Questo periodo difficile che ci impone la pandemia, ci mette di fronte a molte questioni, come per esempio riprendere le attività interrotte durante il periodo di quarantena o ritrovare nuove istanze per poter immaginare il futuro.
Gli atteggiamenti sono diversi: chi vuol ritornare esattamente al “come prima, come se tutto fosse finito”, chi non riesce ad ipotizzare nuove possibilità. Forse, non sono da prendere in considerazione né l’una né l’altra posizione, certo occorre un’analisi approfondita della realtà e una riflessione altrettanto profonda su ciò che è veramente importante e sulle priorità.
Pensare a ciò che è successo e che ancora sta accadendo, cercando di non perdere quella istanza di umanità che pur nell’immensa tragedia che si sta consumando in tutto il mondo impone una questione di fondo: che cos’è l’uomo, che cosa fa di un essere umano una persona?
Sicuramente si è riscoperta l’essenzialità della vita e delle cose; ed in questa prospettiva si riescono a comprendere meglio tante situazioni, ci si rende conto quanto la vita di ogni persona ad ogni latitudine sia “un soffio” che può finire in breve  tempo e con tanta sofferenza. Allora le parole, le cose e i pensieri si fanno più profondi, più cupi e c’è bisogno di ritrovare la forza e le ragioni per pensare al domani, anche se incerto.
In questo scenario l’arte potrebbe sembrare non essenziale, ma considerandola invece come una forma alta dell’espressione dell’umanità, della sua fantasia, della sua creatività, rivela l’interiorità delle persone. Possiamo pensare a questa generazione ferita, contratta, abbattuta, ma non vinta che ha bisogno di allontanare la paura, la rabbia, la disperazione, rappresentandola attraverso la mediazione artistica, per chiuderla in qualche modo nella sua rappresentazione. E nello stesso tempo abbiamo bisogno anche di bellezza, di gioia, di colori caldi e di forme morbide per riallacciare i nodi della trama di una speranza tutta da ricostruire.
 
Quali possono essere  gli spazi dell’arte e che cosa comunicare attraverso l’arte?
Forse esprimere il dolore, il dramma profondo e inconcepibile che chiude la mente e il cuore di fronte all’orrore, può essere fatto nell’opera d’arte, offrendo la possibilità non solo all’artista, ma anche a chi guarda di confinarli momentaneamente in un tempo e in uno spazio definito. Rivedere la sofferenza nella sublimazione dell’opera d’arte può aiutare a riflettere su come la sofferenza accomuni tutti gli esseri umani e tutti si possano rivedere nella sofferenza dell’altro, aprendosi alla comprensione e alla compassione.
E’ un rapporto personale in cui vedere, ascoltare e capire la sofferenza dell’altro; è l’io di fronte al tu, è quel “mettersi nei panni degli altri” che fa di ogni uomo una persona. E nel momento in cui si comprende questo che poi si può pensare all’azione, al cambiare visione del mondo e delle cose. Da questo dovrebbero scaturire le riflessioni sociali, politiche ed economiche, poiché fino a quando non si riesce a “sentire” veramente le condizione del disagio e della sofferenza è difficile immaginarne “le risoluzioni”.
Ecco perché su questo tema propongo due opere molto diverse e di due artisti che provengono da continenti diversi, da epoche diverse, ma uniti dalla rappresentazione del dolore e dell’ingiustizia; esprimono il dramma, ma anche la forza tutta umana di vedere una possibilità di riannodare i fili della vita in nuove trame.
 
 
Cristo e la Veronica di Otto Dix

O. Dix

O. Dix


La vita di Otto Dix (1891 -1969) è stata complessa e tormentata, ha vissuto in prima persona due guerre mondiali, come soldato. Le esperienze tragiche lo hanno segnato profondamente e ha rappresentato nelle sue opere tutta la violenza e  l’ingiustizia, in modo spesso crudo, con un linguaggio aspro e violento che colpisce duramente chi guarda. Durante il periodo del nazismo la sua arte viene dichiarata “degenerata”, le sue opere sequestrate, bruciate e lui viene incarcerato.  Dopo la seconda guerra mondiale ritornato dalla prigionia in Francia, si trasferisce sul lago di Costanza e continua a dipingere la  tragicità della sofferenza umana, ma con toni più “pacati”. Sviluppa un interesse particolare per le scene a soggetto religioso. Ho visto l’opera “Cristo e la Veronica” a Firenze nel 2015 durante la mostra Divina Bellezza e ne sono rimasta subito molto impressionata. Nella stesso “colpo d’occhio” si coglie  la drammaticità estrema del Cristo che porta la croce e con questa tutta la tragedia umana di coloro che soffrono: la povertà, la fame, l’ingiustizia sociale[1].
In quei volti alcuni distinti, altri solo macchie di colore si ritrova tutta l’umanità sofferente, quasi una massa indistinta che ha come unico denominatore il dolore espresso anche nella contrazione dei tratti. Ma in primo piano sembra quasi aprirsi uno spiraglio: colori più chiari, volti più tratteggiati, una donna, dei bambini; fino ad arrivare alla Veronica, piccola e fragile,  con il suo abito rosa molto più piccola degli altri personaggi. Sembra sostenere, con la sola forza dello sguardo, il Cristo schiacciato sotto quella croce, simbolo di tutto il male del mondo.
 
“Il Cristo operaio” di Alejandro Marmo
A.Marmo

A.Marmo


esposto nei giardini Vaticani,  esprime tutta la solitudine la disperazione, l’orrore di chi vive nella drammaticità dell’esistenza non risolta e confinata nelle periferie del mondo.
L’opera nasce da materiali di scarto ed è stata realizzata dallo scultore con persone che sono “considerate scarti”. Alejandro è nato in Argentina nel 1971, rimane presto orfano del padre, vive periodi complessi anche per la situazione politico sociale dell’Argentina. Negli anni novanta inizia ad occuparsi dei materiali arrugginiti dell’officina del padre. Incontra l’Arcivescovo Bergoglio e sa di poter parlare con lui un linguaggio condiviso il cui obiettivo è controbattere “la cultura dello scarto”[2].
Attraverso la scultura Alejandro esprime la rabbia e la sofferenza della “cultura dello scarto”, traendone opere che generano speranza. Il progetto “Arte nelle fabbriche” trasforma resti industriali in sculture che raccontano una storia di dolore che si imprime nella mente di chi guarda il suo lavoro e impone una riflessione non legata solo all’immediato, ma a tutto ciò che impone all’uomo sofferenza e perdita della sua dignità.
Anche le persone che lavorano con lui sono “persone escluse” che attraverso l’arte collaborano per cambiare la materia scartata in bellezza. Ed è proprio questo il messaggio  fondamentale: ciò che viene “scartato” può essere riportato a nuova vita e generare speranza. Papa Francesco quando ha benedetto quest’opera insieme alla Vergine di Luján ha detto: “Sono il segno della creatività di cui siamo capaci anche con una materia prima di scarto, abbandonata. Sono il simbolo della genialità che Dio ha voluto porre nella mente di un artista”.
 
Note
[1] http://www.museivaticani.va/content/museivaticani/it/collezioni/musei/collezione-d_arte-contemporanea/sale-15-e-16–il-primo-novecento-in-germania/otto-dix–kreuztragung.html
[2] T.LUPI (a cura di), Papa Francesco, la mia idea di arte, Edizioni Musei Vaticani, Mondadori, 2015, p. 99.
 
Bibliografia e sitografia
LUPI T. (a cura di), Papa Francesco, la mia idea di arte, Edizioni Musei Vaticani, Mondadori, 2015.
Presentazione di Carlo Sisi, curatore della mostra “Bellezza Divina”
https://www.youtube.com/watch?v=u4tswyK16ZQ