L’autrice,Valérie Amiraux, è una sociologa, titolare della cattedra di studi sul pluralismo religioso presso l’Université de Montréal
Parlare di “ritorno del sacro” non ha senso. Teniamolo presente: i “non affiliati a una religione”, gli individui definiti anche “senza religione”, sono coloro che in termini demografici aumentano ovunque più di altri. Come gruppo nel 2015 si sono collocati al secondo posto in America del Nord e in Europa (secondo i dati del Pew Research Center). Parlare di centralità del sacro in alcuni dibattiti della società contemporanea è dunque molto più chiaro e pertinente. Tale
centralità si manifesta in modi diversi. A intervalli regolari l’argomento approda alle prime pagine della stampa di vari stati membri (Germania, Belgio, Francia) allorché divampano le polemiche sul diritto degli appartenenti ad alcune minoranze religiose di compiere o meno gesti precisi. Un funzionario statale può indossare la kippah? Una donna col velo può insegnare nella scuola pubblica? Questi sono solo alcuni esempi che si riferiscono a casi reali. Nel panorama internazionale, la centralità del sacro nella vita pubblica è dunque rammentato di continuo all’Europa, a margine dei grandi dibattiti sul diritto d’aborto, sul fine vita assistito, sul diritto di adozione da parte di coppie dello stesso sesso, sulla genitorialità omoparentale o sul matrimonio per tutti, e sull’insegnamento delle religioni nelle scuole pubbliche.
Non potremmo concludere questo inventario di casi reali senza sottolineare una cosa evidente: fuori dalle istituzioni religiose che hanno saputo valorizzare e incoraggiare il dialogo interreligioso, sono state soprattutto le scuole i luoghi privilegiati nei quali si sono accese discussioni incandescenti su questo argomento. Anche in questo caso, alla ribalta sono sempre arrivate le discussioni riguardanti l’abbigliamento e l’ostentazione dei simboli religiosi di appartenenza. A tutto ciò andrebbero aggiunti i dibattiti sulla presenza del crocifisso nelle aule, quelli sull’insegnamento dei principi religiosi nelle scuole pubbliche e, ancora, i dubbi sulla legittimità di modificare a mensa i regimi alimentari di coloro che per convinzione religiosa consumano determinati alimenti invece di altri, chiedono che gli esami siano spostati qualora cadano in un giorno festivo per loro, o contestano alcuni insegnamenti. Insomma, se da un lato le società europee sono laiche, dall’altro continuano a parlare di religione, spesso a favore di dibattiti polarizzanti che in qualche caso sono sfociati in leggi restrittive o, per meglio dire, potenzialmente discriminatorie (in via diretta o indiretta). Un esempio illuminante di ciò è il recente stop opposto dalla Corte di giustizia dell’Unione europea al divieto di indossare il velo islamico nelle aziende.
Fuori da questi dibattiti polarizzati, noi cittadini riusciamo a cogliere fino in fondo il significato della religione? Questa domanda potrà sembrare ad alcuni lettori tanto più illegittima quanto più l’esplosione nel cuore dell’Europa della violenza politica e del terrorismo islamista turba in profondità i nostri animi. Malgrado ciò, a me sembra essenziale formularla. In effetti, per molti europei, per esempio, è difficile vivere il pluralismo religioso in prima persona e il più delle volte, se lo si fa, ciò accade per interposta persona. Il pluralismo e la diversità religiosa dell’Unione si riducono per lo più e in primo luogo a cifre, scontri mediatizzati, parole d’ordine scandite in riferimento a politiche sociali. Il concetto di spazio pubblico esige alcuni elementi di definizione: spesso confuso, e a torto, con lo spazio dell’azione e dell’autorità dello Stato, esso rimanda prima di tutto all’idea di un luogo nel quale ci si forma un’opinione, e dunque all’idea di un’arena nella quale si svolgerebbero in maniera razionale dibattiti, dispute, discussioni e confronti tra cittadini che desiderano pervenire a un’intesa. La credenza religiosa ha diritto di cittadinanza nello spazio pubblico. Deve, al contrario, tenersi in disparte rispetto allo spazio dello Stato. La partecipazione degli individui è un altro elemento essenziale al centro dell’idea di spazio pubblico nelle democrazie liberali. I cittadini, liberi e uguali, deliberano, si oppongono, argomentano e discutono di questioni che li riguardano, direttamente o indirettamente. L’orizzonte di questa conversazione nella quale si impegnano gli uni e gli altri è sempre la vita della collettività, la vita di tutti.
Lo spazio pubblico della laicità liberale fa affidamento, quindi, sull’esercizio della libertà di coscienza: nel privato ogni individuo può credere (o non credere) quello che vuole senza che ciò lo esponga a conseguenze nella sfera pubblica. Tuttavia, si esige che le organizzazioni religiose si astengano da qualsiasi ambizione politica, che non intervengano come parti in causa nello spazio pubblico, e che rispettino la legge. I contatti tra queste istituzioni religiose, islamiche e di altre confessioni religiose, e le istanze politiche prendono strade diverse, dal rifiuto reciproco e radicale alla strumentalizzazione vicendevole. Quanto alla vita spirituale delle persone credenti, lontano dalle istituzioni, è di per sé modesta e discreta. Lo spazio pubblico è dunque percepito come una sfera prodotta da un consenso culturale che prevale sulle libertà dell’individuo e su una pratica religiosa ridotta a preferenza privata, a scelta personale. Di conseguenza, lo spazio pubblico diventa lo spazio della realizzazione della comunità politica e della cittadinanza sotto il prisma della visibilità: un buon cittadino non nasconde nulla. Ma che cosa diventa questo spazio pubblico in un contesto di pluralizzazione delle credenze, di espressione dei conflitti, di rivelazione dei rapporti di potere che condizionano i rapporti sociali?
È mia opinione che questa sia la sfida principale dei regimi laici nelle società secolarizzate. L’antagonismo delle posizioni nei dibattiti di cui abbiamo parlato precedentemente traduce l’impossibilità di cogliere il senso di ciò che può animare un cittadino credente nella sfera pubblica. L’esperienza religiosa, tuttavia, è ben lungi dal ridursi esclusivamente a una questione di scelta. L’esperienza del sacro coincide con modalità ben più vaste di adempimento che devono impedirci di omogeneizzare i protagonisti in identità collettive fisse. Ci si attende che i credenti si comportino in maniera conforme alle aspettative dei non credenti, in funzione di una capacità di lettura definita dalle culture politiche, il che di fatto riduce il margine di lettura, di interpretazione e in definitiva di comportamento dei soggetti credenti.
Dunque questo è ciò su cui dobbiamo lavorare a livello di società: rendere le religioni degli uni comprensibili agli altri, in spazi pubblici la cui virtù principale resta quella di rendere possibile il dialogo tra individui diversi.
Elogio civile del dialogo tra amore sacro e amor profano, di Valérie Amiraux, in “la Repubblica” del 21 marzo 2017, Traduzione di Anna Bissanti