Il linguaggio ha polarizzato la ricerca recente che vi ha rilevato un orizzonte singolarmente significativo per una più attuale interpretazione dell’uomo e della sua esperienza.
Il linguaggio si è manifestato un terreno straordinariamente fecondo e poco arato dalla tradizione. Questa ne aveva fatto fondamentalmente uno “strumento” di comunicazione del pensiero. Il linguaggio poteva assurgere a dignità in quanto lasciava trasparire la “conformità” fra pensiero e realtà – adaequatio intellectus et rei. Il problema restava concentrato sul pensiero e la sua forza interpretativa della realtà. Il linguaggio andava affinato e valorizzato come mezzo di espressione – quasi manifestazione di un pensiero che era stato elaborato o si andava elaborando in seguito a processi propri e indipendenti.
Nella riflessione recente e contemporanea viene ripensato proprio questo presupposto. Il linguaggio non è uno strumento del pensiero nel senso che si riduce ad essere una via obbligata per manifestarlo; è l’orizzonte del pensiero e del processo interpretativo della realtà. L’interpretazione stessa si elabora nel linguaggio e su quella base: elaborare la comprensione e conferire il nome costituiscono il processo stesso dell’interpretazione.
Perciò il linguaggio è l’orizzonte dell’uomo: in ambito interpretativo l’uomo ha coscienza di sé e del mondo in cui è immerso in quanto ha chiamato una qualunque esperienza per nome, l’ha articolata in linguaggio. Donde la forza evocativa della pagina biblica: nel gesto del primo uomo che dà nome alle cose è espresso un tratto costitutivo e qualificante dell’esperienza umana, su cui la riflessione attuale ritorna come ad un archetipo da esplorare ( Genesi 2.20 e ss.). 

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