economica del Paese. Vengono abolite formalmente dalla Carta costituzionale anche le Province (2).
Si tratta di temi su cui si discute da anni e già vagliati a fondo dai «saggi», nominati dall’allora presidente Napolitano e successiva- mente dal Governo Letta all’inizio di questa tormentata legislatura (3). Eppure, nel giorno in cui si è chiuso il faticoso iter che ha impegnato il Parlamento, le critiche hanno preceduto l’analisi del testo e il voto è sembrato arrivare «per sfinimento», al termine di un processo continuato per inerzia e lontano dal sentire dell’opinione pubblica.
 
La natura, i poteri e la composizione del nuovo Senato
La riforma del Senato era all’ordine del giorno nell’agenda parlamentare da oltre 30 anni, e quella approvata presenta molti punti di continuità con i testi di riforma falliti: in primis, la riduzione del numero dei senatori e l’abolizione del bicameralismo perfetto, voluto dai padri costituenti per ripartire la sovranità democratica in due Camere ed evitare le dittature della maggioranza. Secondo Costantino Mortati, il Senato avrebbe dovuto garantire gli interes- si dei territori, mentre la Camera la rappresentanza politica. L’idea dei costituenti di area cattolica e, ancor prima, della cultura popolare sturziana era di considerare due elementi fondamentali della loro tradizione: le autonomie dei territori e i corpi intermedi, intesi come rappresentanza di macroaree tematiche, come la cultura, la giustizia, il lavoro, l’industria, l’agricoltura.
Già durante la Costituente il dibattito sulla natura del Senato aveva fatto emergere posizioni diverse: De Gasperi era a favore del bicameralismo, le sinistre (comunisti, azionisti, socialisti) erano fa- vorevoli al monocameralismo. Per Dossetti, invece, il «bicameralismo» rappresentava un «garantismo eccessivo». Secondo lo statista democristiano, è stata la «paura dell’altro» a bloccare un accordo in favore di una Camera delle Regioni. Lo ha ribadito in un suo studio del 1983 Sergio Mattarella, che ha parlato di «risultato quasi accidentale di una serie di veti incrociati, […] sicché abbiamo un Parla- mento che è strutturalmente bicamerale, ma che funzionalmente è più vicino al modello unicamerale» (4).
Il bicameralismo perfetto — che era funzionale nel periodo in cui i partiti erano forti e dettavano l’agenda al Parlamento — è comunque rimasto un unicum in Europa. Il suo superamento, insieme allo sganciamento del Senato dal rapporto di fiducia al Governo, permetterà di creare una Camera politica basata sulla dialettica tra maggioranza e minoranza, come dimostra l’esperienza delle democrazie moderne più avanzate (Francia, Inghilterra, Spagna, Germania e Usa) (5).
Nel nuovo assetto configurato dalla riforma, Camera e Senato avranno poteri diversi. La Camera voterà la fiducia al Governo e le leggi ordinarie — evitando maggioranze diverse, che bloccano, come in queste ultime legislature, l’operato del Governo —, mentre il Senato rappresenterà le istituzioni territoriali e concorrerà all’eser- cizio delle funzioni di raccordo tra lo Stato e l’Unione Europea (Ue).
Questa riforma affida alla Camera la forma di Governo e al Senato, come in Spagna e in Germania, la forma di Stato e la com- posizione della morfologia del Paese. Il nuovo Senato, definito dalla dottrina «federatore», sarà la cerniera tra le autonomie locali, lo Stato e l’Ue, in modo da recepire e attuare i circa 10.000 atti normativi comunitari e gestire i fondi europei, spesso utilizzati male (6). Avrà anche un ruolo propulsivo nel «produrre» diritto comunitario e ispirare il Governo a proporre nuove leggi per l’Europa. Sono ridefinite le sue funzioni di controllo: valuterà le politiche pubbliche e le pubbliche amministrazioni; verificherà l’attuazione delle leggi dello Stato, formulerà pareri sulle nomine del Governo. La doppia approvazione delle leggi rimarrà per disciplinare le materie più importanti, come le leggi di revisione costituzionale, la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, la legislazione elettorale, gli organi di Governo e le funzioni fondamentali di Comuni e Città metropolitane.
Il nuovo «Senato dei 100» sarà composto da 74 consiglieri regionali, 21 sindaci e 5 componenti nominati dal Presidente della Repubblica. La loro carica durerà sette anni, mentre rimarranno senatori a vita gli ex Presidenti della Repubblica. La riforma conserva l’immunità parlamentare attenuata per i senatori nell’esercizio delle loro funzioni (7), ma una nuova legge elettorale dovrà stabilire le regole di elezione dei consiglieri-senatori.
 
Altri punti qualificanti della riforma
Dal 1948 al 2012 le leggi di revisione costituzionale sono state quindici. Quest’ultima riforma recepisce anche l’esigenza di tagliare alcune spese. L’indennità dei senatori sarà a carico dei Consigli regionali e dei Comuni da cui proverranno i sindaci eletti8. Dalla Carta sono soppresse le Province: la Repubblica, infatti, sarà costituita dai Comuni, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. Tuttavia, quelle che venivano chiamate «Province» potrebbero rimanere come «Enti di area vasta» voluti dalle Regioni, dove sarà necessario. Per questo il nuovo Senato diventerà l’organo di rappresentanza delle istituzioni territoriali. La riforma prevede la soppressione del Cnel, composto da 64 consiglieri e da un presidente.
Le materie concorrenti tra Stato e Regioni che in questi anni hanno contribuito a bloccare il lavoro della Corte Costituzionale, chiamata a dirimere i conflitti tra Stato e Regioni, sono state restituite allo Stato secondo quanto la Corte ha stabilito in questi ultimi anni. Per esempio, saranno di competenza dello Stato la gestione delle reti di trasporto, i porti e aeroporti civili e la distribuzione di energia. Viene anche introdotta una «clausola di supremazia» per le leggi dello Stato nel campo riservato alle Regioni, se sono volte a difendere l’interesse generale.
Il procedimento legislativo è stato snellito: le leggi verranno approvate dalla Camera, entro 10 giorni, su richiesta di un terzo dei componenti; il Senato potrà esaminarle e, nei 30 giorni successivi, proporre modifiche su cui la Camera si pronuncerà in via definitiva. È previsto il «voto a data certa», entro 70 giorni, per i provvedimenti che il Governo ritenga essenziali per adempiere al suo programma di governo sul quale ha ricevuto il voto del corpo elettorale (9).
Per l’elezione del Presidente della Repubblica si prevede un quorum più alto (10). Se per una proposta di legge vengono raccolte più di 800.000 firme, la riforma prevede una sorta di premio per il referendum: il quorum sarà calcolato sulla metà dei votanti delle ultime politiche. Viene introdotto il referendum propositivo e di indirizzo per la partecipazione dei cittadini alla «determinazione delle politiche pubbliche» (11). Mentre le firme per presentare un disegno di legge passano da 50.000 a 150.000, i regolamenti della Camera dovranno indicare tempi certi per l’esame in assemblea.
La riforma presenta anche punti che avrebbero potuto essere meglio precisati o previsti. Si nota l’assenza delle Regioni a statuto speciale, che sembrano sempre meno giustificate non solo nei costi, ma anche nelle discipline sulle quali legiferano. I quorum scelti dal settimo scrutinio nell’elezione del Presidente della Repubblica per evitare il rischio che venga eletto dalla sola maggioranza comportano però il pericolo opposto, cioè che l’elezione si blocchi, tenendo anche conto delle lezioni di questo inizio legislatura; invece, si poteva prevedere la maggioranza assoluta dei componenti dopo un certo numero di votazioni. Il ruolo della Corte avrebbe potuto essere meglio precisato come importante contrappeso al Parlamento, e sarebbe stato forse utile affidare ai giudici costituzionali il controllo delle elezioni, con la verifica dei poteri, come avviene in molte democrazie avanzate.
In generale, il testo rimane una bussola di orientamento che po- siziona l’Ordinamento sull’asse maggioranza e opposizione — nello spirito dei referendum degli anni Novanta — e sul rapporto tra eletti ed elettori. Per la prima volta viene riconosciuto in Costituzione uno statuto per le opposizioni e sarà possibile distinguere l’operato del Governo dalle opposizioni, che avranno dignità di «Governo di attesa» come nei modelli di matrice anglosassone.
Sul piano tecnico il testo è a «fattispecie aperta», paragonabile a una struttura che dovrà essere arricchita e impreziosita, oltre che dalle leggi di attuazione, in primis dai regolamenti parlamentari. Saranno questi ultimi a precisare se e come i Presidenti delle Re- gioni parteciperanno al nuovo Senato, se e come saranno formati i gruppi parlamentari, come sarà organizzato lo statuto delle opposizioni, come il Senato organizzerà il controllo ecc. E ancora: come regolare il conflitto di assegnazione di una legge tra i Presidenti di Camera e Senato; come organizzare le strutture burocratiche. Infine, nel nuovo art. 97 compare per la prima volta nella Costituzione la parola «trasparenza»(12).
 
Un voto sulla Costituzione
Appena dopo il voto, il presidente Renzi ha ribadito che «nel merito non possono esserci argomenti: come si fa a dire no al taglio dei parlamentari? O alla chiarezza tra Stato e Regioni? Alla riduzione del numero dei politici e dei loro stipendi?». La posizione è ragionevole e condivisibile, ma, oltre al merito, vanno approfonditi i contenuti che animeranno lo spirito della riforma e il metodo che aiuterà il nuovo dettato costituzionale a essere condiviso.
Com’è noto, la legge costituzionale approvata dal Parlamento sarà sottoposta al voto del referendum confermativo di ottobre. L’appuntamento referendario è l’occasione per rifondare intorno alla Costitu- zione la cultura politica del Paese. Non si tratta di un voto favorevole o contrario al Governo, ma di qualcosa di più e di diverso, che riguarda l’identità della democrazia che i media e le parti sociali fatica- no ad affermare come la cultura costituzionale nel dibattito pubblico. Certo, a livello politico il voto avrà conseguenze sul Governo. Tuttavia è prioritario chiedersi: cosa deve essere una Costituzione?
Per i padri costituenti, una Carta costituzionale vive attraverso uno spirito condiviso e un’identità di appartenenza: si tratta di una «norma fondamentale di garanzia» in grado di essere «ispiratrice» e «limite» nei confronti delle scelte politiche e delle «aperture» alle nuove regole sociali. Furono i costituenti democristiani, comunisti e socialisti della I Sottocommissione che, dopo aver elaborato la parte dei princìpi fondamentali, concepirono la Costituzione come «pro- gramma» politico che poteva essere modificato, ma non snaturato. L’alternativa che avrebbero preferito i liberali, i piccoli partiti di centro, le destre e il Partito Socialista dei lavoratori italiani (Psli), era considerarla una «cornice» di una precisa visione giuridica. Lo ha ribadito anche uno degli ultimi padri costituenti, Oscar Luigi Scal- faro: «La Carta Costituzionale non è intoccabile, e lo dico nella mia responsabilità di Presidente dell’Associazione di Difesa della Carta. L’importante è che ogni modifica abbia, da parte del Parlamento, un’approvazione che coinvolga largamente le forze dell’opposizione e che sia sempre e soprattutto a servizio e a utilità del popolo italiano» (13).
Partiamo da qui: la riforma è di utilità del popolo italiano? Ha coinvolto le opposizioni? Davanti a questo testo rimangono invio- lati i princìpi e i diritti fondamentali della prima parte della Costituzione; ad essere riformata è invece l’ingegneria costituzionale della seconda parte. Se si paragona il sistema al motore di una macchina, questa è il funzionamento «tecnico» di una democrazia che attiene alla forma di governo, alle garanzie, ai controlli e ai rapporti tra i livelli di governo. Si tratta di una parte tutt’altro che neutra, che però va considerata come l’ennesimo tentativo di sviluppo del dettato costituzionale nel tempo.
Certo, le ragioni partitiche che dividono rischiano di prevalere sulle ragioni culturali e costituzionali, che possono invece unire. Questo è, per esempio, il caso di Forza Italia, che aveva sostenuto la riforma per poi sottrarre il suo appoggio negli ultimi mesi, per una scelta politica.
Anche 56 autorevoli costituzionalisti, tra i quali Antonio Baldassarre, Ugo De Siervo, Gian Maria Flick, Fulco Lanchester, Va- lerio Onida, Gustavo Zagrebelsky, hanno sottoscritto un appello per il No14. Altri costituzionalisti, come Giuliano Amato, Sabino Cassese, Franco Pizzetti, Franco Bassanini, Stefano Ceccanti, Marco Olivetti, Francesco Clementi, e più in generale una larga mag- gioranza dei componenti della Commissione di esperti nominata dal Governo Letta, a vario modo appoggiano la riforma. La sfida dovrebbe giocarsi sul piano scientifico e non politico, per confron- tarsi serenamente sulle luci e le ombre della riforma15.
Lo stesso mondo politico è diviso: parte del Centro-destra e il Movimento 5 Stelle non appoggeranno la riforma, mentre la mi- noranza interna al Pd di Bersani e Cuperlo ha scelto di votarla con- dizionando l’appoggio al referendum al miglioramento della legge elettorale (16). Si sono anche costituiti un comitato per il No e uno per il Sì che animeranno il dibattito verso il referendum.
Enrico Letta ha invece dichiarato di appoggiare la riforma, così come Giorgio Napolitano, che il 22 aprile 2013, di fronte alle Camere riunite, il giorno del suo secondo insediamento, ricordò come le riforme fossero necessarie e non più eludibili.
Anche il presidente della Bce, Mario Draghi, durante il World Economic Forum a Davos, ha richiamato l’importanza di queste: «Sono i governi che devono fare le riforme tenendo conto del mo- mento economico».
Infine, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel suo discorso alla Columbia University, a New York, l’11 febbraio scorso, come garante della Costituzione si è mostrato attento al lavoro delle riforme, che ha spiegato così: «Dopo anni di dibattito il Parlamento sta per approvare un’importante riforma della Costituzione, che trasforma il ruolo del Senato da seconda Camera politica — con le medesime attribuzioni della Camera dei Deputati — in Assemblea rappresentativa delle Regioni e dei poteri locali».
 
Criteri di discernimento davanti alla riforma
Per votare a favore o contro la riforma, va anzitutto compresa la logica referendaria: l’elettore è chiamato a dare un giudizio sintetico e globale, avendo presente il testo vigente (quello che sarebbe confermato in caso di successo del No) e quello approvato dalla riforma Boschi, che sarebbe modificato dal Sì. Il giudizio sintetico e complessivo risulta non tanto dalla somma di dettagli, ma dalla va- lutazione della coerenza d’insieme nella volontà di ridurre i problemi esistenti. L’uno o l’altro giudizio non negherà la ragionevolezza della tesi opposta. Sarà piuttosto un parere favorevole o contrario sulle innovazioni del testo: la composizione, i poteri e la missione del nuovo Senato, il nuovo equilibrio tra Governo e Parlamento, il permanere di una forma di governo parlamentare che mantiene le garanzie volute nel 1948, a partire da quelle attribuite al Capo dello Stato e alla Magistratura.
Proprio perché la sovranità parlamentare e la sovranità popo- lare non sono in antitesi ma coincidono nell’istituzione del Parlamento, il voto del referendum (che non richiede quorum) serve per verificare se i cittadini concordano sulla scelta del Parlamen- to nel revisionare la Costituzione; in questo caso se sia opportu- no aggiornare la «meccanica costituzionale», lasciando intatti i valori, i princìpi e l’identità della forma di governo parlamentare italiana.
Il secondo criterio di discernimento riguarda la coerenza e lo «sviluppo» costituzionale. Secondo questo spirito, occorre valutare se le innovazioni proposte si muovono dentro un disegno di svilup- po e di adeguamento ai tempi oppure di inopportuna demolizione del testo precedente. Anche il nuovo testo dovrà essere in grado di accompagnare lo sviluppo del Paese a ritrovarsi intorno ai princìpi della Costituzione secondo la tradizione del cattolicesimo democra- tico che l’ha originata.

Un Senato espressione delle autonomie esisteva già nel pensiero di molti costituenti cattolici e laici, e la sua necessità è stata ribadita anche dalla riforma, incompleta, del Titolo V del 2001.
Il progressivo indebolimento dei partiti nel tradurre il consenso in potere e responsabilità per la formazione dei governi ha portato il sistema — sin dal referendum elettorale del 1993 — a evolvere verso quella legittimazione diretta dei Governi su cui si era tanto speso Roberto Ruffilli.
Rimane all’orizzonte, come ulteriore elemento di riflessione, il discorso del 21 dicembre 2015 del presidente Mattarella alle alte cariche dello Stato sugli effetti di un’eventuale mancata conclusione della transizione istituzionale italiana: «Il Parlamento è impegna- to in un’ampia riforma della seconda parte della Costituzione, che mira a concludere la lunga transizione avviata da un quarto di se- colo, e purtroppo segnata da intese mancate e tentativi falliti. Non posso che augurarmi — come ho detto nel discorso di insediamento — che questo processo giunga a compimento in questa legislatu- ra. Da parte mia, non entro nel merito di scelte che appartengono alla sovranità del Parlamento e che, stando agli auspici formulati da ogni parte politica, saranno poi sottoposte a referendum popolare. Osservo soltanto che il senso di incompiutezza rischierebbe di pro- durre ulteriori incertezze e conflitti, oltre ad alimentare sfiducia, all’interno verso l’intera politica e all’esterno verso la capacità del Paese di superare gli ostacoli che pure si è proposto esplicitamente di rimuovere» (17).
Il terzo criterio di discernimento è l’attenzione al merito, che va oltre le personalizzazioni e le strumentalizzazioni politiche del testo. L’elettorato è chiamato a pronunciarsi sul dettato, certamen- te non neutro, per approvarlo o bocciarlo, e sulle soluzioni in esso contenute. Da questo punto di vista, il testo, al di là del voto finale, non ha una stretta connotazione politico-partitica, ma è il compro- messo possibile di elaborazioni politiche diverse, sia per i vari emen- damenti che ha recepito sia per l’eredità lasciata dalla Commissione di esperti del Governo Letta.
Non si farà fatica, seguendo il primato del merito, a provare perplessità non già sulle direttrici di fondo di una riforma per molti aspetti matura da anni, che potranno ispirare ulteriori modifiche incrementali negli anni a venire, ma sui singoli aspetti. Tuttavia, rispetto a tali puntuali perplessità, va segnalato che una moderna cultura della «manutenzione costituzionale», senza banalizzare l’importante scelta della revisione, non sacralizza tutte le soluzioni adottate e può comunque consentire, in caso di auspicabile successo del referendum, successive modifiche migliorative che tengano conto delle critiche più motivate.
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Come ogni riforma che fissa nuove regole, il gioco dipende dalla qualità dei suoi giocatori. Su questo versante non è data alcuna garanzia, al di fuori di un alto spirito civico di ritorno alla politica ispirata dai princìpi costituzionali e da una seria responsabilità di costruzione del bene comune. È ciò che ha ribadito con fermezza il Presidente della Repubblica: «Qualunque riforma si riesca a realizzare, la democrazia assumerà le modalità concrete che gli at- tori le daranno, con il loro senso dello Stato, con l’etica della loro azione, con quanto di partecipazione dei cittadini riusciranno a promuovere» (18).
 
NOTE
1. Il progetto di riforma originario (A.S. 1429) è stato presentato dal pre- sidente del Consiglio, Matteo Renzi, e dal ministro per le Riforme istituzionali, Maria Elena Boschi. In sede parlamentare però ha subìto una ulteriore modifica soprattutto grazie al lavoro dei relatori al Senato, Anna Finocchiaro (Pd) e Roberto Calderoli (Lega Nord). Gli emendamenti approvati hanno cambiato 27 dei 43 ar- ticoli proposti dal Governo. Alla Camera il testo ha subìto una ulteriore modifica. Questo testo dell’ottobre 2015 è diventato il testo definitivo ed è stato approvato l’11 gennaio 2016 alla Camera, il 20 gennaio al Senato, e infine alla Camera il 12 aprile 2016.
2. Si veda l’approfondimento del Servizio studi della Camera in http:// documenti.camera.it/leg17/dossier/pdf/ac0500p.pdf
3. Cfr F. Occhetta, «Le proposte di riforma della Costituzione», in Civ. Catt. 2013 IV 250-260.
4. S. Mattarella, «Il bicameralismo», in Rivista trimestrale di diritto pub- blico, n. 4/1983, 1162. Il Senato, nato «inutile doppione» — così viene definito ne- gli anni Settanta da Mortati —, è il frutto di un accordo politico che includeva il collegio uninominale, ma che lo rendeva poi solo apparente, con la soglia del 65% richiesta al più votato perché funzionasse davvero all’inglese; in mancanza di tale quorum, quasi ovunque il sistema finiva col diventare proporzionale, in modo analo- go a quello della Camera. Da quando il referendum del 1993 ha eliminato il quorum del 65%, il Senato ha perso anche questo elemento dell’identità originaria pensata dai costituenti.
5. Cfr F. Occhetta, «La riforma del Senato», in Civ. Catt. 2014 II 227-237.
6. Per approfondire l’argomento, cfr F. Clementi, «Il nuovo Senato sia “hub” del controllo», in Il Sole 24 Ore, 12 aprile 2014, 8; Id. «Non un senato “federale” sul disegno di legge di riforma costituzionale del governo Renzi, ma un senato “fede- ratore”. Prime note», 16 aprile 2014, in www.federalismi.it
7. Se, per esempio, un senatore consigliere regionale favorisce qualcuno nell’esercizio delle sue funzioni di consigliere, non potrà godere dell’immunità.
8. Rimarranno comunque da pagare il vitalizio degli ex senatori e da gestire la struttura di Palazzo Madama e i circa 800 dipendenti, che verranno in parte ri- collocati.
9. Sono escluse le leggi bicamerali, quelle elettorali e la ratifica dei trattati internazionali.
10. Per le prime tre votazioni sarà necessaria una maggioranza dei 2/3 dei componenti dell’assemblea riunita in seduta comune; dal quarto scrutinio sarà ne- cessaria la maggioranza dei 3/5 dei componenti; a partire dal settimo scrutinio, sarà necessario il voto dei 3/5 dei votanti, che in realtà non differisce da quello dei componenti, perché nella prassi consolidata tutti partecipano al voto.
11. Le condizioni e gli effetti del referendum devono essere ancora stabiliti da una legge costituzionale, mentre le modalità attuative dovranno essere previste da una legge ordinaria.
12. Cfr S. Ceccanti, La transizione è (quasi) finita. Come risolvere nel 2016 i pro- blemi aperti 70 anni prima. Verso il referendum costituzionale, Torino, Giappichelli, 2016.
13. Nella prefazione al volume: F. Occhetta, Le radici della democrazia. I princìpi della Costituzione nel dibattito tra gesuiti e costituenti cattolici, Milano, Jaca Book, 2012, 12.
14. Gli oppositori della riforma contestano il metodo: anzitutto perché essa è stata proposta dal Governo, e per il nesso con la legge elettorale che introduce nell’Ordinamento una logica maggioritaria.
15. Nei due seguenti portali è possibile approfondire le ragioni pro e contro la riforma nel dibattito tra costituzionalisti: www.forumcostituzionale.it/ e www. federalismi.it nella voce «Riforma costituzionale».
16. Si tratta del c.d. Italicum, legge 52/2015, che sarà applicabile alla Camera dal 1° luglio 2016.
17. S. Mattarella, Intervento alla Cerimonia per lo scambio degli auguri di fine anno con i Rappresentanti delle Istituzioni, delle Forze politiche e della Società civile, 21 dicembre 2015, in www.quirinale.it
18. Ivi.
 
in: La Civiltà Cattolica 2016 II 331-341 | 3982 (28 maggio 2016)