Centinaia di adolescenti belgi camminano da 35 anni sui sentieri d’Europa per evitare di tornare in carcere. Sono diretti a Capo Nord, Santiago di Compostela, Roma, Istanbul. A loro, nel tempo, si sono aggiunti i vicini francesi. Poi sono arrivati spagnoli e tedeschi. Un giorno, forse, li seguiranno gli italiani. Sono minorenni sottoposti a misure penali: nel loro passato furti, aggressioni, in qualche raro caso omicidi. Nel loro futuro, si augurano nei diari di bordo che compilano chilometro dopo chilometro, «la vita, perché prima non ce l’avevamo».
 
Il viaggio
Il cammino che insegna la fatica e la soddisfazione, la determinazione e la libertà, e agisce come strumento di riabilitazione. «Una riabilitazione che funziona più del carcere, perché la recidiva è di appena un terzo» osserva Oikoten-Alba, l’associazione fiamminga che per prima, nel 1982, ha lanciato il progetto che adesso si cerca di portare in Italia. Da allora ha seguito 560 ragazzi in giro per l’Europa. Tre mesi di cammino, un accompagnatore non professionista e quasi 2.000 km tra salite e discese della strada e dell’anima. Un percorso non senza cadute, perché capita che qualcuno cerchi di scappare o sgarri con una serata alcolica. Se l’inciampo è grave torna dietro le sbarre, se si può rimediare continua. E, una volta arrivato a destinazione, addio carcere: inizia il difficile lavoro di ricostruirsi, o costruirsi, un futuro.
La rete
Nei giorni scorsi, le associazioni che si occupano di cammini riabilitativi si sono radunate a Roma per la conferenza internazionale Walking Transitions, organizzata dall’università di Dresda nell’ambito del progetto Erasmus+ «Between Ages: Network for Young Offenders and Neet». Obiettivo: lo scambio di idee fra partner europei.
«Finora in Italia ci sono state solo esperienze sporadiche e di pochi giorni – spiega Roberta Cortella, moderatrice della conferenza e regista (il suo La retta via documenta proprio il viaggio di due giovani detenuti belgi) – noi vorremmo invece che il cammino fosse una possibilità strutturata per minori in carcere o a rischio». «Nel nostro ordinamento – aggiunge Isabella Zuliani, presidente dell’associazione Lunghi Cammini di Mestre e da anni attiva in questo campo – c’è uno strumento giuridico molto innovativo che si chiama messa alla prova e che potrebbe includere questi pellegrinaggi».
I protagonisti
Ma chi sono i ragazzi che partono? «In Belgio – spiega Sophie Boddez, pedagoga del gruppo educativo di Oikoten – la maggioranza sono detenuti autorizzati dal giudice, ma ci sono anche adolescenti con situazioni complicate». Sedici progetti all’anno, ai tempi d’oro, «oggi 5-6, a causa della crisi e dei tagli dello Stato». Le mete? Santiago e Roma, principalmente, dove una ragazza e la sua accompagnatrice hanno concluso il percorso incontrando il Papa. Sono invece in aumento i cammini in Francia: 30 all’anno, per un costo di 300 euro al giorno e una tabella di marcia che prevede tappe da 15-30 km. Il modello è simile: «Cento giorni senza cellulare, in un rapporto uno a uno con un accompagnatore e il sostegno a distanza di una squadra educativa» spiega Paul Dall’Acqua, direttore di Seuil, fondata dallo scrittore camminatore Bernard Ollivier. Negli anni si sono aggiunte, per cammini più brevi, anche Spagna e Germania. «Dal 2011 ad oggi – calcola Karsten König della facoltà di Scienze sociali di Dresda – sono partiti 400 ragazzi e il 97% di loro ha raggiunto la destinazione».
Il rientro
Arrivare alla meta non significa concludere il percorso. I ragazzi archiviano la parentesi carcere ma continuano ad essere seguiti da giudice e assistente sociale. Dati complessivi sull’effetto riabilitativo del cammino non ce ne sono, e si stanno raccogliendo, ma i risultati delle varie associazioni sono positivi: il 73% dei ragazzi francesi riesce a inserirsi nel contesto sociale. «La marcia è una terapia – osserva Dall’Acqua – il giovane guadagna autostima e scopre che gli altri possono essere fieri di lui». «Tornare alla vita reale è difficile – sottolinea Boddez -, soprattutto per ragazzi che magari hanno avuto per la prima volta un adulto di riferimento durante il cammino, ma il 94% si dichiara fiducioso. Un paio di anni fa – conclude – abbiamo incontrato un uomo che aveva camminato con noi negli Anni 80. “È stata dura, ho avuto alti e bassi” ci ha confessato “ma quell’esperienza mi ha dato il coraggio di pensare che anche io avevo una chance nella vita”».
La sfida dei ragazzi a rischio in cammino per riscattarsi, di Elisabetta Paganiin “La Stampa” del 27 marzo 2017
 
 
“Idea interessante, potremmo inserirla nella nostra messa alla prova”
intervista a Emma Tuccillo
«Inserire i cammini nello strumento della messa alla prova? Perché no? Mi sembra interessante». Apre alla possibilità di portare anche in Italia i pellegrinaggi educativi Gemma Tuccillo, magistrata da pochi giorni a capo del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità.
In diversi Paesi europei si usa il cammino come strumento di riabilitazione per minorenni sottoposti a misure penali. Cosa ne pensa?
«Che è un’iniziativa positiva. Tutti gli strumenti che aiutano a reinserire il ragazzo nella società e a renderlo più consapevole, evitando la struttura detentiva, sono interessanti. In Italia abbiamo la messa alla prova, che punta proprio a questo: evitare il carcere».
I cammini però ancora non si fanno in modo strutturato. Potrebbero essere inseriti, come auspicano alcune associazioni, proprio nella messa alla prova?
«Sì, potrebbe essere uno dei contenuti. Certo poi per metterli in pratica bisogna studiare bene il progetto».
Che risultati dà la messa alla prova?
«Ottimi, i fallimenti sono davvero residuali, lo dico anche sulla base della mia esperienza come giudice del Tribunale dei minori. La messa alla prova è un ottimo strumento: non serve per “accorciare” la permanenza in prigione dei ragazzi ma per evitarla completamente. A richiederla è il difensore del minore in udienza, prima che si arrivi alla sentenza di condanna. Il procedimento viene sospeso e, se si raggiunge l’obiettivo, estinto».
Quali sono le forme più comuni di messa alla prova?
«Abbiamo avuto esperienze di studio all’estero, ma rappresentano una piccola parte del totale. In generale si tratta di periodi di studio – da pochi mesi fino a un anno – affiancati da percorsi di formazione specifica o di volontariato. L’esperienza ci dice che funzionano. Per un minore evitare il carcere, qualora sia possibile, è sempre importante».
a cura di Elisabetta Pagani, in “La Stampa” del 27 marzo 2017