Il più popoloso tra i Paesi musulmani — 255 milioni di cittadini, l’87% dei quali di confessione sunnita — è anche una democrazia. Ma non è uno Stato islamico. Una distinzione rilevante per una nazione frantumata in diciassettemila isole bagnate dai caldi mari del Sud-Est asiatico, dove la rivelazione di Maometto è giunta a partire dal Nono-Decimo secolo, grazie soprattutto ai mercanti indiani e non per conquista (araba). «La parola chiave, in Indonesia, è pancasila — ci spiega Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, da poco rientrato da un viaggio a Giacarta —. Una dottrina politica ma anche un filosofia che predica  Lo Stato riconosce sei differenti religioni, e l’Islam è la più praticata».
Riccardi aggiunge come la fede — per quanto certamente importante — abbia un ruolo di «apporto spirituale» alla vita nazionale, che si fonda su una sorta di ossimoro, «laicità religiosa» che aiuta a comprendere perché tolleranza e dialogo restino i cardini nel rapporto tra le diverse comunità di questa nazione-mosaico. E la verità è che l’Indonesia è un laboratorio interessantissimo su quello che potrebbe essere il futuro dell’Islam politico, altrove dilaniato da sanguinose lotte intestine e incapace di confrontarsi con realtà spirituali diverse. Ecco dunque un Paese che non ha mai cancellato i legami con le culture preesistenti — buddhismo, animismo, culti locali — mescolando sapientemente le differenti visioni di realtà e ultraterreno, dove il collante principale viene naturalmente dal Corano, il cui successo nei secoli fino a oggi appare indiscutibile.
Ma quale Corano? Se il Libro della fede è certamente identico in tutto e per tutto a quello letto nelle moschee del Medio Oriente, è quanto gli gira attorno che appare straordinario. Intanto le figure religiose di riferimento: in Indonesia convivono beatamente Imam (maestri di dottrina) e «sanro», sorta di stregoni-sciamani che, in assenza di un approccio più scientifico ai bisogni interiori, sostituiscono serenamente lo psicologo nel momento del bisogno. «Le differenze pratiche — ci ha detto Sharyn Graham Davies, antropologa all’Università tecnologica di Auckland, in Nuova Zelanda — sono state incorporate in un sistema duttile e pragmatico che permette la coesistenza di figure sacre apparentemente incompatibili».
Dunque, arti occulte e religione: altro che le «streghe» giustiziate senza pietà nei territori dello Stato Islamico. Magia bianca e magia nera sono parte del paesaggio, peraltro — al di là della megalopoli Giacarta — contraddistinto dai profili incerti di villaggi contadini immersi nella caligine equatoriale. Ma anche la tolleranza dolce del Buddhismo, o semplicemente la predicazione d’amore del Cristianesimo: tutto coesiste e si confonde nell’animo gentile degli indonesiani. Che, forse unici nel mondo islamico, riescono a immaginare un’idea di convivenza che sta proiettando la loro nazione tra le tigri dell’Asia: Pil in crescita del 5% e classe media in continua espansione. L’infrastruttura della religione, la sua diffusione, è demandata in particolare a due confraternite, la Muhammadiyah e la Nahdlatul Ulama: congregazioni che esprimono il contrario di quanto vanno predicando le scuole più retrive dell’Islam mediorientale. Dunque, per queste organizzazioni, ciò che conta è l’impegno sociale, il dialogo inter-religioso e la diffusione dell’idea democratica.
Ma sbaglieremmo a considerare l’Indonesia un Paradiso della tolleranza senza se e senza ma. Purtroppo le influenze del radicalismo che sta infiammando il mondo islamico più ampio — con il fulcro nel Medio Oriente — sono arrivate anche nel Sud-est asiatico. E l’Isis, oggi, può vantare un migliaio di seguaci in Indonesia mentre sono almeno 600 i cittadini del Paese che attualmente combattono in Siria: un via vai drammaticamente pericoloso. D’altro canto, negli anni Duemila, gli autori dei massacri di Bali e altri attacchi si identificavano con Al Qaeda e l’organizzazione dominante era la Jemaah Islamiyah.
Nessuno, a Giacarta, insomma, nasconde il pericolo rappresentato da queste minoranze estremiste. Che certo non possono tollerare un mondo all’antitesi del loro credo fanatico. Ma il cuore di questa nazione asiatica pulsa verso la coesistenza. Ecco forse la ragione principale di tanto sangue.

L’Islam dei teologi dialoganti (nel Paese delle sei religioni) Ma la tolleranza è nel mirino, di Paolo Salom, in “Corriere della Sera” del 15 gennaio 2016