La “questione ecumenica”: vorrei pensarla e seguirne fatti ed eventi non tanto per considerare avanzamenti o arresti nel cammino del movimento ecumenico, quanto per porre interrogativi sulle sue profonde motivazioni e reali prospettive, non sempre messe sufficientemente a fuoco. Ritengo infatti che ci si debba convincere che non c’è una questione ecumenica da trattare a valle della questione di Dio e della sua rivelazione nella storia biblica dell’alleanza. Quasi che il lavoro ecumenico consistesse soltanto nel ricomporre incidenti intercorsi nella storia della cristianità. Un movimento ecumenico teso a sanare incidenti di percorso della storia religiosa delle diverse tradizioni non è certo da respingere. Ma resterebbe di poco conto e di discutibile esito. In esso in gioco c’è molto di più.
La relazione con il popolo ebraico
Come dunque affrontare e seguire la questione ecumenica in termini che non siano quelli di un ecclesiocentrismo teso soltanto a ricostruire l’unità perduta della cristianità, concesso e non ammesso che sia mai realmente esistita? Penso che ci si debba mettere in ascolto del progetto di Dio e della sua manifestazione nell’ “ultimo Adamo” datore di vita (cfr 1 Co 15,45). Egli è l’uomo nuovo che, in quanto “luce delle genti” e “gloria di Israele” (cfr Lc 2,32), “è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione” (Ef 2,14).
Per la rivelazione biblica di Dio due sono le polarità della nostra storia salvifica: le genti e il popolo dell’alleanza. Infatti, da una parte, Dio ha creato tutti i popoli della terra. Dall’altra, ne ha scelto uno piccolo e marginale per benedirlo con un’alleanza irrevocabile, affinché testimoniasse il Dio Uno ed Unico e così la benedizione del vero Dio raggiungesse tutte le genti. Il senso della promessa fatta ad Abramo è che elezione ed alleanza siano vissute dal popolo di Israele non come privilegio, ma come ministero a vantaggio di tutti. Questa vocazione di Israele ad essere servo e figlio di Dio è stata adempiuta in modo pieno e radicale dall’ebreo Gesù.
La giornata del dialogo tra cattolici ed ebrei
Alla luce della parola di Dio la questione ecumenica dell’unità dei cristiani non può essere impostata a prescindere da come venne lucidamente puntualizzata, nel 1965 a Roma, dal grande teologo protestante Karl Barth con il Card. Agostino Bea: “Esiste, in ultima analisi, un solo grande problema ecumenico: quello delle nostre relazioni con il popolo ebraico”. Questa intuizione mosse la CEI (Conferenza episcopale italiana) a istituire in Italia dal 1990 la Giornata del 17 gennaio quale premessa indispensabile alla Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Non c’è infatti cammino verso l’unità tra cristiani se non a partire dalla revisione del plurisecolare antigiudaismo cristiano e delle relazioni con il popolo dell’alleanza mai revocata. È in Israele che si radicano sia la fede di Gesù sia la fede in Gesù.
La missione come lotta all’idolatria accomuna ebrei e cristiani. Comune è pure l’attesa dei tempi messianici. Questi tempi, per la fede dei cristiani, hanno avuto un anticipo, rivelativo e decisivo, nella persona del Signore Gesù e nel dono del suo Spirito. Ma gli effetti nella storia del mondo e dell’umanità non sono ancora manifestati. Pertanto ebrei e cristiani li attendono quale frutto del futuro arrivo del messia, atteso dagli uni come prima venuta e dagli altri come suo ritorno. Perché, allora, non attenderlo lavorando insieme a prepararne le vie sulla terra nella giustizia e nella pace?
Francesco nella Sinagoga di Roma
Proprio la prospettiva di collaborare nella testimonianza del comune patrimonio etico ha caratterizzato i messaggi che i Rappresentanti della Comunità ebraica e il Papa si sono scambiati nella recente visita di Francesco alla Sinagoga di Roma. Come già nel 2010 con Benedetto XVI, la data scelta per l’incontro è stata significativa: il 17 gennaio, la Giornata del dialogo cristiano- ebraico. Ora, il terzo incontro di un Papa con gli ebrei romani è avvenuto a 30 anni di distanza dalla storica prima visita, quella di Giovanni Paolo II, nel 1986. Nel suo saluto a Francesco il Rabbino Capo di Roma, Riccardo Di Segni, l’ha commentata così: “Secondo la tradizione giuridica rabbinica, un atto ripetuto tre volte diventa chazaqà, consuetudine fissa”.
È importante che sia stato ufficialmente riconosciuto che il radicale cambiamento dei rapporti tra cristiani ed ebrei si stia consolidando. È un processo il cui inizio, almeno per quanto concerne la Chiesa cattolica, tutti gli interventi in Sinagoga hanno ricondotto alla svolta prodotta nel 1965 dal documento conciliare Nostra Aetate. Ritengo che, soprattutto da parte cristiana, la strada da percorrere sarà lunga e non facile. Ma il cammino è stato avviato.
La conversione solo nei confronti di Dio
In un colloquio che ebbi con Di Segni nel suo ufficio romano, durante il pontificato di Benedetto XVI, affrontammo le principali obiezioni che egli, da parte ebraica, muoveva al dialogo con i cristiani. Tra queste quella da lui più spesso protestata come insuperabile ostacolo era la mancata rinuncia da parte cristiana alla volontà di convertire gli ebrei. Purtroppo si tratta di un grande equivoco, alimentato dall’insipienza di molti cristiani. Infatti la conversione, dal punto di vista biblico, è sempre e solo nei confronti di Dio, dell’unico Dio, che è il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe: questi è il Dio di Gesù e dei suoi discepoli di tutti i tempi.
Da convertire a questo Dio non è dunque il popolo dell’alleanza, ma sono le genti. A questa conversione dall’idolatria tende la missione, che potrebbe accomunare ebrei e cristiani. Poi, dal momento che la tentazione idolatrica si ripresenta ai credenti all’interno di ogni esperienza religiosa, possiamo dire che sul piano spirituale siamo tutti da convertire ogni giorno al Dio della rivelazione biblica. Questa esigenza di ritornare a Dio non è però nel senso della conversione come passaggio da una identità religiosa ad un’altra. Bensì di liberarsi interiormente dai propri idoli.
Di Segni alla fine accettò gli argomenti a favore del dialogo, ma aggiunse che così non ragionava ancora il vertice della “piramide ecclesiale” a cui appartenevo. Ora, nei giorni precedenti la visita di Francesco, Di Segni in una sua intervista al “Corriere” è ritornato sulla missione cristiana per convertire gli ebrei, lasciando trapelare che aveva fiducia nell’atteggiamento dell’attuale vertice cattolico.
Infatti il recente documento vaticano, pubblicato il 10 dicembre 2015 dalla “Pontificia Commissione per i rapporti religiosi con l’Ebraismo” Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili (Rm 11,29), dichiara: “La Chiesa deve dunque comprendere l’evangelizzazione rivolta agli ebrei, che credono nell’unico Dio, in maniera diversa rispetto a quella diretta a coloro che appartengono ad altre religioni o hanno altre visioni del mondo. Ciò significa concretamente che la Chiesa cattolica non conduce né incoraggia alcuna missione istituzionale rivolta specificamente agli ebrei” (40). Vi ha fatto esplicito e positivo riferimento, nel suo saluto a Francesco, la Presidente della Comunità ebraica di Roma, Ruth Dereghello.
Una dichiarazione “rivoluzionaria”
Il documento vaticano ha costituito il presupposto teologico di quanto Francesco ha di fatto mostrato soprattutto con il calore dei suoi gesti e delle sue parole. Salutare fraternamente le singole persone della Comunità ebraica, esprimere intensa commozione nel ricordo della Shoah, affermare esplicitamente la parentela dei cristiani con gli ebrei nell’unica famiglia dei figli di Dio andava oltre la semplice negazione di una missione evangelizzatrice. La missione della Chiesa è infatti solo missio ad gentes: rivolta alle genti, non a Israele. Questo non comporta di sottrarre agli ebrei la testimonianza evangelica della fede di Gesù. Ma neppure di pretendere da loro la nostra stessa fede in Gesù. Infatti la fede di Gesù e la fede di Israele sono nello stesso Dio. La conversione è a questo Dio Uno ed Unico e pertanto non riguarda chi già lo professa.
Jehoshua Ahrens, Rabbino a Zurigo, in un’intervista resa nota alla fine di gennaio, presenta un documento firmato da 28 rabbini ortodossi di Israele, Stati Uniti ed Europa e pubblicato il 3
dicembre scorso. Lo definisce una “dichiarazione rivoluzionaria”, rispetto al fatto che l’ortodossia ebraica considerava il cristianesimo come idolatria o culto straniero. Invece questi rabbini ortodossi lo riconducono al piano divino e gli riconoscono “il grande merito di aver fatto sì che si diffondesse la fede nel Dio unico e si affermassero i valori ad essa legati”. Questa posizione non è nuova tra gli intellettuali ebrei. È importante all’interno della ortodossia ebraica.
L’intenzione dell’attuale Vescovo di Roma di abbattere muri e costruire ponti trova dunque importanti interlocuzioni e significative corrispondenze. La via da percorrere resta lunga, ma l’importante è orientare i passi nella direzione giusta. La priorità data alla relazione con il popolo ebraico esprime l’intelligenza di chi, non affetto da miopia, ha un’alta e profonda visione della “questione ecumenica”.
di Gianfranco Bottoni, (Presbitero cattolico, già Responsabile per l’Ecumenismo e il Dialogo dell’Arcidiocesi di Milano), in “Viandanti” – www.viandanti.org – del 20 marzo 2016