Quando parliamo di nuove frontiere della comunicazione facciamo riferimento alla rivoluzione digitale. Sembrerebbe quasi che il digitale abbia cambiato il nostro modo di comunicare, creando l’illusione della dicotomia tra reale e virtuale (molti ricorderanno che fino a una decina di anni fa erano questi i termini della questione). Oggi siamo capaci di affermare che ci sbagliavamo, che esiste una continuità tra reale e virtuale e che la rivoluzione digitale non è un nuovo modo di comunicare ma il modo con cui lo facciamo. Cambia il supporto, che diventa veloce, immediato, sempre accessibile e disponibile, ma anche tracciabile, ricostruibile e identificabile.
Questo approccio ha delle ricadute relazionali incredibili: non si tratta più di dover stimolare a comunicare, ma di ricollocare al giusto posto la comunicazione e la relazione. Se proiettiamo quanto detto sugli adolescenti capiamo che oggi essi sono sovraesposti alla comunicazione e si relazionano troppo, senza avere degli spazi normati per farlo (neanche quelli dati dalla corporeità).
Il confine tra reale e virtuale è ormai superato, la diatriba tra OnLine e OffLine viene oltrepassata nel momento in cui le tecnologie diventano trasparenti, utilizzabili senza accorgersi di usarle. E qui si pone il grande problema delle ICT: l’innovazione non consiste solo nelle nuove ICT ma nel modo in cui queste vengono utilizzate. È un problema di governance del digitale.
 
L’informazione e l’identità
Approfondendo questa riflessione di contesto, vorrei focalizzare l’attenzione su due filoni (tra i molteplici a disposizione): l’informazione e l’identità.
L’informazione cambia nell’infosfera, la condiziona e la crea allo stesso tempo: la mole di dati prodotti negli ultimi anni supera quelli prodotti dall’inizio della storia dell’uomo fino a oggi . Come ci possiamo orientare in tutti questi dati? Solo utilizzando le ICT, ovvero specifici algoritmi che permettono di trovare le informazioni in questa mole di byte: Google e affini. Qui interviene una riflessione basilare: come vengono progettati gli algoritmi? Quali sono i valori che sostengono la loro progettazione e prototipazione?
Abbiamo bisogno di un’adeguata riflessione filosofica sul tema, meglio ancora etica. Quanto può cambiare la risposta se varia la struttura progettuale di un algoritmo? Tutto. Facciamo un esperimento: provate a cercare un’informazione online utilizzando diversi motori di ricerca. Noterete le differenti risposte fornite. E se provaste a fare la stessa ricerca utilizzando un motore di ricerca che vi conosce, che si interfaccia con altri servizi di uso quotidiano (ad esempio la mail, cloud storage, o altro) vi accorgerete che la risposta sarà ancora diversa, calibrata su un vostro trend personale. Ecco allora che le risposte di un “semplice” algoritmo di ricerca cambiano in base alle priorità sulle quali è progettato.
Quale risposta è migliore? Difficile a dirlo a priori: una basata su un trend personale può essere di aiuto quando devo effettuare un acquisto o cercare una strada o un locale. Allo stesse tempo potrebbe essere sviante quando le informazioni che cerco sono in riferimento ad una specifica questione di cronaca. Ecco allora una possibile direzione necessaria: un’etica del digitale, definita da Paolo Benanti Algor-etica. L’algoretica è fondamentale per comprenderci propriamente in un mondo digitale, mantenendo la nostra peculiarità di esseri umani, cioè al centro della quarta rivoluzione.
L’altro aspetto sul quale intendo soffermarmi è l’identità. Come essa si struttura è ormai dato dalla psicoanalisi ma è interessante notare che la nostra identità si forma in relazione ad una alterità che è l’altro. Lo sguardo dell’altro ci dice chi siamo (anche solo perché ha una maggior comprensione di noi, essendo un altro punto di vista). Che significa tutto questo in una relazione dove lo sguardo è assente perché veicolato solo da emoticons? Che sguardo può avere l’altro verso di me? Che sguardo può/deve avere la macchina (Intelligenza Artificiale) su di me?
Interessante è notare anche come avviene questa comunicazione: non è più argomentativa ma narrativa. Le argomentazioni non sono più interessanti e vengono sostituite dalle “storie” che sono emotive, coinvolgono i sentimenti partendo da una presunta logica razionale.
Tutto questo accade in un mondo che è veloce, in rapido mutamento, dove vengono sviluppati sempre nuovi linguaggi per accedere velocemente e semplicemente alla comunicazione, mentre spesso la complicano e la frammentano.
 
Ricadute didattiche e sociali
E’ evidente che tutto questo ha delle ricadute sulla didattica curricolare.
Primo aspetto: l’identità.
La formazione dell’identità è data dalla storia personale (famiglia), mediata dall’incontro dall’altro più prossimo (amico/i) e dagli altri meno prossimi (gruppo dei pari). Ora questa semplificazione si espande con il digitale. Che cosa significa formarsi un’identità essendo sempre in relazione/comunicazione (dove anche il silenzio è interpretato ?) E come posso costruire la mia presenza online se il digitale non dimentica ?
Secondo aspetto. formazione di una coscienza pensante.
Se l’informazione non è libera, poiché ci sono troppo possibilità e devo affidarmi ad un algoritmo che faccia da mediatore per le mie esigenze, cosa significa formarsi una coscienza pensante in questa realtà? Come posso agire sapendo che sono io che ho scelto (e non un’intelligenza artificiale che mi ha suggerito un pensiero)?
Tematizzati i problemi, provo a definire alcuni accenni di risposta.
Occorre in primo tempo ricollocare le ICT in un giusto spazio: inutile combatterle (sono trasparenti) ma provare ad insegnare ad utilizzarle con intelligenza e metodo, cercando di stimolare la curiosità e lo spirito di ricerca di soluzioni non superficiali ma rielaborate personalmente (Es: qual è la tua risposta?).
Serve scoprire una calma digitale: non sentirsi sopraffatti dalla mole di informazioni (che ormai non possediamo più) ma cercare di trovare un metodo per districarsi in queste connessione paludose.
Bisogna sviluppare autoconsapevolezza per imparare a riconoscere e definire le emozioni, per gestirle e sopravvivere così alla battaglia della comunicazione che fa leva sui sentimenti.
Inoltre, collocare il digitale in una realtà che è più complessa e affascinante del digitale stesso: il miglior rimedio all’AID (Affection Internet Disorder) sono le ICT stesse: per poter scoprire la bellezza del mondo si può anche passare dal digitale – un esempio su tutti sono i tutorial.
L’aspetto educativo fondamentale che rimane e permane: avere cura dell’altro prendendo seriamente in conto la sua situazione esistenziale per camminare insieme verso un nuovo percorso di crescita.
Davì Mattia