Non è evento raro che, in qualsiasi ambito, periodicamente s’invochi una novità che giunga a movimentare qualcosa che, più o meno esplicitamente, si considera stagnante. Anche in campo educativo questo desiderio di novità è giunto spesso a stimolare la ricerca di un percorso migliore.
Non è atteggiamento questo da giudicare, in sé, come positivo o negativo. Il giudizio acquista un senso quando la novità ricercata la s’intenda come rottura con il passato oppure, di contro, come necessariamente votata a riscoprire in grandi modelli del passato qualcosa di fecondo per alimentare il futuro.
Quando, dunque, in ambito educativo ci s’impegna a trovare nuove vie da percorrere per rendere più efficace il processo pedagogico in contesti storico culturali mutati e mutanti, credo sia opportuno prendere la rincorsa per questo balzo in avanti, esattamente come si fa in una prestazione atletica: facendo un passo indietro.
Fuori di metafora, l’insegnamento di grandi maestri del passato è ancora lì pronto a metterci a disposizione modelli, idee e provocazioni d’insondabile ricchezza. E anche il teatro, in questo senso, può fornirci un aiuto per attingere a questa ricchezza.
Gli esempi che si potrebbero portare in quest’ambito sono tanti ma qui, per brevità, mi limiterò a proporne uno, cogliendolo da un tempo remoto ma fondante la nostra cultura occidentale.
Mi riferisco al modello socratico. Come si sa, l’autore che più di ogni altro ci ha parlato di Socrate è stato Platone il quale ne parla attraverso testi dialogici. Non era certamente intenzione di Platone scrivere testi teatrali. La scelta dello stile dialogico ha una ragione filosofica radicata proprio nell’insegnamento socratico, per il quale il percorso pedagogico in specie e la ricerca della verità in genere, possono darsi soltanto attraverso la vitalità del dialogo. Ed è proprio per questo che i dialoghi platonici si presentano come veri e propri copioni teatrali che sembrano attendere, oltre a una buona traduzione, un regista e degli attori che li mettano in scena. Qualsiasi dialogo platonico, che ha quasi sempre al centro il “personaggio” Socrate si presta a questo tipo di operazione. Ma tre dialoghi, in particolare, potrebbero essere utilizzati con una consequenzialità straordinaria (di fatto lo sono stati, ma soltanto in ambito cinematografico quando, nel 1939, il regista Corrado D’Errico girò Processo e morte di Socrate affidando l’interpretazione del filosofo a uno dei più grandi attori teatrali del Novecento: Ermete Zacconi).
I tre dialoghi platonici a cui mi riferiscono sono Apologia di Socrate, Critone e Fedone, che trattano, rispettivamente, del processo subito da Socrate, della sua reclusione in un carcere ateniese e infine della sua morte. Attraverso le parole di un testimone diretto dell’insegnamento socratico, questi “copioni teatrali” fanno emergere in maniera straordinaria la via dialogica del percorso educativo. Grandi tematiche quali cosa significhi educare, in cosa consista il rispetto delle leggi, quale sia la natura dell’anima e se essa sia immortale, vengono attraversate all’insegna del dialogo in quella prospettiva maieutica che è uno dei cardini del pensiero pedagogico socratico: l’allievo non è un vaso vuoto da riempire (anche questa una metafora antica e molto nota), ma una persona gravida che il maestro aiuta a partorire.
Il dialogo è metodo indispensabile al percorso pedagogico. Il teatro è essenzialmente dialogo. Una delle maggiori carenze che la cultura contemporanea fa registrare oggi è quella dialogica. Queste tre constatazioni tracciano il percorso di questa nostra ipotesi ermeneutica.
 
Primo: non esiste prospettiva pedagogica che non sia incentrata sul dialogo.
Questo presupposto filosofico, intuito per primo da Socrate, con il trascorrere dei secoli non ha trovato che conferme, fino alle più recenti elaborazioni non più soltanto filosofiche. Il pensiero è in sé dialogico. Ritenere che il dialogo giunga dopo il pensiero, quale semplice strumento per comunicare, è convinzione ingenua che non tiene conto del fatto che il pensiero emerge sempre da un dialogo silenzioso che ogni uomo intrattiene innanzitutto con se stesso. Qualsiasi intervento educativo consapevole di questo primato del dialogo non fa altro, come insegnava Socrate, che inserirsi in una struttura originaria della psiche umana.
 
Secondo: il teatro è, per costituzione propria, dialogico.
Il grande critico letterario ungherese Peter Szondi, nella sua fondamentale opera Teorie del dramma moderno, pur accettando, ovviamente, questa identificazione del teatro con la dimensione dialogica, avanza l’interpretazione che il dramma moderno, a causa di una crisi della soggettività che investe, fra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, l’uomo occidentale, ritiene che il teatro moderno abdichi a questo ruolo ed esprima la solitudine dell’uomo contemporaneo spostando la tensione drammaturgica dal dialogo al monologo. Citando, quale esempio, il personaggio del domestico sordo Firs ne Il giardino dei ciliegi di Anton P. Čechov, egli nota che il grande drammaturgo russo utilizza l’espediente della sordità del domestico per far sì che tutti i dialoghi che i diversi personaggi intrattengono con Firs si rivelino, in effetti, null’altro che monologhi. Szondi dimentica, però, in questa impeccabile analisi, che non esiste, in teatro, monologo che non sia esso stesso dialogo con un “personaggio” apparentemente assente e invisibile: lo spettatore. Dunque il teatro, sempre e comunque, anche nei casi in cui si presenta come monologo, non abdica alla propria natura dialogica. Si consideri, per esempio, al riguardo il bellissimo testo teatrale Novecento di Alessandro Baricco. Tecnicamente esso si presenta come il monologo dell’ormai anziano trombettista Tim Tooney che ripercorre la straordinaria vicenda di Danny Boodman T. D. Lemon Novecento, il pianista nato, vissuto e morto sul transatlantico “Virginian” senza mai mettere piede a terra. Ma dietro la struttura del monologo si cela (e l’attore che lo interpreta dev’essere capace di esprimerlo in pienezza) una dimensione dialogica straripante che invade la platea e coinvolge lo spettatore (almeno quello più attento e sensibile).
 
Terzo: strutture oggi dominanti relegano in secondo piano la natura dialogica dell’uomo.
Mi riferisco (credo sia evidente) ai social. L’assenza dei volti reali e della corporeità all’interno delle strutture dei social impedisce il pieno sviluppo della dimensione dialogica poiché in quel contesto, per citare ancora Szondi, i dialoghi si espongono a essere (benché non possano mai esserlo del tutto, poiché questo annienterebbe la natura umana) monologhi contrapposti. Non si sta qui mettendo in discussione l’importanza dei social. Qui si vuole soltanto sottolineare che, proprio perché importanti per tanti altri aspetti, essi vanno bilanciati con un intervento educativo che sappia rimettere al centro il dialogo, il quale per essere autentico deve nutrirsi di apertura, rispetto, comprensione e fiducia reciproca.
di Giancarlo Loffarelli