Una delle questioni più ricorrenti oggi, riguarda l’urgenza di un ripensamento della morale. Da più parti si avverte la necessità di ritornare a riflettere sull’etica. Nelle famiglie, nelle scuole, nelle università, nella Chiesa e nei gruppi di associazioni laiche e politiche si discute del giusto comportamento dell’uomo. Il sociologo polacco Zygmunt Bauman, attento osservatore dei cambiamenti sociali in atto, ha evidenziato che viviamo in un sistema organizzato che tende a “cancellare le responsabilità” della persona[1]. Viviamo in un tempo che vede sempre di più il distacco dell’agire morale dal principio di responsabilità. È chiaro oramai a tutti: le riflessioni etiche elaborate nei secoli dai grandi maestri, a partire da Aristotele, passando per Tomamso d’Aquino, fino a Emmanule Kant, per giungere a Jurgen Habermas e poi a Hans Jonas, sembrano essere state dimenticate. L’inquilino postmoderno si muove all’interno di una pluralità dei linguaggi e stili di vita, di comportamenti e modi di agire che non si riconoscono più in un linguaggio universale, riconducibile ad una totalità metafisica o ideologica.
Non si è più disposti ad accettare una morale che sia calata dall’alto, percepita come congelazione delle aspirazioni profonde dell’esistenza, quelle che scaturiscono dal basso, dove pulsa realmente la vita delle persone. Soprattutto riguardo alle libertà, le uguaglianza e la dignità dell’essere umano, quando sono messe in discussione, insorge subito il primato dell’autonomia del soggetto che non accetta di obbedire a nessun ordine esterno, se non alla propria visione di mondo e di uomo, principalmente alla propria coscienza. Alla quale la stessa legge deve sottoporsi. Pensiamo alla sensibilità dell’opinione pubblica circa le conquiste delle parità dei diritti tra l’uomo e la donna, della libertà di espressione, dell’autodeterminazione della vita, de diritti civili, della libertà religiosa, l’istruzione per tutti, la discriminazione razziale. I rapporti del singolo con la società e le istituzioni si vanno sempre più riscrivendo. In tale movimento sono messi in discussione e si ridisegnano anche i rapporti del singolo con la religione e le rispettive istituzioni di riferimento.
Accade che anche tra i credenti, riguardo alla sfera dei diritti, delle libertà e della morale sessuale, si va affermando il primato del soggettivo sull’oggettivo, quale superamento della società e delle sue istituzioni a cui ci si doveva uniformare come nei secoli passati. La prospettiva che per secoli garantiva l’ordine si è capovolta: la società si deve adattare al singolo servendone la felicità e la realizzazione personale e non viceversa. Per cui il punto da cui si valuta ogni cosa è il soggetto, da cui si definisce ogni valore e si assume ogni comportamento. In questa dinamica spesso l’io sembra interpretato, non secondo una visione matura dell’individuo posto in relazione all’altro e alla terra dove vive, ma secondo una prospettiva che già il filosofo tedesco Max Stirner aveva argomentato: l’egoismo unico criterio di vita, elevato a coscienza della società. L’unico proprietario di sé stesso è il singolo: né Dio, né lo Stato e tantomeno la società, ma l’individuo, unico, libero, il cui compito è soddisfare e rappresentare se stesso senza modelli precostituiti[2].
Il principio della nuova etica dunque, trova nel soggetto e nella sua spontaneità il suo fondamento, giungendo paradossalmente pure fino all’imperativo delle esigenze dell’altro, ma questo appare compiersi soprattutto perché così va bene prima di tutto a sé stessi e non per il riconoscimento pieno di tale valore. Pertanto ci si mostra molto attenti alle necessità dell’altro, a partire dalla cura del pianeta e alla salvaguardia dell’ambiente, secondo l’etica ecologista e con il complessivo contesto societario, assumendo anche apertamente delle posizioni di parte, salvo poi che nella pratica individuale e privata, non poche volte accade di dimenticarsi quanto si è affermato in pubblico. Di fatto ciò che si va realizzando è quanto lo storico delle religioni Mircea Eliade aveva già sostenuto: l’uomo moderno esiste nella misura in cui rifiuta di riconoscersi nell’antropologia cristiana, un profilo che il filosofo tedesco Habermas ha prefigurato come grave rischio per  l’uomo contemporaneo, il quale soprattutto in Occidente, una volta abbandonata la sua eredità religiosa, metterebbe a repentaglio la sua stessa identità e i progressi sociali conquistati, i quali trovano proprio nell’etica cristiana dell’amore la sua forma più alta[3]. Cosa che evidentemente interroga non soltanto quanti cercano di decifrare il presente e sono intenti nel capire e scegliere quali siano le strade giuste da percorrere  nel crocevia della storia in cui ci troviamo, ma soprattutto pone una seria provocazione alla Chiesa Cattolica, ai suoi rappresentanti e a quanti si ispirano al suo messaggio. Sicuramente qualcosa è mancato nel rapporto tra quest’ultima e la modernità con tutto ciò che questo comporta.
Nell’odierna società quindi, ogni cosa viene ad essere collegata all’individuo e alla sfera emozionale della vita, infatti tutto rientra esclusivamente nel dominio del soggetto: non esiste realtà che non sia allacciata alla persona. Un aspetto questo che da una parte ha permesso un maggiore sviluppo della consapevolezza della soggettività dell’individuo, del valore della libertà e delle sue responsabilità, mentre dall’altra ha favorito una relazione alquanto nuova con l’oggettività del reale e i valori morali ad esso connessi. Infatti si va diffondendo una nuova “coscienza antropologica” e si prefigura un tempo “dell’uomo dell’oltre” secondo il teologo Carmelo Dotolo: colui che non ha altra autorità che se stesso[4]. Le conseguenze di questa posizione vedono la storia consegnata esclusivamente nelle mani dell’uomo, senza alcun legame significativo con il tutto, il quale ha la pretesa di costruire ogni cosa da sé. Addirittura lo stesso concetto di verità viene inteso come qualcosa che si fa da sé e comprende il credibile, disponibile solo nell’immanente.
In questa prospettiva la verità non può essere più pensata come unica e dove per ogni domanda sono possibili risposte di diverso orientamento e visione del mondo, tante quanto sono gli individui sulla faccia della terra. Ci troviamo appunto nel paradigma del “pluralismo delle verità”, dove la sua pretesa definitiva ed esclusiva è sostituita da una pretesa particolare, reciprocamente tollerante, in cui la ricerca di ciò che è vero viene vista come un processo aperto. Dove certamente viene incoraggiata una maggiore ricerca personale e una più profonda riflessione su quanto circonda gli esseri umani e di quanto accade nella storia, ma evidentemente ci si ritrova anche con tante verità che ciascuno piega a suo gusto, da cui scaturiscono tante narrazioni del reale, spesso interpretato sull’onda emotiva del momento, perlopiù pilotate dai grandi mezzi di comunicazione. Il sociologo Mauro Magatti ha evidenziato che in tale contesto ognuno è costretto a trovare la propria personale sintesi per cercare una ubicazione dentro sistemi sociali e relazionali molto complessi, conflittuali e contradditori, indipendentemente da ogni forma di società unitaria proposta o data[5].
L’orizzonte del cittadino contemporaneo pare in tale modo disarticolato, ogni “fine e finalità” della vita ha la consistenza di un ingannevole frammento. Viene meno la visione, la direzione e il senso si dissolvono e con essi anche i singoli significati delle cose e delle azioni. Si rimuove ogni ricerca di contenuto a vantaggio di ciò che si è capaci di sperimentare, sentire e verificare, a favore del pensiero “tecnico”, il cui dogma, tragico, come ebbe ad affermare Ernesto Balducci, “è che i mezzi producono da sé stessi i propri fini”[6]. La “tecnologia” pare assurgere a nuovo ruolo messianico dell’uomo moderno, e così, se il filosofo tedesco Heidegger dinanzi allo strapotere della tecnologia ne aveva riconosciuto la sua iscrizione nell’ordine della verità,  quale modalità del disvelamento, non ricusava di evidenziarne la  minaccia ammettendo che “solo un Dio ci può salvare”[7], mentre Galimberti in risposta ha affermato che il tratto veritativo della tecnica viene eroso dalla sua stessa prassi, nel senso che, con la modernità la verità non preesiste alla produzione, ma è a sua volta prodotta: la verità viene a trovarsi nella condizione di essere fabbricata[8]. Pertanto l’inquilino contemporaneo non si percepisce più come creato, ma soltanto fatto. Stando così le cose quindi, può essere anche disfatto, secondo la propria volontà e i personali capricci. Quale fattore assoluto di sé stesso e allo stesso tempo con il potere enorme di farsi e di disfarsi a suo piacimento, si va trasformando, in  un certo qual modo, la prospettiva escatologica dell’esistere, appunto del fine. Per cui inevitabilmente anche la fine dell’esistenza avviene senza un riferimento al fine e con esso anche la speranza che offre fondamento alla vita con il suo carico di senso si riduce, e lo stesso fare cade in un vuoto di significato. In tale discorso acquista rilevanza la questione dell’enorme potere che si trova nelle mani dell’individuo, particolarmente quella capacità di determinare sé stesso, promuovere teorie e pratiche miranti a migliorare la qualità genetica delle persone, con il conseguente rischio delle degenerazioni e derive eugenetiche che tale dinamiche possono generare.
 
Note
[1] Cfr. Z. Bauman, Modernità e Olocausto, Il Mulino, Bologna 1992, p. 225.
[2] Cfr. M. Stirner, L’unico proprietario e la sua proprietà, tr. it. di Leonardo Amoroso, Adelphi, Milano 201712, pp. 132-152; 182-192 e p. 380.
[3] M. Eliade, La nascita mistica. Riti e simboli d’iniziazione, Morcelliana, Brescia 1980; Cfr. J. Habermas, Tempo di passaggi, Feltrinelli, Milano 2004.
[4] Cfr. C. Dotolo, Un cristianesimo possibile, Tra postmodernità e ricerca religiosa, Queriniana, Brescia 2007, pp. 60-61.
[5] Cfr. M. Magatti, Prigionieri della nostra onnipotenza. Eccesso e crisi della soggettività contemporanea, in La Rivista del Clero Italiano, 85 (2004) 12, p. 846.
[6] Cfr. E. Balducci, L’uomo planetario, Giunti, Milano 2005, p. 18.
[7] Cfr. M. Heidegger, La questione della tecnica, in Id., Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, pp. 5-27.
[8] Cfr. U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 20169, p. 349 e p. 498.
 
di Paolo Greco dal libro “Abitare le fragilità, ELLEDICI, Torino 2018”