Quale secolarizzazione? Quale religiosità?
Credo che per affrontare il tema del rapporto fra secolarizzazione e religiosità siano necessarie due domande preliminari, senza le quali si rischia fortemente di equivocare: Quale secolarizzazione? Quale religiosità?
Con il termine ‘secolarizzazione’, di per sé, si fa riferimento al processo attraverso il quale le civiltà hanno affermato la propria autonomia dal divino.
Con il termine ‘religiosità’ s’intende il processo attraverso il quale l’uomo ha cercato, invece, di stabilire un rapporto con il divino.
In apparenza, i due processi non possono che essere considerati opposti l’uno all’altro. In effetti non è così o, almeno, non lo è ipso facto.
Il processo di affermazione dell’autonomia dell’umano, infatti, può presentarsi in due modi opposti: come tentativo di escludere il divino da ogni esperienza umana relegandolo a superstizione, oppure come rifiuto di utilizzare il divino quale giustificazione dei comportamenti (morali, politici, militari, economici) dell’uomo.
E anche la religiosità può essere intesa come visione integralistica del mondo in cui si pronuncia la più grande bestemmia possibile all’uomo, cioè considerare Dio dalla propria parte, oppure come inquieta ricerca di una relazione con il divino che si sa mai completabile.
Lo scontro, dunque, non è fra secolarizzazione e religiosità, ma fra due visioni del rapporto fra uomo e Dio: ricerca di Dio o possesso di Dio.
 
Il “Processo a Gesù” di Diego Fabbri
Quando a diciotto anni, ormai quarant’anni fa, per la prima volta lessi Processo a Gesù e decisi di metterlo in scena dando il via, di fatto, al mio lungo cammino attraverso il teatro, il testo di Diego Fabbri mi aprì gli occhi su questo modo di leggere il rapporto fra secolarizzazione e religiosità.
Molto rappresentato in vita, quasi dimenticato dopo la sua morte, Diego Fabbri (1911-1980) resta uno dei drammaturghi italiani più importanti del Secondo dopoguerra. Formatosi in ambienti cattolici, fu attivo anche come sceneggiatore cinematografico al fianco di registi come Roberto Rossellini, Vittorio De Sica e Michelangelo Antonioni. Sarà soprattutto in campo teatrale, però, che lascerà un segno indelebile, attraverso drammi e commedie che verranno messe in scena nelle interpretazioni dei più grandi attori del tempo.
Processo a Gesù debuttò nel 1955, al Piccolo Teatro della città di Milano, con la regia di Orazio Costa Giovangigli. Il testo fu denunciato al Sant’Uffizio come offesa alla religione e istigatore all’odio sociale (come si vede, dipende sempre da cosa s’intende per ‘religione’). Ciò non ne impedì il successo, a partire da quella prima rappresentazione che ebbe fra gli interpreti attori e attrici di grande spessore come Tino Carraro, Sergio Fantoni, Anna Miserocchi, Francesco Mulè e Checco Rissone.
Sulla scena, una sorta di compagnia teatrale a gestione familiare composta da Ebrei porta in scena, ormai da tempo, in diversi teatri un processo a Gesù di Nazareth con l’intento di analizzare giuridicamente, e soltanto giuridicamente, se la sentenza di condanna che gli fu, duemila anni prima, comminata, fosse stata giusta o un grande errore giudiziario.
La corte che inscena il processo è composta da Elia, da Rebecca, sua moglie, dalla loro figlia Sara e da Davide. Elia impersona ogni sera il ruolo del Presidente del tribunale, mentre gli altri ruoli (difensore di Pilato, difensore di Caifa, difensore di Gesù e accusatore di Gesù) vengono sorteggiati di sera in sera.
All’inizio dello spettacolo, quando vengono presentati i ruoli, diverse voci si levano dalla platea facendo notare che manca un attore per ricoprirli: a fronte di quattro attori, i ruoli da interpretare sono cinque. Elia chiarisce che, un tempo, c’era in Compagnia un quinto attore, Daniele, il marito di sua figlia Sara, morto in un campo di sterminio in Germania. Ora quello che fu il suo ruolo viene interpretato, di sera in sera, da un volontario scelto fra il pubblico presente in sala.
Il processo può avere inizio e tutto il Primo atto prosegue con l’escussione dei vari testimoni, attori della Compagnia che interpretano i ruoli dei contemporanei di Gesù: Maria di Nazareth, Maria di Magdala, Lazzaro, alcuni degli apostoli, oltre a Caifa e Pilato. L’unico che non sarà mai presente in scena è Gesù.
Mentre il processo va avanti, ci accorgiamo che le deposizioni dei vari testimoni cercheranno di spostare sempre più il procedimento dal piano freddamente giuridico a quello più personale e intimo, poiché ognuno ha un aneddoto o un’emozione da raccontare nel rapporto avuto con Gesù di Nazareth. Affiora, parallelamente, una tensione sempre più evidente fra Sara e Davide che sfocia spesso in battibecchi placati a stento da Elia.
Il processo viene momentaneamente sospeso per consentire alla corte di riunirsi al fine di emettere una sentenza. Il pubblico è invitato ad alzarsi per sgranchirsi un po’ le gambe, a fumare una sigaretta in un vero e proprio intervallo fra i due atti. In effetti, l’intervallo non avverrà mai poiché, mentre alcuni degli attori escono di scena per rientrare in camerino, alcuni rimangono in scena a chiacchierare fra di loro. In scena rimangono, soprattutto, Sara e Davide che iniziano a litigare fra di loro. Il pubblico si rende conto che lo spettacolo non si è interrotto ma sta proseguendo in quello che sembra soltanto un intervallo. Dalle loro parole agitate comprendiamo che i due sono stati amanti, che Sara quindi tradiva il marito Daniele con il suo amico Davide e che ella aveva deciso di interrompere quella relazione, travolta dai sensi di colpa, dopo che Daniele era stato arrestato, deportato e ucciso.
Il dialogo viene interrotto da Elia e Rebecca che tornano in scena per pronunciare la sentenza. Inizia così il Secondo atto con un monologo di Elia che si conclude, come sempre, con una sentenza di condanna che conferma la giustezza di quella pronunciata a suo tempo dal Sinedrio.
A questo punto, diversi personaggi fra il pubblico cominciano a chiedere la parola per poter dire la propria opinione su quella sentenza che viene messa in discussione. Via via i personaggi più diversi troveranno il coraggio per intervenire e ognuno, di fatto, intreccerà la propria vicenda personale con quella del Nazareno condannato: una prostituta, un sacerdote, un intellettuale, la donna delle pulizie del teatro. Ed è soprattutto la testimonianza di quest’ultima, la quale racconta del proprio figlio, arrestato come sovversivo e ucciso, che spingerà Davide a confessare il terribile segreto che si portava dentro. Quello di aver denunciato Daniele ai Nazisti per potersi liberare di un ostacolo alla propria relazione con Sara.
Dopo un confronto che diventa sempre più drammatico fra gli spettatori e i giudici sul palcoscenico, Elia, il Presidente del tribunale, alla fine, pur manifestando il proprio dubbio nel credere se quel Gesù fu o meno il Messia atteso dal popolo ebraico, lo proclama innocente.
 
Cosa ci dice “Il processo a Gesù” rispetto al tema del rapporto fra secolarizzazione e religiosità?
Molto.
Non sfugga l’assenza del “personaggio” Gesù dalla scena. Tutto il testo non fa che parlare di lui, i diversi personaggi entrano in crisi, confessano le proprie colpe, convertono la propria vita poiché si sentono interpellati proprio da quell’assenza. Ovviamente un’assenza fisica. Perché in una modalità più profonda e misteriosa Gesù è presente fin dal titolo che annuncia un processo rovesciato: se l’intento era quello di processare Gesù, per tutto lo spettacolo non abbiamo visto altro che mettere sotto accusa l’uomo nei suoi comportamenti apparentemente inappuntabili.
A volte sorprende come molti cristiani non meditino a sufficienza sui cardini della propria fede. Che altro è l’Ascensione al cielo di Gesù se non un sottrarsi, un lasciare spazio alla libera scelta umana, il rifiuto di voler sacralizzare ciò che sacro non è? Rettamente intesa, questa è la secolarizzazione: non confondere il Santo con il sacro.
E nel testo di Fabbri (occorre leggerlo o vederne una messinscena) i diversi personaggi sono tutti e sempre percorsi da un’inquietudine che è condizione indispensabile per la conversione, poiché radicata sulla ricerca di un rapporto con Gesù, mossi dalla domanda che è possibile soltanto di fronte a un’assenza: chi è costui?
E non è forse questo il senso più autentico della religiosità?
di Giancarlo Loffarelli