Nella primavera del 1962 la famiglia Ichino riceve una visita dell’amico don Lorenzo Milani. Indicando i libri e il benessere che si respira in quel salotto milanese, il priore si rivolge a Pietro, tredicenne: ”Per tutto questo non sei ancora in colpa; ma dal giorno in cui sarai maggiorenne, se non restituisci tutto, incomincia a essere peccato”.
Marchiato a fuoco da questo monito, che pur nella sua radicalità racchiude in sé molti altri insegnamenti familiari, il protagonista di queste pagine rifiuta di intraprendere la carriera di avvocato al fianco del padre amatissimo per dedicarsi al movimento operaio, ritrovarsi cooptato nel palazzo del potere ma poi farsene cacciare, studiare il Diritto del lavoro nell’epoca drammatica della fine delle ideologie, del terrorismo rosso e poi della sua nuova fiammata al passaggio del millennio.
In questo libro insolito, al confine tra un racconto intimo e il grande affresco di un’epoca, le vicende pubbliche si intrecciano alla storia di una famiglia italiana che raccoglie in sé l’eredità ebraica e un cattolicesimo dalla forte vocazione sociale e che ha eletto la Versilia a proprio luogo dello spirito. E’ così che – dalle persecuzioni razziali al Concilio Vaticano II, da Bruno Pontecorvo a Piero Sraffa, dal ’68 all’assassinio di Calabresi, dal Pci di Pietro Ingrao fino alle riforme del Diritto del lavoro – la ”casa nella pineta” diventa il crocevia di vite vissute con singolare intensità, dove generazioni di padri e di figli dalle anime inquiete possono crescere, amarsi, perdersi e ritrovarsi.
 
Descrizione
Titolo:La casa nella pineta
Autore: Pietro Ichino
Editore: Giunti
Pagine: 420
Prezzo: euro 18
Anno 2018
ISBN – EAN: 9788809861237
 
 
A scuola di giustizia da don Milani
di Pietro Ichino
Il legame della famiglia Ichino con don Lorenzo Milani ha origine nel 1957, quando gli Ichino acquistano duecento copie di Esperienze pastorali da regalare agli amici per Natale e da Barbiana il priore, incuriosito, vuole conoscerli meglio. Parte da qui una consuetudine di cui dà conto, in maniera esemplare, l’episodio che anticipiamo in questa pagina, con don Milani che nel 1962 mette in guardia Pierino dal rischio di attaccarsi troppo ai beni ricevuti senza merito. Bisogna restituire, dunque, e questo è quello che il ragazzo cerca di fare non appena cresce: lavorando per il sindacato, entrando in Parlamento nei ranghi del Pci e poi del Pd, contribuendo in maniera determinante a ridisegnare il diritto del lavoro anche quando questa attività gli procura intimidazioni e minacce. (Alessandro Zaccuri)
I nostri genitori ci facevano riflettere su una cosa molto importante che la vita di don Milani ci insegnava: vedere il bene insito o possibile in ogni circostanza. Quando, nel 1954, era stato inviato dal cardinale a Barbiana per punizione, quella che gli era stata assegnata non era più da tempo una parrocchia vera e propria: era una pieve spersa in mezzo alla montagna e quasi disabitata, dove non arrivava neppure l’energia elettrica. Ma lui non considerò mai quella destinazione come una pena da scontare per poi tornare alla vita normale, come un incidente di percorso, bensì come ciò che all’intera sua vita dava un senso nuovo. E dal niente di Barbiana fece nascere una scuola che sarebbe diventata un punto di riferimento per mezza Europa. In quel suo miracolo vedevo un esempio straordinario di quello che ci diceva la nonna Paola: «Non puoi mai sapere prima se quello che ti accade è per il tuo bene o per il tuo male, anche perché se sarà un bene o un male dipende in gran parte da te stesso».
Oltre che da quel miracolo, eravamo affascinati dalla sua idea che la povertà peggiore consistesse nella deprivazione dell’istruzione, della capacità di esprimersi, e che dunque ai poveri dovesse essere restituita prima di tutto la parola. Ma eravamo anche profondamente coinvolti dalla sua condanna della ricchezza, in quanto sottrazione del necessario ai poveri. E colpiti dalla radicalità del suo comunismo: molto più incisivo di quello del Partito comunista, ma predicato non come principio politico- economico, bensì come imperativo morale. Don Lorenzo citava, a questo proposito, il passo di san Tommaso secondo il quale in extremis omnia sunt communia, aggiungendo: «La questione sta tutta nello stabilire dove sta il limite dell’extremum». Ci insegnava a vedere sempre nella sofferenza umana, e soprattutto in quella originata dall’ingiustizia sociale, l’extremum che mette in discussione le nostre avarizie; e ci invitava a stabilire quel limite, sul piano dell’etica individuale, in modo molto più severo di quanto esso possa e debba essere stabilito sul piano della politica economica e quindi del diritto statuale. Tutta la sua predicazione era volta a metterci di fronte all’evidenza di un extremum che era intorno a noi, facilmente visibile da chiunque non chiudesse deliberatamente gli occhi proprio per non vederlo.
Lui, d’altra parte, non faceva nulla per attutire l’impatto contundente della sua predicazione, anzi: quanto più ci vedeva coinvolti, tanto più affondava i suoi colpi. Mi ricordo ancora come fosse ieri la volta in cui volle segnarmi come con un marchio a fuoco. Un giorno, nella primavera del ’62, eravamo tutti – lui, i miei genitori, le mie sorelle e io – nel bel soggiorno della nostra casa di via Giotto, quando don Lorenzo, facendo un gesto circolare per indicare tutto quel benessere, mi disse: «Per tutto questo non sei ancora in colpa; ma dai ventun anni [quella era, all’epoca, l’età alla quale si diventava maggiorenni], se non restituisci tutto, incomincia a essere peccato».
Guardai il papà e la mamma, per capire come reagissero a questa invettiva, che a ben vedere riguardava anche loro, eccome! Li vidi scuri in volto, pensosi, ma non colsi nessun cenno da parte loro che potesse significare un dissenso. Appena ebbi l’occasione di riparlarne a tu per tu, chiesi loro che cosa ne pensassero; mi diedero due risposte non tra loro contraddittorie, ma diverse. Il papà mi disse che quello di don Lorenzo era un modo di intendere la fede cristiana molto serio e coraggioso, ma non l’unico possibile; era importante ascoltare quella predicazione radicale e lasciarsene mettere in discussione, ma al dunque ciascuno doveva cercare la propria vocazione e seguire la propria coscienza: perché al mondo occorrono, sì, i bravi sacerdoti e i bravi maestri come don Lorenzo, ma anche i bravi cuochi e i bravi avvocati, i bravi spazzini municipali e i bravi medici. Aggiunse che lui riteneva giusto conformare la sua vita e quella di tutta la famiglia a una grande sobrietà, ma che su come usare ciò che si risparmia il Vangelo non contiene ricette, e ciascuno deve seguire la propria coscienza.
La mamma mi parve invece più vicina alla visione radicale di don Lorenzo, forse addirittura pienamente concorde, però aggiunse questa considerazione: «Sono scelte che alcuni, come don Lorenzo, compiono dall’oggi al domani; per altri invece devono maturare nel tempo, compiersi attraverso percorsi più lunghi. L’importante è tenersi sempre pronti, attenti ai segni che la vita ci manda, con le orecchie aperte. Oggi il modo che noi abbiamo scelto per seguire il comandamento evangelico consiste nel preparare il terreno, creare le condizioni per compiere le nostre scelte in piena libertà, avendo ascoltato tutte le voci, senza pigrizie e avarizie». Pochi anni dopo la mamma avrebbe scelto di dedicarsi anima e corpo ai bambini abbandonati, spalancando loro le porte della sua casa e quelle di tante altre case con entusiasmo spericolato, e il papà la assecondò senza riserve. Le radici di quella loro scelta certamente affondano anche nella predicazione di don Lorenzo.
in “Avvenire” del 18 aprile 2018