in una riflessione che presta ascolto alla Bibbia ebraica e alla voce dei teologi, al pensiero di Freud e alla letteratura di Dostoevskij, Julia Kristeva affronta il tema dei giovani radicalizzati nel contesto dei malesseri della civilizzazione. L’impotenza del discorso politico, l’inarrestabile crescita del populismo, l’affermazione di culti identitari e l’esplosione della pulsione di morte sono sintomi di un disagio che, in alcuni casi, produce l’incapacità di distinguere il bene e il male, l’interno e l’esterno, il soggetto e l’oggetto. E’ un quadro che richiede di mobilitare tutti i mezzi, politici ed economici, «senza dimenticare quelli che ci danno la conoscenza delle anime», per accompagnare con la delicatezza dell’ascolto necessario, con un’educazione adatta e con la generosità che si impone, questa dolorosa malattia che irrompe su di noi. «Domandare perdono per il male commesso, accordare il proprio perdono per il male subìto – scrive Julia Kristeva – sono due condizioni necessarie perché l’avvenire cessi di ripetere il passato e rinasca la speranza».
Descrizione
Titolo: La notte della giustizia all’alba del perdono
Autore: Julia Kristeva
Editore: Edizioni Dehoniane Bologna
EAN 9788810567760
Pagine: 64
Data. febbraio 2018
Prezo. 7 Euro
 
 
 Il perdono? Si rivela nell’arte
di Julia Kristeva
Dalla Bibbia ebraica alla teologia cristiana, da Freud a Dostoevskij, da Bacon a Céline: un orizzonte che la psicoanalista e scrittrice Julia Kristeva affronta nel volumetto «La notte della giustizia all’alba del perdono» (Edb, pp. 64, euro 7) per comprendere le cause della violenza montante oggi, fino a quella ddelle gang giovanili che seminano terrore. La studiosa parte dalla costatazione di un agire politico inefficace, che si trova con le spalle al muro, che paga pegno dando spazio ai populismi, che non sa leggere i segni dei tempi, dai culti identitari alla esplosione della pulsione di morte. Nel brano che anticipiamo l’autrice riflette su come l’arte e la letteratura riflettendo sull’orrore possano essere un balsamo per la violenza più efferata.
Dire che l’opera d’arte è un perdono suppone già l’uscita dal perdono psicologico (ma senza misconoscerlo) verso un atto singolare, quello della «messa in forma», attraverso la nominazione e la composizione, nel linguaggio o in un altro «segno » (suono, colore, gesto, impronta, materia…). La pratica dello scrittore opera con la parola: una costruzione simbolica, fatta di termini, assorbe e sostituisce il perdono quale movimento emozionale, misericordia, compassione antropomorfica.
Allo stesso modo, si riuscirebbe a comprendere in che cosa l’arte sia un perdono solo aprendo tutti i registri specifici di questa tecnica in cui il perdono opera e si esaurisce. Per il romanzo si inizierà dall’identificazione psicologica, soggettiva, con la sofferenza e la tenerezza degli altri, dei “personaggi” e di se stessi, desunti in Dostoevskij dalla fede ortodossa. Il lettore apprenderà pure le opzioni filosofiche dell’autore, più o meno discrete. Infine, si osserverà l’oscillazione di questo perdono – al di là della polifonia dell’opera e dell’urto dei giudizi – nella sola performance estetica, nel godimento della passione come bellezza. Vale a dire, nella bellezza al di là, attraverso o addirittura malgrado il giudizio? Potenzialmente immorale, quest’ultimo tempo del perdono- riassorbito nella prestazione ritorna al punto di partenza del movimento circolare: alla sofferenza e alla tenerezza per l’altro, per lo straniero, addirittura per il criminale… ormai in me, perché è in me che la bellezza li ha impiantati. Pensiamo alle donne diaboliche di Willem De Kooning, alla macelleria di Francis Bacon, alla Pantomima per un’altra volta di Louis-Ferdinand Céline… io li accompagno.
L’idea del perdono abita totalmente l’opera di Dostoevskij. Umiliati e offesi (1861) ci fa incontrare, fin dalle prime pagine, un cadavere ambulante. Il perdono è quasi una follia nell’Idiota (1868- 1869). I demoni (1873) della rivoluzione e del nichilismo si estinguono nella confessione di Stavrogin. Ma è l’artificio del perdono e della risurrezione, tuttavia imperativi per lo scrittore, che risplende in Delitto e castigo (1866). Ascoltando le sorgenti della crimina-lità, Dostoevskij scopre la logica crudele della depressione: la hainamoration fra l’io e l’altro, il ribaltamento contro l’altro del deprezzamento dell’io. Il crimine gli appare come una reazione di difesa contro la depres- sione: l’assassinio dell’altro protegge dal suicidio. La “teoria” e l’atto criminale di Raskolnikov dimostrano perfettamente questa logica. L’atto omicida fa uscire il depresso dalla passività e dall’abbattimento, confrontandolo con il solo oggetto desiderabile che per lui è l’interdetto incarnato dalla legge e dal padrone: nella sua mania, Raskolnikov vuole fare come Napoleone.
Lo scrittore mette così genialmente in evidenza l’identificazione del depresso con l’oggetto odiato: «Sono io che ho assassinato, io e non lei, io stesso».
«Infine non sono che feccia irrevocabilmente. […] perché io sono forse più vile, più ignobile della feccia che ho assassinato ». La sua amica Sonia esprime la stessa constatazione: «Ah! Che avete fatto, che avete fatto di voi stesso?». Il perdono che lo scrittore assume dalla teologia ortodossa, e che trasforma a suo modo, appare come la sola via d’uscita, la terza via fra l’abbattimento e l’assassinio. Avviene nel succedersi dei chiarimenti erotici e appare non come un movimento d’idealizzazione che reprime la passione sessuale ma come la sua traversata.
L’angelo di questo paradiso, dopo l’apocalisse, si chiama Sonia, prostituta certamente per compassione e per la preoccupazione di aiutare la sua miserabile famiglia, ma comunque prostituta. Quando segue Raskolnikov al bagno in uno slancio di umiltà e di abnegazione, i bagnanti la chiamano «nostra madre dolce e soccorrevole». La riconciliazione con una madre affettuosa ma infedele, cioè prostituta, al di là e malgrado i suoi “errori”, appare allora come una condizione della riconciliazione con se stessi.
Essere “se stessi” si dimostra infine accettabile perché ormai collocato fuori dalla giurisdizione tirannica del maestro. La madre perdonata e perdonante diventa una sorella ideale e… rimpiazza Napoleone. L’eroe umiliato e bellicoso può infine tranquillizzarsi. Eccoci nella scena bucolica della fine: una giornata chiara e dolce, una terra inondata di sole, il tempo si è arrestato: «Sembrava che il tempo si fosse arrestato all’epoca di Abramo e delle sue greggi».
L’immaginario è questo luogo straniero in cui il soggetto rischia la sua identità perdendosi fino alla soglia del male, del crimine o dell’asimbolico, per attraversarlo e testimoniarlo… da un altrove. Spazio duplicato, cui spetta solo di essere solidamente agganciato all’ideale che autorizza la violenza distruttrice, che si dice invece di farsi. È la sublimazione e ha bisogno del per-dono. Scriviamolo con un trattino: per-dono. Per far apparire che al cuore di questa appropriazione- trasmutazione della teologia in estetica risiede la donazione del senso: l’interpretazione senza fine dell’ineffabile. La bellezza della frase e del racconto consacra e supera la traversata della passione.
in “Avvenire” del 10 febbraio 2018