Nella sua prima intervista, all’ufficio comunicazione della Congregazione che lo ha scelto come successore di sant’Ignazio, il Gesuita venezuelano legge la sua elezione «come una conferma della linea iniziata nella Compagnia al tempo di Arrupe» dopo il Concilio Vaticano II.
«L’accento posto sulla collaborazione non è una conseguenza del fatto che non ce la facciamo da soli, ma – sottolinea padre Sosa – è che non vogliamo agire da soli. La Compagnia di Gesù non ha senso senza la collaborazione con gli altri. Perciò siamo chiamati a un’enorme conversione, perché in molte parti viviamo ancora con la nostalgia di quando facevamo tutto, cosicché non vi è altro rimedio che condividere la missione. Credo profondamente che sia vero il contrario: la nostra vita sta nel poter collaborare con gli altri. L’altro tema è quello della multiculturalità/interculturalità, perché è proprio del Vangelo. Il Vangelo è una chiamata alla conversione di tutte le culture per garantirle come culture e portarle a Dio. Il vero volto di Dio è multicolore, multiculturale ed estremamente vario. Dio non è un Dio omogeneo. È tutto il contrario. La creazione ci sta mostrando in ogni aspetto la diversità, come le cose siano le une il complemento delle altre. Se la Compagnia riesce a essere l’immagine di questo, sarà essa stessa espressione di questo volto di Dio. Credo – afferma padre Sosa – che, dopo il Concilio, la Compagnia sia arrivata a questa varietà culturale. Siamo riusciti a radicarci in ogni parte del mondo, e da qui nascono vocazioni che, le une come le altre, sono autentiche. Puoi incontrare gesuiti, veri gesuiti, da qualunque parte, di qualunque colore, in qualunque attività. Credo che questo sia un segno della Chiesa per il mondo. Nella nostra diversità siamo uniti dal vincolo con Gesù e con il Vangelo, e da qui deriva la creatività della Compagnia, e delle persone con cui condividiamo la missione».
Il 31esimo Superiore della Compagnia di Gesù racconta i passaggi salienti della propria vita.
«Sono nato nel brevissimo periodo di democrazia che abbiamo vissuto nella prima metà del Novecento in Venezuela, nel 1948. Sono nato il 12 novembre, e il 24 dello stesso mese vi fu un colpo di stato contro il primo presidente eletto democraticamente nel Paese, a partire dall’indipendenza», ricorda Sosa. Il papà, economista e avvocato, per due volte nel governo, «era un uomo molto inquieto, viaggiava molto fuori e dentro il Paese. Se a quell’epoca vi erano in Venezuela dieci persone che leggevano la rivista Time, lui era uno di loro». Il Gesuita spiega: «Eravamo una famiglia molto cattolica, anche se con una religiosità che si esprimeva poco». Tra i valori appresi in famiglia, «sono cresciuto lottando sempre per andare un poco oltre quello che c’era». Poi vi era il collegio di Gesuiti a Caracas, frequentato fin da piccolo: «Per me era come una seconda casa. A sentire mia mamma, era la prima, perché non ero mai a casa». Tra i Gesuiti, e in particolare a contatto con i «fratelli» non sacerdoti (cuochi, conducenti di pullman, autisti… e maestri) una vocazione che nasce «sperimentando la dimensione del senso della vita quando ti dedichi agli altri».
Sosa si sofferma a lungo sul tempo del Concilio:
«Il Concilio ebbe per me molta importanza, fu senza dubbio una grande notizia. Lo abbiamo seguito come un romanzo». E in quell’epoca vi fu anche l’elezione di padre Arrupe, storico superiore generale dei Gesuiti dal 1965 al 1983, «un’altra boccata di aria nuova». Poi arriva il «documento di Rio», scritto da Arrupe e dai provinciali dell’America Latina, e, alcuni mesi dopo, la Conferenza episcopale latino-americana a Meddelin. Per una Chiesa, quella venezuelana, «praticamente sterminata durante l’Ottocento», questi eventi, il Concilio Vaticano II, Rio, Meddelin «erano in qualche modo la Chiesa che ha trovato la propria forza nella gente, ha trovato la propria forza nella fede del popolo: di questa fede dobbiamo vivere e con essa saremo capaci di generare un’altra Chiesa».
Il Superiore dei Gesuiti ripercorre poi gli snodi della sua formazione
Il primo trasferimento a Roma («Dovetti a malincuore venire a Roma, perché in Venezuela non vi era modo di studiare Teologia»), il ritorno in Venezuela, la nascita dei centri di ricerca e azione sociale dei Gesuiti latino-americani, e in particolare, in Venezuela, del centro Gumilla, «dal nome di un gesuita che ha lavorato in Amazzonia» e che ha scritto un gran numero di opere sull’antropologia botanica». E poi il provincialato a capo dei Gesuiti venezuelani, i primi incarichi presso la curia generalizia dei Gesuiti a Roma, con padre Adolfo Nicolas, il predecessore, come superiore, e il secondo trasferimento a Roma: «Alcuni anni dopo, l’assistente mi inviò una mail chiedendomi: “Come vedresti la possibilità di lavorare come responsabile delle case internazionali di Roma?” e io gli ho mandato la classica risposta da gesuita: “Sono entrato nella Compagnia per fare quello che mi dicono, non quello che voglio, tuttavia mi sembra che…” e gli ho spiegato tutti gli argomenti per il no. Poche settimane dopo mi arriva la nomina».
Infine, l’elezione da parte della 36esima congregazione generale dei Gesuiti, tutt’ora in corso.
«Penso che sia stato considerato un valore l’esperienza del lavoro locale e internazionale, e non ho dubbi che gli ultimi anni che ho trascorso a Roma hanno a che fare con questo. Ma soprattutto – sottolinea Sosa – mi pare di capire che sono uno dei tanti gesuiti della Compagnia latinoamericana, che ha cercato di mettere in pratica quello che le congregazioni hanno detto negli ultimi 40 anni. Lo capisco come una conferma della linea iniziata nella Compagnia al tempo di Arrupe. Capisco questa elezione come una conferma di ciò che dobbiamo continuare nel futuro». Con l’incoraggiamento di papa Francesco, che «ci incoraggia ad andare oltre, come se dicesse: “Siete ancora molto indietro rispetto a quello che potete fare”». E se la Compagnia «non ha molti dubbi su quale sia la sua missione», la grande sfida, ora, è «in che modo ci organizziamo per essere efficaci in questa missione». Per questo è necessaria la «profondità intellettuale, perché non si tratta di copiare dei modelli, ma di creare. Creare significa comprendere. Ed è un procedimento intellettuale molto arduo. Comprendere ciò che sta avvenendo nel mondo di oggi, nella Chiesa di oggi, riuscire a comprendere la fede… questo può darci la chiave per incentrare la nostra missione su ciò che ha già raccolto un grande consenso e trovare i modi più efficaci di farlo».