L’attuale pandemia ha fatto esplodere la criticità delle democrazie europee, soprattutto di quella italiana, già da tempo sottoposte a pressioni di segno contrario, provenienti da formazioni politiche che le mettono in discussione, dal primato dell’economia e dell’amministrazione sulla politica, dalla tecnologia e dalla tecnocrazia. “È la democrazia, bellezza!”, si potrebbe obiettare con un’abusata espressione ad effetto. In effetti è nella natura della democrazia l’esposizione al rischio di corrompersi e di finire sopraffatta da chi sviluppa un pensiero ad essa contrario proprio perché gode dei benefici del suo sistema.
 
Un rapido excursus storico
A salvaguardare la democrazia esistono innanzitutto le Costituzioni: esse non definiscono soltanto le istituzioni, l’assetto o la struttura dello Stato, ma sono anche la tavola dei valori fondamentali nei quali lo Stato si basa e si riconosce, e costituiscono la sua legge fondante, che presiede ai rapporti fra i membri dello Stato e fra i suoi organi. Che nella Repubblica Italiana la Costituzione non sia stata concessa (come fu concesso, ad esempio, dal re Carlo Alberto lo Statuto Albertino nel Regno di Sardegna nel 1848, poi assunto a Costituzione del Regno d’Italia), ma sia il frutto dell’elaborazione dell’Assemblea Costituente liberamente eletta nel 1946, indica anche che essa è l’esito dello sforzo di tutte le forze politiche allora rappresentate in Parlamento. Si trattò di una eccezionale condizione di condivisione (pur con tutti i legittimi distinguo), in vista del bene comune e della pace dopo le tragedie del fascismo e della seconda guerra mondiale.
Trent’anni dopo, nella seconda metà del decennio dei cosiddetti “anni di piombo”, si realizzò un’analoga forma di solidarietà nazionale, in un periodo in cui la democrazia veniva seriamente messa in pericolo da estremismi violenti e senza scrupoli. Il fondamento fu l’ispirazione del passato, dalla Resistenza all’Assemblea Costituente: il riconoscimento di un valore fondante comune al popolo italiano, “sovrano” non perché avrebbe potuto mettere a ferro e fuoco i palazzi del potere e sopprimerne gli esponenti, ma perché poteva contare sulla propria “rappresentanza” in quei palazzi, per quanto potesse essere discutibile, come altri eventi degli anni successivi avrebbero denunciato (“tangentopoli” in primis). E quello stesso “popolo” si riconosceva tale non perché blandito da basse e mediocri promesse demagogiche, ma perché erede di una storia e di una tradizione che aveva radici nel “popolo” del Mazzini, del Risorgimento, del socialismo e del cattolicesimo sociale.
Nel contempo si andava prefigurando una solidarietà europea, nel sogno di un continente politicamente unito, che poneva un limite alla cosiddetta “sovranità esterna” degli Stati, ossia a quella pretesa di essere auto-sufficienti e auto-legittimantesi, gli uni verso e contro gli altri, che aveva portato alle due guerre mondiali. La pace e la tutela dei diritti umani, e la nascita di organizzazioni internazionali ad esse votate, dimostrarono tutta l’inconsistenza giuridica di quella forma di sovranità, se non la sua intrinseca contraddizione con la natura stessa del diritto.
Questo rapido excursus storico può essere un criterio ermeneutico del tempo presente: una situazione di eccezionale gravità, pari a quelle sopra ricordate, non trova una risposta analoga. Tutt’altro: divisioni fra “fazioni” politiche, strumentalizzazioni meschine (che chiamano in causa financo i morti), rivendicazioni particolaristiche, municipalismi, parole in libertà “democratica”, beceri litigi, spregio delle istituzioni, personalismi ingiustificati da un merito inesistente (a volte neppure dai numeri). Soprattutto la totale assenza di coscienza storica da parte di una classe politica per la quale sembrano perfette le parole di Hanna Arendt: «Dimenticare è diventato un dovere sacro, la mancanza di esperienza un privilegio, l’ignoranza una garanzia di successo».
 
La coscienza
È proprio la coscienza, in quanto centro della comprensione di sé e del mondo, che, dal punto di vista dell’ermeneutica esistenziale, può far emergere le implicazioni più profonde di questa situazione. In primo luogo la coscienza “politica”, alla quale, nella particolare emergenza che viviamo, non si può non associare un elemento eticamente molto rilevante, per cui essa è anche coscienza “morale”, ossia la “responsabilità”. Essa significa certamente il rispondere delle proprie azioni e delle loro conseguenze (quindi, del comparire in giudizio), ma anche la promessa reciproca fra i membri di una comunità, davanti ai quali ciascuno riconosce la propria colpevolezza e, insieme, riconosce il bene violato, il vincolo dei valori.
Come ci ricorda Hans Jonas, la responsabilità del politico è di tipo “contrattuale”: dipende dall’intesa firmata dai contraenti, ossia dai cittadini e dai loro rappresentanti liberamente e democraticamente eletti. Per questo il potere che questi ultimi esercitano, è un potere “per” piuttosto che un potere “su”, sottomesso alla responsabilità alla quale il politico appartiene e che è resa possibile dal potere stesso. Archetipo di questa responsabilità è la responsabilità delgenitore dinanzi al figlio: il neonato, per il semplice “fatto” che è, coincide con un “dover-essere”: il suo «solo respiro rivolge inconfutabilmente un “devi” all’ambiente circostante affinché si prenda cura di lui».
Non è forse questo il respiro di ogni cittadino, minacciato nella sua stessa vita dal pericolo subdolo del Covid-19? E la legge delle leggi non ne riconosce forse la priorità quando recita: «Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza» (Costituzione della Repubblica Italiana, art. 16)?
A sostegno di questa responsabilità politica e morale di una coscienza che sembra essere poca, interviene la scienza, tanta scienza, necessaria come non mai e certamente efficace. Un profluvio di dati, diagnosi, terapie, soluzioni tecnologiche, attesta un orizzonte di oggettività che ora rassicura ora inquieta. Con esso, infatti, si rivela anche il volto soggettivo (e irrazionale?) della scienza: la formazione personale di ogni scienziato orienta il suo punto di vista sulla pandemia, le sue idiosincrasie ne determinano l’interpretazione dei dati, perfino un certo narcisismo da schermo televisivo finisce con l’influenzarne le valutazioni, le malcelate simpatie politiche ne rendono oscillanti i pronunciamenti. Così, vacilla anche il mito dell’oggettività scientifica, che si dà in pasto al cittadino, che, se fosse maturo, come suggerisce Paul Feyerabend, sarebbe «una persona che ha imparato come formarsi un’opinione e che poi ha deciso a favore di ciò che ritiene le si adatti meglio», realizzando così quella scienza “democratica” auspicata dall’epistemologo americano.
 
Il cittadino.
Si tocca qui il cuore della riflessione sulla democrazia. Aristotele definiva la cittadinanza come il legame fra gli uomini liberi in vista della vita buona, non della mera conservazione della vita.
Il che si declina nella coscienza “civile” come capacità di esercitare la propria cittadinanza con responsabilità, scienza e consapevolezza, in funzione di quel fine moralmente rilevantissimo: non dimenticare, ma ricordare, tenendo il passato nel presente, secondo la categoria della “ripresa”, non della “ripetizione”, l’una volta al futuro, l’altra alla conservazione; non l’inesperienza, ma la saggia esperienza della vita, che si converte in progetto; non l’ignoranza, ma la conoscenza, a partire dal socratico “Conosci te stesso”, che rivela quanto ciascuno sa di non sapere.
Si profila così un grande compito per l’educazione a venire: formare la coscienza, perché si possa smentire la desolata constatazione della filosofa Roberta De Monticelli: se le naturali fondamenta della democrazia sono la coscienza delle persone, in Italia «la democrazia non ha trovato le sue naturali fondamenta».
 
Per approfondire:
Costituzione della Repubblica Italiana,
M. Cacciari, Il potere che frena, Adelphi, Milano 2013.
R. De Monticelli, La questione morale, Raffaello Cortina, Milano 2010.
Id., La questione civile, Raffaello Cortina, Milano 2011.
P. Feyerabend, Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, tr. it. di L. Sosio, Feltrinelli, Milano 1985.
H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, a cura di P.P. Portinaro, Einaudi, Torino 1990.
H. Kelsen, Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale, a cura di A. Carrino, Giuffrè, Milano 1989.
T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, tr. it. di A. Carugo, Einaudi, Torino 2009.
P. Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, tr. it. di N. Salomon, il Mulino, Bologna 2004.
di Michele Marchetto