Vivo e particolarmente acceso, in questi giorni, è il dibattito sul terribile terremoto che ha colpito l’Italia centrale e ancora non cessa di ferire quanto abbiamo di più caro e sacro.
Cosa può dirci la ragione? Cosa ci dice la religione e la fede? perché Dio ieri è intervenuto e non oggi? Perché qui e non altrove?
Vogliamo offrire una serie di riflessioni che possono aiutate gli educatori e anche i nostri ragazzi a ritrovare le ragioni di eventi così terribili.
 
 
Il terremoto e i modelli teologici
di Carlo Molari
Il pluralismo ecclesiale nella interpretazione degli eventi è emerso ancora in occasione del recente terremoto nell’Italia centrale. A parte la reazione di alcuni fondamentalisti che parlano di punizione divina (Il fatto quotidiano del 5 settembre) ma che restano una esigua minoranza, altri hanno riproposto la domanda: Dio dove sei? Ma i più si sono interrogati sulle responsabilità umane. Significative, in questo senso, sono state le due omelie dei Vescovi di Ascoli Piceno (Giovanni D’Ercole) e di Rieti (Domenico Pompili: vedi Rocca n. 18/2016) durante i funerali delle vittime delle rispettive zone.
la domanda di Giobbe
Monsignor Giovanni D’Ercole ha affrontato il problema con il riferimento biblico al libro di Giobbe: «Mi è venuto subito in mente l’avventura di Giobbe, questo giusto perseguitato dal male, profeta che mai s’arrese nel rinfacciare a Dio le sue domande».
Applicato alla situazione attuale l’interrogativo è riformulato in modo molto concreto: «Diciamoglielo tutti assieme a Gesù Cristo: ‘Signore sono le solite cose. Qui abbiamo perso tutto o quasi e tu dove stai?’. Apparentemente non c’è risposta». Per evitare di essere coinvolto in sentieri impraticabili, il Vescovo, indica chiaramente la conclusione del cammino e la promessa di ricostruzione: «Giobbe però, dopo una serie indicibile di provocazioni e di vessazioni d’ogni tipo arriva alla sua professione di fede: ‘Io lo so che il mio Redentore (il mio vendicatore) è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere’ (Gb. 19,1.23-27)».
Concreto come Pastore ha ascoltato la domanda che in silenzio i suoi fedeli gli hanno posto: «e ora che si fa?». Sarebbe anche disposto ad accogliere l’invito: «Vescovo, non ci ripeta parole di circostanza, le solite cose di voi preti». Commenta: «Ci sta anche che in queste giornate così drammatiche qualcuno direttamente o nei social mi dica questo, nel momento in cui le parole inciampano».
Veloce è il passaggio a Cristo anche attraverso Paolo che annuncia la risurrezione: «Paolo sapeva bene che Dio non è tenuto a giustificarsi. Il suo non è un Dio logico: non c’è nulla di più lontano da lui di tutta la nostra filosofia. Eppure Paolo, che con Giobbe condivide una fede-difficile, sa che Cristo ha la passione dell’impossibile, è il Dio al quale riescono le cose che gli uomini giudicano follia, assurdità. Quelle cose che nemmeno gli apostoli, durante un’improvvisa tempesta nel lago di Tiberiade, riuscirono a capire all’istante: ‘Maestro, non t’importa che noi moriamo?’ (Mc 4,35- 40). Eppure erano uomini di mare: esperti, conoscevano le insidie e i venti contrari, avevano le mani ferite dagli uncini, le facce scavate dal vento, le loro erano vite vissute».
Il Vescovo si sente personalmente interpellato: «Al tuo Dio, don Giovanni, importa nulla se noi moriamo?». «Dio pare tacere, le nostre sembrano chiamate senza risposta. Dio è Padre misericordioso: non scappa dalle responsabilità, il grido degli angosciati gli fa vibrare le viscere. Non teme l’imprecare dell’uomo, non s’arrabatta nell’ira. Porge l’inimmaginabile della sua Croce a disposizione di chi vorrà tentare l’attraversata del fiume della vita, fatto di lutto, di lamento, di pianto e d’amarezza». Per questo conclude: «Eppure, cari amici, se guardate appena sotto le lacrime, nessuno più di noi può testimoniare che il terremoto, come la malattia, il dolore e la morte, possono strapparci tutto eccetto l’umile coraggio della fede. Ecco perché queste solite cose possono essere la scialuppa di salvataggio per non affogare nella disperazione e mai come ora possono ridare luce alla nostra speranza. Provate a pensarci, se una ripartenza sarà mai possibile, ripartiremo insieme da queste solite e piccole cose: le sorgenti non perdono mai la parola».
L’invito finale è caloroso: «Amici tutti, non abbiate paura di gridare la vostra sofferenza, ma non perdete coraggio. Insieme ricostruiremo le nostre case e chiese; insieme soprattutto ridaremo vita alle nostre comunità, a partire proprio dalle nostre tradizioni e dalle macerie della morte. Insieme! Ne sono certo, con l’aiuto della Madonna che mai ci abbandona, vivremo un’avventurastraordinaria perché l’amore è più forte del dolore e la vita vince la morte». La speranza è annunciata, attraverso Maria, con il richiamo all’azione divina più forte della morte.
la responsabilità dell’uomo
Il secondo modello segue un altro percorso: non pone domande a Dio ma interroga gli uomini e richiama la loro responsabilità. Il modello suppone un altro concetto di creazione e conduce a un altro modo di pensare a Dio. Domenico Pompili nel suo breve e intenso intervento ha richiamato la prima lettura del Profeta: «Mi ha spezzato con la sabbia i denti, mi ha steso nella polvere. Son rimasto lontano dalla pace, ho dimenticato il benessere». Ha applicato: «Il brano delle Lamentazioni descrive la distruzione di Gerusalemme, ma si presta bene ad evocare la devastazione di Amatrice e di Accumoli. Sembra di risentire i sopravvissuti: un rumore assordante, pietre che precipitano come pioggia, una marea asfissiante di polvere. Poi le urla. Quindi il buio. Il brano ispirato prosegue: ‘Buono è il Signore con chi spera in lui, con l’anima che lo cerca. È bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore’».
Il Vescovo ha raccomandato perciò di non cercare in Dio un «capro espiatorio» ma, al contrario, di «guardare in quell’unica direzione come possibile salvezza». «Non è infatti il terremoto che uccide, uccidono le opere dell’uomo». Spiega poi: «I paesaggi che vediamo e che ci stupiscono per la loro bellezza sono dovuti alla sequenza dei terremoti». Senza i terremoti del passato non sarebbe possibile ammirare l’ecosistema appenninico attuale, né vi sarebbero gli uomini che attualmente lo abitano, né altre forme di vita. L’invito è quindi quello ad ascoltare Gesù che dice: «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò». Parole che sono «un balsamo sulle ferite fisiche, psicologiche e spirituali di tantissimi», sebbene «non basteranno giorni, ci vorranno anni». La mitezza che Gesù evoca è «una ‘forza’ distante sia dalla muscolare ingenuità di chi promette tutto all’istante, sia dall’inerzia rassegnata di chi già si volge altrove. La mitezza dice, invece, di un coinvolgimento tenero e tenace, di un abbraccio forte e discreto, di un impegno a breve, medio e lungo periodo». Lontana dalla «querelle politica» o dallo «sciacallaggio di varia natura», la popolazione locale è chiamata a «far rivivere una bellezza di cui siamo custodi. Disertare questi luoghi sarebbe ucciderli una seconda volta. Abitiamo una terra verde, terra di pastori. Dobbiamo inventarci una forma nuova di presenza che salvaguardi la forza amorevole e tenace del pastore».
In conclusione il vescovo ha fatto suo un messaggio che gli è pervenuto assieme alle preghiere in forma poetica: «Di Geremia, il profeta, rimbomba la voce: ‘Rachele piange i suoi figli e rifiuta di essere consolata, perché non sono più’. Non ti abbandoneremo uomo dell’Appennino: l’ombra della tua casa tornerà a giocare sulla natia terra. Dell’alba ancor ti stupirai».
Questa riflessione suppone che gli eventi creati abbiano una loro autonoma finalità: essi non sono finalizzati direttamente al bene dell’uomo. Anzi anche i terremoti sono inseriti in un processo di sviluppo che include un fecondo avvenire dell’uomo.
«I terremoti esistono da quando esiste la terra e l’uomo non era neppure un agglomerato di cellule. I paesaggi che vediamo e che ci stupiscono per la loro bellezza sono dovuti alla sequenza dei terremoti. Le montagne si sono originate da questi eventi e racchiudono in loro l’elemento essenziale per la vita dell’uomo: l’acqua dolce. Senza terremoti non esisterebbero dunque le montagne e forse neppure l’uomo e le altre forme di vita. Il terremoto non uccide. Uccidono le opere dell’uomo!». L’uomo deve sapere che il male non può essere evitato ma che si devono trovare i mezzi per portarlo con dignità e solidarietà. Ci è chiesto di non gravarlo con l’indifferenza o peggio con lo «sciacallaggio di varia natura».
Eugenio Scalfari su La Repubblica del 4 settembre scorso ha parlato di stupore della gente per le dichiarazioni del Vescovo di Rieti per poi sottolineare che anche papa Francesco ha detto la stessa cosa in modo anche più chiaro: «La gente nella sua grande maggioranza è rimasta a dir poco stupita. Ma poi tre giorni fa ha parlato papa Francesco […] ancor più chiaramente del vescovo. Ha detto: ‘Terremoti e vulcani hanno costruito il mondo e in particolare i luoghi emersi dalle acque. Invitiamo tutti ad un esame di coscienza al fine di confessare i nostri peccati contro il Creatore, contro il Creato, contro i nostri fratelli e le nostre sorelle, perché quando maltrattiamo la natura maltrattiamo anche gli esseri umani e in particolare i più indifesi che sono i poveri’».
È opportuno ricordare che da circa un secolo la teologia cattolica aveva intrapreso questo cammino.
in “Rocca” n. 19 del 1 ottobre 2016
 
 
Terremoto: cambiare i modelli interpretativi
di Carlo Molari
Il numero 18 di Rocca del 15 settembre scorso ha dedicato una larga parte alle riflessioni sul terremoto del 24 agosto con cinque articoli raccolti sotto il titolo: La terra trema. La città non deve morire. Ad essi si è aggiunta nello stesso numero anche la riflessione di Lilia Sebastiani nella sua rubrica mensile Il concreto dello spirito con l’articolo: Destino, miracolo, provvidenza (pp. 50- 52).
Nel numero successivo, ignorando ciò che era stato preparato e quindi indipendentemente da tutti gli altri scritti, anch’io ho proposto una riflessione su: Terremoto e i modelli teologici (Rocca n. 19 pp. 5051). Quando l’articolo è stato pubblicato mi è pervenuto da parte di Silvano Bert un suo scritto apparso su Adige di Trento il 30 agosto u.s. intitolato: La fragilità umana e la presenza di Dio. Egli riassumeva una trasmissione di Uomini e profeti (Rai 3), riproposta domenica 28 agosto, nella quale, secondo il teologo valdese Paolo Ricca, «il silenzio di Dio ci rivela la sua fragilità. Nella storia Dio vive il dramma del negativo, in un abbassamento-contrazione che i greci chiamano kènosis e gli ebrei tzimtzum. È un Dio che non sa ancora rispondere, però ci accompagna con tenera pazienza, invitandoci ogni giorno alla conversione. In un cammino che combatte il male, con tutti gli uomini di buona volontà».
Da parte sua Silvano Bert citava il premio Nobel Christian De Duve (Genetica del Peccato originale, Cortina ed, Milano 2010) secondo cui «La selezione naturale ha privilegiato nei geni dei nostri progenitori tratti che erano immediatamente favorevoli alla loro sopravvivenza e riproduzione, senza alcun riguardo per le conseguenze future. La natura non vede altro che l’immediato, il futuro è oltre il suo orizzonte». Bert partendo da questa affermazione si interrogava se non fosse questa la ragione per cui «noi, esseri umani, siamo pronti (abbastanza pronti) a intervenire sugli effetti, al soccorso nell’immediato, e siamo invece lenti nel prevenire le cause, le lesioni che la natura infligge alla crosta terrestre con i suoi movimenti? Da dove viene questa nostra fragilità, che è colpa morale, reato penale, peccato nel linguaggio teologico?».
La natura è autonoma e Dio è solo creatore
In altri tempi si organizzavano processioni nel caso di pestilenze per invocare la fine del contagio o per sollecitare la pioggia e la Provvidenza veniva intesa nel senso che Dio permette appositamente il male per trarne un bene maggiore. Ora il processo di desacralizzazione ha reso insignificanti questi riti e lo stesso ricorso a Dio. Anche nel citato numero di Rocca il titolo del primo articolo nomina Dio (Dio, che si fa?) mentre nei quattro articoli successivi non compare alcun riferimento di tipo religioso, si parla anzi di una liberazione dalla «visione magica» del terremoto (Pietro Greco, La cultura del rischio pp. 36-38).
Lilia Sebastiani, da parte sua, conclude il ricco e profonda articolo (Destino, miracolo, provvidenza, pp. 50-52) con l’affermazione: «Dio non interviene direttamente nella storia, di solito, ma solo attraverso noi; e solo attraverso la nostra debolezza può manifestarsi la forza dello Spirito e rinnovare la terra» (Rocca a. c. p. 52).
L’inciso aggiunto, si direbbe controvoglia e con poca convinzione, tra due virgole (di solito) relativizza gran parte del significato del ricco e documentato discorso precedente, perché introduce la possibilità di eccezione e solleva una quantità di interrogativi: perché Dio ieri è intervenuto e non oggi? Perché qui e non altrove? Immaginiamo un mondo futuro nel quale i luoghi soggetti al terremoto la diffusione della cultura del rischio abbia creato le condizioni per cui un terremoto di magnitudine 6 non produrrà alcun danno come è avvenuto a Norcia distante dall’epicentro del terremoto come Amatrice e il cui suolo «ha subito un’accelerazione analoga a quella subita ad Amatrice» (Greco, Rocca ib. p. 37).
Sono certo che nessuno ricorrerebbe a Dio in quelle circostanze come nessuno oggi nomina Dio in occasione di tornado o di alluvioni o di pestilenze.
Albert Einstein il 9 novembre 1930 scriveva sul York Times Magazine: «L’uomo che è convinto dell’esistenza e della operatività della legge di causalità non può concepire l’idea di un Essere che interferisce con il corso degli eventi. A patto naturalmente che egli prenda l’ipotesi della causalità veramente sul serio». Credo che questo principio sia assoluto e non ammetta eccezioni.
I teologi già da allora parlavano di desacralizzazione o più frequentemente di secolarizzazione in corso. Il modello evolutivo è molto esigente. Lo ha espresso in modo chiaro Papa Francesco quando nella Esortazione Apostolica Laudato si’ n. 80 ha scritto: «Dio è presente nel più intimo di ogni cosa senza condizionare l’autonomia della sua creatura, e anche questo dà luogo alla legittima autonomia delle realtà terrestri (GSp 36). Questa presenza divina, che assicura la permanenza e lo sviluppo di ogni essere ‘è la continuazione dell’azione creatrice’ (Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae I q. 104 art. 1 ad 4). Lo Spirito di Dio ha riempito l’universo con le potenzialità che permettono che dal grembo stesso delle cose possa sempre germogliare qualcosa di nuovo».
A questo proposito alcuni evoluzionisti credenti pensano sia necessario introdurre almeno due eccezioni: la creazione dell’anima di ogni singola persona e l’incarnazione del Verbo eterno nella storia umana.
Ma in realtà introdurre eccezioni suppone un modo antropomorfico di interpretare l’azione creatrice di Dio, significa deformare radicalmente il modello evolutivo e implica contraddizioni. L’azione creatrice rende possibili e alimenta i processi della creazione ma non si sviluppa mai come azione di creature. Dio non si sostituisce mai e non completa mai le azioni delle creature, che ha precisamente create e che sostiene nel loro processo perché operino in modo autonomo. La regola è assoluta: la causalità creatrice riguarda l’offerta di possibilità di essere e del divenire delle creature nel senso che «Dio non fa le cose, bensì offre alle cose di farsi» (Teilhard de Chardin).
Analoghe riflessioni devono essere fatte a proposito della Incarnazione. Pensare alla incarnazione come l’irruzione di un essere divino nella storia umana significa stravolgere completamente il significato dell’evento. Come più volte ho ricordato in questa rubrica soprattutto citando Teilhard de Chardin, l’incarnazione non è la discesa di un essere celeste dal cielo sulla terra, bensì il fiorire della perfezione umana dal tronco di Jesse, attraverso la fedeltà del piccolo resto di Israele.
Teilhard nel 1924 scriveva: «Come la Creazione (di cui è il volto visibile), l’Incarnazione è un atto coestensivo alla durata del Mondo» (Il mio universo, in La scienza di fronte a Cristo, Gabrielli 2002 p. 92). Essa quindi continua ancora. Gesù ne ha mostrato il vettore e il traguardo.
La formula dell’incarnazione è un modo efficace per esprimere il processo di fede vissuto da Gesù dai primi passi fino alla espressione suprema dell’abbandono in Dio sulla croce.
Per essere completi nella esposizione occorre ricordare che nella recente tradizione cattolica (da Pio XII in avanti) si parla della creazione diretta dell’anima da parte di Dio per ogni persona che nasce. Per questo anche il Catechismo della Chiesa cattolica ha assunto questa dottrina come comune. Per la stessa ragione anche l’Esortazione apostolica Laudato si’ ha ripreso questa dottrina in un testo che per lo stile utilizzato rivela l’intromissione di un’altra mano nella struttura originaria del documento. Dopo il testo citato poco sopra l’Esortazione scrive infatti: «L’essere umano, benché supponga anche processi evolutivi, comporta una novità non pienamente spiegabile dalla evoluzione di altri sistemi aperti» e prosegue: «La novità qualitativa implicata dal sorgere di un essere personale all’interno dell’universo materiale presuppone un’azione diretta di Dio, una peculiare chiamata alla vita e alla relazione di un Tu a un altro tu» (Laudato si’ n. 81). Questa intromissione contraddice la chiara affermazione del citato numero 80 e rivela la preoccupazione di continuità propria della Congregazione per la Dottrina della fede, guidata ora dal Cardinale Müller.
Impegno di ogni fedele nella chiesa oggi è riconoscere i legittimi ambiti del pluralismo teologico e favorire il cammino di revisione delle formule di fede secondo le esigenze della nuova evangelizzazione, resa necessaria dall’evoluzione culturale e dalle acquisizioni della scienza.
in “Rocca” n. 21 del 1 novembre 2016
 
 
Destino, miracolo, provvidenza
di Lilia Sebastiani
Queste sono considerazioni in margine al terremoto che ha colpito il 24 agosto una zona tra Lazio Marche e Umbria e ha causato la morte di molte persone (294 fino a questo momento, ma il numero forse non è definitivo), mentre di tante altre ha cambiato la vita per sempre.
Si sa che Tv, internet, giornali, non trasmettono solo notizie, ma anche commenti, e questi, anche quando commenti estemporanei o pure supposizioni, diventano subito la verità e come verità restano nell’animo dell’ascoltatore. Così non è affatto neutrale l’uso, anche tutto ‘laicizzato’ e consuetudinario, di parole come destino e miracolo.
fato caso e miracolo
Non tutti sono morti, e in certi casi la morte è stata evitata per ragioni di una casualità sconcertante: il letto collocato un metro più a destra o più a sinistra, una trave o un armadio che si piegano a una certa angolatura casualmente ‘giusta’, senza cadere del tutto addosso a chi sta sotto, ma formando una specie di riparo e diventando uno strumento di salvezza dove potevano essere uno strumento di morte. Una bambina è rimasta illesa perché il corpo della sorellina morta e scivolata all’indietro le ha fatto schermo, speriamo che non venga mai a saperlo. E si continua a ripetere: per fortuna era notte, era tempo di vacanza e nella scuola non c’era nessuno, altrimenti… Per disgrazia era estate e così in quei paesi si trovavano più persone che in inverno… Certo il caso è uno dei fattori più sconvolgenti della vicenda. Quando è ‘casualmente’ benevolo non diversamente da quando è maligno con indifferenza. Anche quando ci si rallegra degli effetti, non si può vincere l’impressione di essere abbandonati a galleggiare nella mancanza di senso.
Da credenti, troviamo forse qualche domanda in più e nessuna risposta pronta per l’uso. Perché certo né il caso involontariamente buono né l’orrore cieco e impersonale e senza finalità sono Dio; e non sono nemmeno il suo strumento. Tanti hanno invocato il ‘destino’. È il Fato degli antichi? Gli antichi conoscevano la divinità e la natura, poco dominabile ma almeno sperimentabile nell’esperienza quotidiana, avvertivano l’esistenza di qualche altra cosa, come una forza cieca che non si può contrastare. Il fato è un’idea intermedia tra quella di natura e di divinità, ineluttabile come la natura, potente come la divinità, ma priva di ragione e di scopo apparente nel suo agire. La natura entro certi limiti si può studiare e capire, le divinità si possono propiziare con la preghiera, ma il fato appare impassibile e impersonale.
L’idea di fato è importante anche nella cultura latina, in cui è indicata da più termini, con varie sfumature di significato: Sors, Fatum, Fortuna. Il ‘destino’ poi, anche nei secoli cristiani, diventerà una sorta di fato addomesticato. James Hillmann, riprendendo suggestioni eraclitee, fa coincidere l’idea di ‘destino’ con il nostro modo di essere e lo concepisce psicologicamente determinato dalle nostre scelte personali o da quelle degli altri che influiscono sul nostro presente e sul nostro futuro. Gli organi di informazione tendono a procedere per frasi fatte, e purtroppo chi divora le notizie viene contagiato dalla stessa abitudine. Le parole fatalità e destino si sprecano, anche quando chi parla si ritiene credente oppure anche non credente ma non superstizioso. Il retroterra primitivo e le paure ancestrali riaffiorano anche troppo facilmente nei momenti di angoscia collettiva. Talvolta anche chi parla di provvidenza o di miracolo dà a questi termini ambigue risonanze pagane. Sarebbe meglio non parlare di miracolo, perché se s’intende il miracolo come un segno eccezionale dell’amore di Dio sarebbe facile, soprattutto per chi soffre, dedurne magari inconsciamente che Dio ama qualcuno e lo aiuta, e qualcun altro no. Il miracolo, ove non sia letto correttamente come un segno della salvezza (che in quanto tale riguarda tutti anche se i segni sono limitati), confonde le idee anziché provocare alla fede.
e la Provvidenza?
Si avverte uno strano ritegno a nominare la Provvidenza in questi momenti, ma è impossibile evitare il pensiero, che diventa anzi più problematico e talvolta struggente o lacerante. La
Provvidenza divina, idea non originariamente cristiana né esclusiva del cristianesimo, è però un’idea chiave nella concezione cristiana e fonda il rapporto positivo dell’essere umano con Dio e con il tempo, con la vicenda storica in cui è inserito, anche se questa a un primo sguardo potrebbe apparire come un gioco disordinato e senza senso di forze in conflitto. Non originariamente cristiano, dicevamo: la parola non si trova nel primo Testamento, fuorché in due passi del libro della Sapienza (14,3 e 17,2), che prende forma in ambiente di cultura greca e nato in ambiente greco; e nemmeno nel Nuovo (in realtà la parola pronòia appare in At 24,2-3, ma in un senso tutto laico e giuridico, più simile a quello che noi intendiamo con ‘previdenza’).
Ma l’idea può delinearsi anche quando non esiste ancora la parola.
Il termine, come la riflessione sistematica al riguardo, è di origine filosofica, introdotta dagli stoici: pronòia, che i latini tradurranno con pro-videntia, contiene l’idea del vedere, anche nel senso interiore di pensare, progettare, comprendere; e anche il pro nella sua duplice valenza: «a favore di» e «in avanti», cioè verso il futuro. La pronòia per gli stoici è il pensiero prima del pensiero, collegata alla causa finale, cioè allo scopo verso cui è orientato il mondo in vista di un fine.
Certo non si può accostare troppo disinvoltamente la Provvidenza stoica con quella cristiana, perché la divinità che essa presuppone non è il Dio di amore che chiama gli esseri umani alla comunione di vita con lui, e non influisce realmente sulla loro vita. È singolare come sia determinista e meccanica l’idea di Provvidenza in chi non ha avuto l’occasione di crescere nella fede: somiglia molto al Fato pagano, appena più benevola ma quasi altrettanto meccanica…
Leggere la storia umana in chiave provvidenziale significa credere in un Dio che ama gli esseri umani e che ha un progetto di amore sulla storia umana nel suo insieme e sulla storia personale del singolo; non però un disegno completo e autonomo che prescinda dalle realizzazioni degli esseri umani.
Come si possano conciliare nel concreto degli avvenimenti la provvidenza divina, che presuppone comunque un’interferenza, un intervento di Dio nella vicenda umana e storica, con la libertà e la piena responsabilità umana, è un problema che continua a interpellarci nel mistero. Certo è che, dal punto di vista cristiano, credere nella Provvidenza non significa certo credere nel migliore dei mondi possibili, in un ordine del mondo armonico, senza contraddizioni, senza crisi, senza ingiustizia e dolore; e certo neppure ipotizzare un intervento magico di Dio che possa rimettere a posto il mondo in un colpo solo. La fede cristiana nella provvidenza non conduce né a un superficiale ottimismo storico né al fatalismo né alla passività. Anzi, proprio perché postula un senso di quello che accade e una certa libertà di azione e di scelta, spinge l’uomo a ricercare e a valorizzare il senso del vivere, ad agire nella storia in modo più pieno. A vivere anche il dolore in modo pienamente umano: cioè non solo con coraggio e dignità, ma con lucida speranza.
filosofia, letteratura ed esistenza
Molti che non conoscono la filosofia hanno ereditato per vie indirette l’ipotesi di Epicuro sull’origine del male: se gli dei possono togliere il male e non vogliono, sono cattivi; se vogliono eliminarlo ma non possono farlo, sono impotenti; se non vogliono né possono, sono cattivi e impotenti; se poi vogliono e possono, resta l’evidenza che il male c’è, e l’ipotesi è ancora più sconcertante delle precedenti…
L’enigma dell’esistenza del male nel mondo è affrontato da molti già nell’antichità, ma sono gli stoici già ricordati a fondare quella che in seguito si chiamerà la teodicea, quel ramo della filosofia- teologia che si occupa di ‘giustificare’ una divinità che permette al male di esistere. Una delle più significative opere al riguardo, contemporanea agli inizi del cristianesimo, è il De Providentia di Seneca, dedicato al discepolo prediletto Lucilio, che inizia con l’obiezione classica in ogni tempo: «Mi hai chiesto, Lucilio, perché mai, se l’universo è amministrato dalla provvidenza, molti mali capitano agli uomini buoni…». Il problema centrale è il male del mondo, soprattutto quando sembra colpire anche o soprattutto le persone più meritevoli. E l’autore lo risolve affermando che le avversità provano la sostanza di cui è fatta la virtù (come il fuoco del crogiolo prova la qualità dell’oro, immagine che si trova anche nella Scrittura), e inoltre la sofferenza rende migliore chi è già disposto al bene. «In questo superate Dio: lui è fuori della sofferenza, voi al di sopra» (De providentia 6).
Agostino, nella sua risposta cristiana ed escatologica al problema del male, andrà oltre. Anche lui accetta, come Seneca, l’idea che il male è una prova e un’occasione di crescita interiore, ma anche che la sofferenza è la prova più alta dell’amore e della fiducia dell’essere umano nei confronti di Dio.
Tutti ricordano, almeno per memorie scolastiche, l’idea manzoniana di Provvidenza e la definizione un po’ abusata de I promessi sposi come «romanzo della Provvidenza». La critica più recente la prende con cautela: qualcuno ha anche osservato che nel romanzo l’interpretazione provvidenziale degli avvenimenti non è affidata al narratore, ma alle voci dei personaggi, soprattutto degli umili, come Lucia («Il Signore c’è anche per i poveri») o Renzo («A questo mondo c’è giustizia, finalmente!»). In realtà Manzoni vede sì la storia umana secondo una logica provvidenziale – quantunque dolorosa –, ma meno ingenua e più articolata di quella dei suoi personaggi umili: per lui la virtù e l’innocenza non bastano ad assicurare la felicità di vita se non alla fine dei tempi (forse però per comprendere questo è necessario incrociare il messaggio del romanzo con quello della tragedia Adelchi, in cui il pessimismo storico di Manzoni raggiunge il culmine). Anche la sua frase tanto citata, ma troppo spesso decontestualizzata, «…[Dio] non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande», rinvia alla speranza escatologica e non al più semplice ottimismo terreno, che a Manzoni sembra quasi sconosciuto.
Per restare sul terreno letterario, bisogna anche lasciarsi provocare dalla Natura di Leopardi come Antiprovvidenza. Questo almeno nel suo pensiero maturo: all’inizio Leopardi concepisce la natura nel senso illuminista (stato di natura, cioè innocente, facile e felice) oppure nel senso preromantico che identifica quasi natura e paesaggio inteso come prolungamento dello stato d’animo. Nel suo pensiero maturo la Natura è invece la condizione nella storia e nel cosmo di tutto quanto esiste, ma soprattutto degli esseri umani, in quanto essi soli possono soffrire e riflettere sulla propria sofferenza. Per lui la Natura viene quasi a coincidere con la Provvidenza di Manzoni cambiata di segno. La Provvidenza rinvia a un disegno di amore, mentre la Natura è indifferente e implicitamente ostile; la Provvidenza interagisce con la libertà umana, la Natura prescinde completamente dalle intenzioni e dall’agire dell’uomo; secondo la visione provvidenziale, il male che colpisce qui e ora, pur se resta male (l’etica non viene azzerata nemmeno nella visione provvidenziale!), può preparare l’avvento di un bene più grande e inatteso, mentre nella visione leopardiana della Natura anche l’effimera serenità o la consolazione apparente non ad altro servono che a rendere più doloroso «l’apparir del vero», il colpo definitivo del male che annienta.
quando Dio sembra tacere
La realtà constatabile, anche per i credenti, è che Dio sembra ritirarsi sullo sfondo e tacere. Ma il suo ritirarsi non è assenza, il suo silenzio apparente non è rifiuto di comunicazione. Tornando alla grande tragedia collettiva da cui abbiamo preso le mosse, Dio parla nella prontissima solidarietà di quelli che un’ora dopo il terremoto erano già in viaggio verso le zone colpite per offrire il loro aiuto professionale o volontario, nella delicatezza di quelli che faticosamente scavavano a mani nude tra le macerie per non far male ulteriormente a quelli che ‘forse’ erano sopravvissuti; nella tenerezza che si manifestava anche nel raccogliere e confortare gli animali domestici e darsi da fare per ricongiungerli con i loro padroni; nella rinnovata sensibilità non teorica alle esigenze dell’ambiente e a una tecnica costruttiva o restaurativa che metta davvero al centro la sicurezza delle persone…
E non pensiamo solo ai fatti confortanti o comunque positivi. Chi ha raccolto la lezione del libro di Giobbe sente la presenza di Dio Amore anche nel gesto terribile (e tuttavia in qualche strano modo venerabile nella sua disperazione) di quella donna anziana che, durante il funerale delle vittime, ha alzato le mani al cielo gridando «Maledetto!» – e non sapremmo dire a chi si rivolgeva: se a Dio o al destino o al terremoto che in quel caso sembrava personificare tutto il potere del male. Ma Dio ascoltava. Talvolta il suo silenzio sembra attesa di una nuova parola nostra, detta e/o vissuta. E anche noi dobbiamo ascoltare e rispondere. Perché Dio non interviene direttamente nella storia, di solito, ma solo attraverso noi; e solo attraverso la nostra debolezza può manifestarsi la forza dello Spirito e rinnovare la terra.
in “Rocca” n. 18 del 15 settembre 2016