Quanto sta avvenendo in questi ultimi giorni e, particolarmente nelle ultime ore, sta lasciando tutti in uno stato emotivo, cognitivo e comportamentale di difficile definizione e comprensione. Il tema del “coronavirus” diventa problema soggettivo in relazione al vissuto psicologico, alle diverse paure che suscita nelle persone. Nel recente documento emanato dal Consiglio Nazionale degli Psicologi, per fornire ai professionisti delle linee guida in questa emergenza si legge: «La “percezione del rischio” può essere distorta e amplificata sino a portare a condizioni di panico che non solo sono quasi sempre del tutto ingiustificate ma aumentano il rischio perché portano a comportamenti meno razionali e ad un abbassamento delle difese, anche biologiche, dell’organismo. È bene quindi affidarsi ai dati e alle comunicazioni delle autorità pubbliche e alle indicazioni di cautela e prevenzione in essa contenute». Si tratta di un messaggio che invita a rileggere il proprio vissuto emotivo e a cercare le risposte in ordine ai propri bisogni di sicurezza laddove è possibile reperirle, evitando notizie non affidabili e ricerca di risposte scientifiche dalle agenzie informative corrette.
La situazione delle ultime ore, certamente, non delinea un quadro da sottovalutare ed il rispetto delle misure previste dagli organi competenti è il mezzo per limitare il dilagare dei contagi.
Una delle prime scelte poste in essere dalle autorità governative centrali e regionali è stata quella di sospendere le attività didattiche delle scuole. Questa scelta all’inizio poteva apparire esagerata, mentre la realtà ha mostrato di essere stata una scelta proporzionata alle contingenze.
In questo momento difficile, la scuola pare essere stata riscoperta per la sua importanza sociale non solo come luogo in cui depositare i bambini ed i ragazzi, ma anche come luogo unico e irripetibile per dare ai giovani una prospettiva di senso al proprio tempo, quale occasione senza pari per crescere in conoscenza, sapienza e umanità. Negli ultimi decenni i media hanno proposto un’immagine di scuola sgangherata, con strutture spesso fatiscenti e dove l’importante ruolo sociale dei docenti è stato lentamente misconosciuto. A partire dalla fine degli anni 80, diverse indagini sociologiche hanno messo in luce un declino nel prestigio del docente, sia dal punto di vista reale che da quello della percezione. Si tratta di un fenomeno largamente diffuso anche al di là dei confini del nostro Paese. A partire dagli anni ’90 la politica ha tentato, a più riprese di dare nuovo lustro alla scuola attraverso una serie di riforme, troppo spesso calate dall’alto e disincarnate rispetto alla reale necessità dei docenti e degli studenti. Nel turbinio di riforme strutturali della scuola, si è assistito anche ad una serie di rivolgimenti pedagogico-didattici di notevole portata, mentre il «villaggio globale» accresceva nel senso comune una logica di conoscenza sempre più «smart», mentre i capisaldi della conoscenza subivano un processo di «liquefazione». Gli insegnanti in questo contesto socio-culturale, che, dall’avvento della rete ha permesso un accesso all’informazione, svalutando i processi sistematici di conoscenza, è stato percepito sempre più come mediatore di informazioni da dispensare secondo una logica di domanda e offerta, in cui chiunque può farsi attore di pretese.
La sociologa Colombo sostiene a questo proposito, nel recente testo «Gli insegnanti in Italia»: «Più di recente si è assistito ad un ulteriore cambiamento; le aspettative verso l’insegnante sono cresciute di pari passo con la complessità dell’organizzazione scolastica, articolata in un mercato formativo sempre più rivolto alla domanda, in una rete di ruoli specializzati che devono compenetrarsi e in ambienti di apprendimento personalizzati e diversificati (anche con l’uso delle tecnologie informatiche). Ci si aspetta quindi un insegnante multitasking, che possieda un certo dominio del contesto educativo, impegnato fuori e dentro la classe in processi di interfunzionalità (ruolo di animatore)». A livello sociologico, per una professione risulta fondamentale legittimarsi all’interno del gruppo umano di appartenenza, al fine di conseguire un ruolo autorevole e stabile nel tempo.
La professione docente dal punto di vista legale, come si può evincere da una lettura della nostra Costituzione è tenuta in alta considerazione, in quanto attività di per sé necessaria, libera e, ad un tempo richiedente una notevole competenza e specializzazione. Alla forte legittimazione costituzionale ed all’alto livello di specializzazione che dovrebbero fare dell’insegnamento una professione ambita e altamente riconosciuta socialmente, il reale contesto lavorativo attuale non la fa apparire, a livello di senso comune, in questi termini. Mancando il prestigio del compenso economico, ma ancor prima essendo venuto meno il riconoscimento del valore socio-culturale dell’insegnamento, la percezione sociale tende a dequalificare e a tenere in scarsa considerazione il lavoro del docente, a cui segue un venire meno del sostegno sociale. Ma a ben vedere la tradizione pedagogica occidentale ci ha lasciato un’eredità culturale ben più organica, deontologicamente più elevata e socialmente riconosciuta rispetto all’attuale prospettiva. Non bisogna dimenticare, infatti, che se le parole non sono flatus vocis, ma hanno una consistenza semantica capace di evocare e significare la realtà, allora dire «insegnante» vuol dire richiamare un altissimo ruolo per l’istruzione e la formazione dei cittadini che può passare solo e soltanto attraverso la figura di un docente. Insegnare, infatti, significa segnare dentro: l’insegnante lascia un segno nelle giovani persone che gli sono affidate non soltanto trasmettendo notizie, ma formando un soggetto a tutto tondo, perché possa compiersi un percorso che tenga conto dell’integralità della persona. L’azione dell’insegnare implica una struttura edificata ad arte da una figura professionale che è tale perché opera in un contesto istituzionale. L’insegnamento ricevuto implica un insegnamento dato, e dato in una istituzione. Non c’è insegnamento senza la scuola.
In quest’ora, in cui la scuola è costretta a chiudere i battenti e gli insegnanti non possono incontrare gli studenti ci si può rendere maggiormente conto del valore di questa istituzione troppo spesso dimenticata o, peggio ancora, denigrata e vessata. L’educazione integrale della persona ha bisogno della scuola che, tramite i docenti, permette un incontro di sguardi tra generazioni che aprono al futuro con solide radici nella propria tradizione e cultura. Oggi insegnanti e allievi non possono più incrociare i loro sguardi per un periodo che ancora non ci è dato sapere e che si auspica e si prega possa essere breve. La scuola è chiamata a utilizzare gli strumenti che offre l’informatica, annullando le distanze, ma solo attraverso gli schermi, che come tali rendono virtuale l’insegnamento. Un mezzo utile che risponde alla difficilissima situazione attuale e che risulta l’unico che può permettere e garantire una forma di istruzione, ma che, forse, ci fa comprendere come il mondo cibernetico non potrà mai sostituire l’incontro educativo tra un docente e un discente. In queste ore, che forse ai più sembreranno veramente surreali e a tratti un incubo dal quale si desidera solo fuggire, può essere un momento per ritornare a recuperare il valore dell’istruzione e dell’educazione, che permette adeguata capacità autonoma di giudizio del singolo e conseguentemente del consorzio umano. E, forse, si potrà comprendere nuovamente che la scuola più di qualunque altra agenzia educativa può ricoprire l’importante ruolo che maggiormente la contraddistingue: far passare attraverso l’insegnamento il concetto ed il valore del bene comune, valori che in queste ore, a fronte dell’emergenza sanitaria, paiono essere fondamentali.
Luca Raspi