Sarà anche vero che – come pensano non pochi ecclesiastici – che la Chiesa non intende subire le statistiche, ma opera per cambiarle. Non accetta cioè la “legge” della secolarizzazione, per cui fa di tutto per contrastare i trend negativi della religiosità, l’attenuarsi dello spirito religioso, la crisi delle evidenze etiche; non piegandosi, in altri termini, all’idea dell’insignificanza della fede cristiana nella modernità avanzata. Tuttavia, nonostante questa ferrea volontà, anche gli uomini del sacro devono prendere atto che la situazione religiosa del paese non è delle più rosee, visto che – col passare degli anni – sempre meno gente varca la soglia delle chiese ogni settimana nel giorno dedicato al Signore.
A certificarlo questa volta è l’Istat, un istituto autorevole che proprio in questi giorni ha reso pubblici i risultati della sua ultima indagine multiscopo (su un campione di popolazione assai ampio e rappresentativo), che fornisce anche il dato della frequenza settimanale ai riti religiosi su tutto il territorio nazionale per il 2015, con ampi confronti sugli anni precedenti.
 
La pratica religiosa in Italia
La pratica regolare nel Paese, per il 2015, ha coinvolto il 29% degli italiani. Fin qui nulla di strano, perché si tratta di un’indicazione in linea con il trend degli ultimi 5 anni, che segnala quindi una situazione di stabilità nel breve periodo. Che tuttavia occorre ben analizzare, per capirne il senso e la portata.
Ciò anzitutto perché il dato medio dell’Istat si ottiene guardando alla pratica religiosa dell’insieme degli italiani con più di 6 anni, per cui esso risulta un po’ drogato dalle ali estreme delle popolazione (i bambini da un lato e i soggetti con più di 75 anni dall’altro) che sono i gruppi che presentano la più alta partecipazione al culto domenicale. Ad esempio, ben il 52% dei bambini e dei ragazzi dai 6 ai 13 anni hanno frequentato nel 2015 i riti almeno una volta alla settimana.
Inoltre, guardando alle diverse classi di età, vi è la conferma del fatto che la pratica religiosa assidua è più un habitus della popolazione anziana (con più di 65 anni) che di quella adulta e soprattutto giovanile. Vanno in chiesa ogni domenica il 40% degli anziani, rispetto al 25% di quanti hanno un’età compresa tra i 45 e i 60 anni, rispetto ancora al 15% circa dei giovani tra i 18 e i 29 anni.
Ma i dati più interessanti emergono dall’andamento nel tempo della pratica religiosa che caratterizza le diverse classi di età.
Dal 2006 al 2015, quindi nell’arco dell’ultimo decennio, il gruppo che più si è assottigliato nella pratica religiosa regolare è quello dei giovani dai 18 ai 24 anni, che ha perso ben il 30% dei frequentanti. Lo stesso è avvenuto tra gli adulti dai 55 ai 59 anni. Mentre le flessioni sono più contenute per i 25-29 enni (- 20%), per gli italiani dai 40 ai 50 anni (- 10%), per gli anziani (-12%). Insomma, il calo è generalizzato e interessa anche i bambini e gli adolescenti; ma coinvolge assai più i giovani (cosa nota) e gli over 50 (aspetto questo imprevisto).
Interpretazioni
Come spiegare queste punte alte di disaffezione? Quella giovanile – come si sa – è l’età più critica per la fede, quella in cui l’abbandono è più diffuso, quando si mettono maggiormente in discussione le scelte fatte da altri (i genitori) o quando si affievolisce il peso della formazione religiosa ricevuta, magari a fronte di compagnie di amici che la pensano diversamente. Sono gli anni in cui molti smettono di partecipare, o lo fanno in modo assai discontinuo e altalenante, a seconda degli stati
d’animo del momento. Alcuni poi possono ritornare più avanti sui propri passi, affacciandosi all’età e ai ruoli adulti; magari dopo un periodo di stand by che si colora anche di ribellione per ciò che è stato sin qui imposto e non scelto personalmente.
La caduta di partecipazione degli over 50 è invece socialmente più nuova e curiosa. Essa può indicare che si è di fronte ad una particolare “faglia” della vita, a un momento della biografia personale denso di novità e di cambiamenti. In questa fascia di età varie persone stanno ridefinendo il proprio cammino, costruendosi un’altra vita, intrecciando nuove relazioni, affacciandosi ad esperienze diverse, quando la carriera è agli sgoccioli, i figli sono ormai adulti e sistemati, il rapporto con il partner di un tempo si è esaurito; e questo cambiamento di orizzonte non può non riversarsi anche sulla pratica religiosa, che viene così sospesa o pensata diversamente. Ma non mancano casi che giungono alle stesse conclusioni per effetto della crisi economica e sociale a cui possono essere esposti o a seguito di ferite che derivano dal proprio vissuto (perdita di amici cari, licenziamenti, pre-pensionamenti, rapporti difficili in famiglia). Per cui in un periodo di vita più segnato dalla precarietà, anche il rapporto con la fede religiosa tende a offuscarsi e a indebolirsi.
In sintesi: il processo di secolarizzazione che da tempo ha investito il paese continua il suo trend, anche se con toni non dirompenti, anche senza il tracollo che alcuni prefigurano. I luoghi di culto sono sempre più frequentati da persone con i capelli bianchi, e meno da giovani e da adulti alle prese con profondi rivolgimenti nella propria vita. Insomma: la fede accompagna il vissuto, segue gli alti e bassi delle varie esistenze. Non può essere diversamente, in una società in cui è venuta meno la pressione sociale ad andare in chiesa, e chi lo fa vuol vedere una qualche corrispondenza tra ciò che si vive nel proprio intimo e ciò che si manifesta anche pubblicamente.
 
Indagine Istat sulla frequenza ai riti religiosi, di Franco Garelli, in “Settimana-News” – www.settimananews.it – del 28 febbraio 2016