Il racconto della R/resistenza attraverso un susseguirsi di personaggi, idee ed eventi alla luce della teoria e della prassi della “non collaborazione”. Tra la scelta partigiana e l’obiezione di coscienza, tra la Costituzione e la disobbedienza civile, tra l’idea nonviolenta di Aldo Capitini e un inedito di Norberto Bobbio, si dipana un itinerario in cui si confrontano e si alternano i ritratti di Franco Antonicelli, Antonio Giolitti, Ada Gobetti, Bianca Guidetti Serra, Piero Gobetti, Silvio Trentin, Claudio Pavone, Paolo Gobetti, Andrea Caffi, Piero Calamandrei, Massimo Mila, Danilo Dolci, Lorenzo Milani, Pier Paolo Pasolini, Guido Calogero, Claudio Baglietto. L’autore di questo volume ci propone così un viaggio in cui ogni idea coincide con una storia, ogni storia corrisponde a una persona. Un gioco di specchi dal quale emergono le ragioni storiche della Resistenza e una preferenza per la nonviolenza intesa né acriticamente né fideisticamente: il modello della “non collaborazione” possibile strumento delle rivoluzioni future.
 

Descrizione
Titolo: Il dovere di non collaborare. Storie e idee alla resistenza alla nonviolenza
Autore: Pietro Polito
Editore: Edizioni SEB27
Prezzo: 15,00
Anno edizione: 2017
Pagine: 177 p. , Brossura
EAN: 9788898670192
 
 
Il recinto della nonviolenza
di Paolo Borgna
Ampi stralci della prefazione che ha scritto Paolo Borgna per il libro di Pietro Polito “Il dovere di non collaborare. Storie e idee dalla Resistenza alla non violenza”, edito da Seb27 (pagine 178, euro 15,00). È, quella di Polito, una lunga riflessione sull’uso della violenza, anche e soprattutto nella Resistenza, e sulla scelta non violenta incentrata soprattutto sulla filosofia e le scelte di vita di Aldo Capitini.
Racconta l’autista di Giovanni Gentile che, quando il 15 aprile 1944 un commando di gappisti fiorentini uccise il filosofo di fronte al cancello della sua casa, il giovane che sparò, esplodendo i colpi a bruciapelo, gridò che egli non intendeva uccidere l’uomo ma le idee. Una frase sinistra che, trent’anni più tardi, avremmo tante volte letto nei comunicati dei terroristi rossi. Una frase che, emblematicamente, rappresenta un’idea: quella dell’uomo ridotto a simbolo, spogliato della sua umanità, considerato al di fuori delle sue relazioni famigliari, dei suoi affetti, della sua intimità, del suo passato e del suo futuro. L’uomo non più persona ma ridotto ad oggetto. A cosa. Nel rifiuto di questa riduzione sta la ragione ultima, insuperabile, della contrarietà alla pena di morte. Quel rifiuto che a Cesare Beccaria faceva dire: «Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni eventi l’uomo cessi di essere persona e diventi cosa». Quel rifiuto che, nel 1981, al termine di una memorabile polemica con Massimo Mila sulla pena di morte – dopo lunghe discussioni che tendevano a dimostrare l’inutilità della pena capitale – portava Alessandro Galante Garrone a concludere che, al di là di ogni ragione pratica, comunque, la pena di morte è inaccettabile «perché degrada l’essere umano ad oggetto». Un’affermazione radicale e insuperabile: che non lascia spazio ad alcuna obiezione. Tanto più radicale se si considera che viene da un uomo della Resistenza.
Ho avuto lunga consuetudine con combattenti della Resistenza. E ognuno di loro si ritrovava nelle parole con cui Beppe Fenoglio racconta il momento della scelta del partigiano Johnny: «Partì verso le somme colline… sentendo com’è grande un uomo quando è nella sua normale dimensione umana», investito, «in nome dell’autentico popolo d’Italia, ad opporsi in ogni modo al fascismo, a giudicare ed eseguire, a decidere militarmente e civilmente». Nessun rimpianto per aver organizzato e combattuto quella che don Lorenzo Milani – nelle pagine della lettera ai cappellani militari (L’obbedienza non è più una virtù), che rimane uno dei testi più implacabili dell’antimilitarismo – definirà l’unica guerra giusta: «l’unica che non fosse offesa alle altrui Patrie, ma difesa della nostra: la guerra partigiana». Nessun rimorso per la morte data in battaglia. Eppure, quegli stessi uomini, a cinquant’anni di distanza, erano ancora visitati dai fantasmi dei ricordi delle fucilazioni e più ancora delle esecuzioni sommarie dei giorni immediatamente successivi alla Liberazione. Non amavano parlarne. Rifuggivano l’argomento. E, quando glielo proponevi, avvertivi che avrebbero preferito farne a meno. Rievocando la vicenda di un traditore che era quasi riuscito a farlo arrestare nel suo ufficio in Tribunale e che i partigiani avevano poi catturato e fucilato a Pradleves (nonostante i suoi timidi tentativi di salvarlo), Alessandro Galante Garrone mi racconterà: «Sentii gli spari del plotone di esecuzione, a distanza. Ti confesso che ancora oggi mi pare di risentire quegli spari. E non è un bel ricordo». E del resto, che cos’è, se non il fantasma di un cattivo ricordo, l’ossessione dell’uomo al muro, che ricorre, nella sua tragica nudità, in tanti racconti di Fenoglio? Vittorio Foa ha scritto pagine memorabili su cosa significò, per la generazione che passò attraverso la Grande Guerra, l’esperienza della trincea: l’abitudine della morte che poteva giungere in qualunque momento; i tentativi di attacco privi di alcuna possibilità di successo; l’indifferenza a distruggere; la disciplina totale, ferrea, nell’eseguire ordini che portavano quasi sicuramente alla morte o alla mutilazione. Il disprezzo per la vita e l’accettazione del totalitarismo moderno, che sarà protagonista del Novecento, conclude Foa, nascono probabilmente da qui: «Nelle fosse di fango, nelle trincee della guerra». Il faticoso superamento di questa eredità novecentesca troverà la motivazione vera, più profonda, definitiva, inattaccabile, nel sentimento di sacralità della persona umana, nel rifiuto di accettare che l’uomo sia ridotto a mero corpo, a cosa.
Lì, comunque, si arriva. Potrà essere una motivazione religiosa: il “non uccidere” del V comandamento. Potrà essere una motivazione etico-filosofica, di matrice illuministica: quella di Beccaria. Ma, alla fine, si torna ai comuni valori della nostra civiltà. È la religione dei padri – oppure la religione laica dei propri maestri – che, non a caso, ritroviamo in tante lettere dei condannati a morte della Resistenza: un appello ai valori di fondo. La cui radice è la stessa: il richiamo sarà comunque ai principi fondamentali, su cui le diverse culture si incontrano: è un sentire profondo che va ben al di là di ogni ragionamento politico. È l’intimo sentire che dar la morte ad un proprio simile è cosa indicibilmente oscena. Contro natura.
Ma anche leggendo e comprendendo la profondità del pensiero di Capitini, io penso (sommessamente) che, così come un individuo, un popolo non può rinunciare al principio di legittima difesa. «C’è sempre il principio della guerra giusta, che è quella difensiva: la guerra difensiva è sempre la possibilità ultima» ma non può essere esclusa in assoluto. «Anche questa è brutta, ma è così. Se uno attacca e vuole calpestare il diritto alla vita, il diritto di esistere, c’è il diritto alla difesa». Sono parole di un pontefice. Le pronunciò, a Castel Gandolfo, papa Wojtyla, il 22 luglio 1995. Importanza delle date: erano trascorsi appena quattro giorni dal massacro di Srebrenica. Eppure, anche noi che non vogliamo dimenticare i cingoli dei carri armati di Hitler e il massacro di Srebrenica, dobbiamo essere prudentissimi nel maneggiare il concetto di “guerra giusta”. Perché – anche questo ci insegna la Storia – troppe volte, anche ai giorni nostri, la “guerra giusta” è stata invocata per giustificare, affrettatamente, aggressioni per nulla necessarie. “Guerra giusta” troppo spesso è diventata la parola d’ordine per correre a sirene spiegate verso il conflitto armato, senza che fossero esperiti «tutti i tentativi razionali di salvare la pace». Ecco che ritornano le parole di Capitini. Anche chi pensa che il suo pacifismo radicale e utopico non possa – sempre e comunque – trasformarsi in regola di governo dei cittadini, anche chi non vuole rinunciare all’eccezione della legittima difesa, deve portare con sé, come memento perenne, la frase forse più famosa del filosofo perugino: «Guardiamoci intorno: troppe nefandezze sono oggi compiute a fin di bene; gli uomini sono considerati come cose; ucciderli è un rumore, un oggetto caduto».
in “Avvenire” del 6 aprile 2017
 
 
Il dovere di non collaborare
Pietro Polito
Come ha scritto Isabella Bresci, la cosa più bella di Nanni Salio era il modo con il quale nella sua stanza stipata di libri al Centro Sereno Regis accoglieva gli amici, avviando con loro “una conversazione profonda e coinvolgente che si allargava come una spirale sempre più ampia”, fino a diventare una “chiacchierata sapienziale”.
L’ultima conversazione che ho avuto con Nanni, amico, operaio, maestro della nonviolenza, è stata la sera del 25 gennaio, una settimana prima della sua morte, ed ha avuto come argomento prevalente la domanda che ci siamo posti più di una volta: “Come la nonviolenza entra nel mondo e si realizza nella società, trasformandola?”.
Per tentare una risposta, può essere fecondo interrogarsi sul significato della Resistenza e della resistenza.
Come ha osservato Norberto Bobbio: “Nella storia dei rapporti tra governanti e governati si è sempre contrapposto il dovere di obbedienza invocato dai sovrani al diritto di resistenza invocato dai popoli. Ebbene, la Resistenza è stato un gigantesco fenomeno di disobbedienza civile in nome di ideali superiori come libertà, eguaglianza, giustizia, fratellanza dei popoli”. Di conseguenza, continua Bobbio, “la Resistenza è stato un gigantesco fenomeno di disobbedienza civile in nome di ideali superiori come libertà, eguaglianza, giustizia, fratellanza dei popoli”. Pertanto, egli conclude: “Richiamarsi alla Resistenza oggi vuol dire richiamarsi al valore perenne di questi ideali, rispetto ai quali si giudica la vitalità, la nobiltà, la dignità di un popolo” (N. Bobbio, Eravamo ridiventati uomini. Testimonianze e discorsi sulla Resistenza italiana, a cura di P. Polito e P. Impagliazzo, Einaudi, Torino 2015, p. 87).
Personalmente penso che la nonviolenza sia la forma attuale della resistenza, intesa la nonviolenza, alla maniera di Aldo Capitini, come noncollaborazione. Resistere oggi significa “non accettare il mondo così com’è”.
Cop_capitini_tecniche_Nonviolenza-194x300 Si può ragionare proficuamente sulle forme della resistenza oggi, riprendendo Le tecniche della nonviolenza di Aldo Capitini, un libro che Bobbio consigliava ai nonviolenti e che io mi permetto di suggerire ai disobbedienti e ai resistenti, a coloro che, seguendo l’insegnamento di Capitini, “non accettano”.
Le tecniche uscirono presso Feltrinelli nel 1967 e sono state a più riprese riproposte da Goffredo Fofi, nel 1989 con “Linea d’ombra”, nel 2009 con le edizioni dell’asino, da ultimo con il suo Elogio della disobbedienza civile, Nottetempo, Roma, 2015. (“Un salutare richiamo al fatto che esistono alternative alla violenza” è Michael N. Nagler, Manuale pratico della Nonviolenza. Una guida all’azione concreta, Prefazione di Nanni Salio, edizioni Gruppo Abele, Torino 2014).
Il libro Le tecniche della nonviolenza fu proposto da Capitini a Giangiacomo Feltrinelli, orientato politicamente sul tema dei mezzi in modo a lui opposto, con l’intento di far conoscere le sue riflessioni e indicazioni sulla nonviolenza ai giovani protagonisti di una nuova stagione di lotte.
Nelle intenzioni dell’autore Le tecniche avrebbero dovuto essere un manuale alternativo ai numerosi manuali di guerriglia in circolazione in quegli anni. Allora prevalse la linea della violenza – la “violenza levatrice della storia” –, non quella della nonviolenza. A distanza di quasi quarant’anni, possiamo meglio intendere che la violenza perde anche quando vince e la nonviolenza vince anche quando perde.
Scrive bene Fofi: “Il non accetto dei violenti è, come la storia ha dimostrato, destinato a non risolvere, a non evitare la barbarie, ma il non accetto dei nonviolenti non può essere allora gandhianamente che disposto – se vuole incidere – a considerare la nonviolenza non solo come una scelta individuale, ma anche come una scelta politica”.
Il nucleo centrale de Le tecniche è la contrapposizione tra la “strategia della violenza”, che è “molto più antica”, e la “strategia della nonviolenza”, “rara nel passato”, anche se ciò non vuol dire assente. Il principale riferimento non può non essere al “metodo nonviolento” o satyagraha elaborato da Gandhi. Nella concezione di Gandhi il satyagraha è una “modalità di lotta politica”. Con questa espressione egli indica la nonviolenza come convinzione che distingue dalla nonviolenza come scelta tattica. Gandhi usa le espressioni “nonviolenza del forte” o satyagraha e “nonviolenza del debole” o “resistenza passiva”.
Naturalmente non è possibile in poche battute chiarire la distinzione tra questi due tipi di nonviolenza che costituisce un tema ricorrente del pensiero gandhiano. In linea generale si può osservare che la nonviolenza come convinzione si fonda sul rifiuto morale della guerra a cui si contrappone come una alternativa, mentre la nonviolenza come scelta tattica non si collega ad una scelta etica ma scaturisce da situazioni contingenti e pertanto si rivela compatibile con qualsiasi ideologia o dottrina, anche se in certe condizioni può svilupparsi nella direzione del satyagraha.
Il rifiuto morale della guerra è sempre individuale, quello politico può scaturire da una decisione collettiva. All’interno della “strategia della nonviolenza” occorre distinguere tra le tecniche individuali e le tecniche collettive della nonviolenza. Le principali tecniche individuali sono la preghiera, la persuasione, il dialogo, l’esempio, l’obiezione di coscienza, mentre quelle collettive sono la comunità nonviolenta, lo sciopero, il sabotaggio la pubblicità delle iniziative, la disobbedienza civile.
In particolare Capitini si sofferma sull’obiezione di coscienza, presentata come “una delle tecniche più note della nonviolenza”. Nella forma di obiezione al servizio militare essa ha una tradizione secolare (Capitini cita san Massimiliano, il francescanesimo, George Fox, William Penn), è diventata un problema ineludibile a partire dal primo conflitto mondiale, dopo i casi di Claudio Baglietto nel 1940 e di Pietro Pinna nel 1948, è stata uno dei banchi di prova della nuova democrazia italiana, per l’impegno del movimento degli obiettori di coscienza è ora riconosciuta come diritto soggettivo perfetto nella legislazione del nostro Paese.
Lo stesso Capitini chiarisce che la distinzione è utile per la distribuzione del materiale, ma che non è possibile separare nettamente le tecniche collettive da quelle individuali perché le tecniche collettive, per essere efficaci, hanno bisogno di un forte impegno individuale. In realtà sia le tecniche individuali sia le tecniche collettive derivano dal principio di noncollaborazione.
Per Capitini è da valutare positivamente il fatto che la noncollaborazione collettiva abbia assunto “dimensioni imponenti” e “un’articolazione complessa”. Tuttavia, egli ricorda con forza che “il punto di partenza è stato ed è concretamente individuale”. Discutendo della noncollaborazione, negli Elementi di un’esperienza religiosa (1937) aveva affermato: “Ogni cosa umana è sorta sulla prima pietra di un’anima”.
Quantomeno opportuna appare la distinzione capitiniana tra nonuccisione e noncollaborazione. La nonuccisione è la forma specifica dell’obiezione di coscienza al servizio militare: l’obiettore “oppone un motivo di coscienza contro l’ordine legale della preparazione ed esecuzione della guerra, particolarmente nel suo carattere di uccisione di esseri umani”. La noncollaborazione ha un significato più largo: essa è “un atto che viene compiuto in quanto la coscienza obietta, cioè fa opposizione. E ogni noncollaborazione seria è non per capriccio, ma per un motivo di coscienza».
Concordo con Fofi che de Le tecniche della nonviolenza “dovremmo imparare interi brani a mente, e dovremmo recitarli, diffonderli, ragionare sugli esempi che Capitini elenca e propone, e vedere quali possono essere più efficaci, discuterli e metterli in pratica secondo i bisogni del presente”. Da Capitini ci giunge l’esortazione all’impegno a “superare le nostre miserie e, soprattutto, la nostra capacità di mentirci, il nostro bisogno di consolarci a buon mercato, sentendoci migliori della comune umanità solo perché ci consideriamo più buoni dei nostri vicini”.
La parte più politica e forse la più attuale della nonviolenza è quella della noncollaborazione e della disobbedienza civile, di cui c’è più che mai bisogno nel nostro Paese: “la disobbedienza civile può fare a meno della nonviolenza – la storia ci ha dato tanti esempi e continua a darcene –, mentre la nonviolenza non può fare a meno della disobbedienza civile”. L’indignazione non basta. A differenza dei demagoghi e dei “denunciatori di professione”, in un mondo che continua a essere dominato dalla violenza, i persuasi – i “non-accettanti” – compiono il passo decisivo, assumendosi il dovere di non collaborare. Non accettare la realtà cosi com’è è il primo contributo alla sua liberazione.
P.Polito, Il dovere di non collaborare, Ricerca, educazione, azione, Centro Studi Sereno Regis, giovedì 11 febbraio 2016