«Vanto dei cristiani», scriveva nel IV secolo Efrem il Siro, «è l’accoglienza dei forestieri e la compassione verso di loro». Oggi, in una nuova epoca di migrazioni, la Comunità monastica di Bose attinge di nuovo alle ricchezze spirituali del cristianesimo d’Oriente per cogliere i «segni dei tempi». Lo fa ospitando a Bose da domani 6 settembre fino a sabato 9 il XXV Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa, dedicato al “Dono dell’ospitalità”. «Per la tradizione cristiana, e in particolare quella monastica», ricordano i monaci e le monache di Bose, «riconoscersi stranieri e pellegrini su questa terra è il primo passo della scoperta di quella regione interiore che i padri monastici chiamavano “stranierità”, dove affonda le sue radici anche la filoxenía, l’amore verso lo straniero». Quindi, «prima di essere la risposta a un’emergenza umanitaria, l’ospitalità è un dono per chi la offre e per chi la riceve. Nell’accoglienza dell’altro ne va della nostra stessa umanità». Attraverso i contributi dei relatori e gli scambi tra i convegnisti, l’incontro di Bose desidera approfondire il senso spirituale dell’essere stranieri e ospiti come dimensione essenziale del nostro essere fratelli e sorelle in umanità. Il convegno si apre mercoledì 6 settembre con gli interventi del Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I, di Theodoros II, Patriarca greco ortodosso di Alessandria, e di Enzo Bianchi, fondatore della Comunità di Bose. Tra i relatori figurano anche il vescovo copto Epiphanios di San Macario; fratel Alois, priore di Taizé; padre Elisseos, abate del Monastero di Simonospetra sul Monte Athos; il domenicano Claudio Monge e Chrysostomos Stamoulis, dell’Università Aristotele, a Salonicco. Papa Francesco ha inviato una lettera personale, che sarà letta all’apertura del Convegno.
 
 
«Tornare al minimo per riaprire i cuori»
di Chrysostomos Stamoulis
La questione della ‘stranierità’ Chrysostomos A. Stamoulis, docente di teologia dogmatica presso l’Università Aristotele di Salonicco, e Marcus Plested, professore di teologia presso la Marquette University di Milwaukee, di cui anticipiamo in questa pagina gli interventi, sono due dei relatori che da oggi a sabato interverranno al XXV Convegno internazionale di spiritualità ortodossa, organizzato dalla comunità monastica di Bose, sul tema. “Il dono dell’ospitalità”. Il convegno sarà aperto dalla prolusione di Sua Santità Bartholomeos I, patriarca ecumenico di Costantinopoli, “Accogliere l’umanità in una terra abitabile”, e di Sua Beatitudine Theodoros II patriarca greco-ortodosso di Alessandria e tutta l’Africa, “Discernere la benedizione dello straniero”. Seguirà la relazione di Enzo Bianchi sulla figura biblica dello straniero: “Ero straniero e mi avete accolto”. Tra i relatori il vescovo copto Epiphanios di San Macario, fr. Alois (priore di Taizé), Radu Bordeianu (Duquesne University), p. Elisseos (abate del monastero di Simonospetra sul Monte Athos), Fotios Ioannidis (Università Aristotele, Salonicco), p. Iustinos Sinaitis (Santa Caterina del Sinai)
Nella sua Poetica della musica il compositore russo Igor Stravinskij, annota che, se «l’antico peccato originale era essenzialmente un peccato di conoscenza, il nuovo peccato originale è anzitutto e soprattutto un peccato di non accoglienza».
E non c’è alcun dubbio che una tale constatazione ha applicazioni in tutti gli ambiti particolari della cultura globale. Viviamo in un’epoca in cui le evidenze del nostro modo di vita ( trópos) sono messe in dubbio, oltraggiate e alla fine crocifisse, o uccise altrimenti, da tutti coloro che hanno imparato a misurare il valore dell’esistenza con il metro della prosperità economica, del benessere individuale, ma specialmente e primariamente con il metro del settarismo sociale, che genera posizioni e comportamenti di esclusione comunitaria di qualunque diverso e di qualsivoglia diversità. Viviamo in un’epoca in cui l’importanza del “minimo” ha lasciato spazio alla futilità del molto. Respiriamo o cerchiamo di respirare all’interno di un modo di vita che ha ormai come esigenza l’apertura dell’esistenza agli elementi fondamentali, il ritorno a quella svolta in cui abbiamo perso la strada e ci siamo ritrovati senza vergogna né consapevolezza «in una terra lontana» (Lc 15,13), così da poter ricominciare di nuovo a metterci alla ricerca di quell’unica cosa, di quell’unica e sola cosa di cui abbiamo bisogno (cf. Lc 10,42). Così da rianimare, in altre parole, e ridare al nostro modo di vita il suo autentico volto personale ( prósopon): il volto di Maria, l’amica di Gesù, che è stato nascosto, come non doveva – e voglio credere che non sia stato distrutto – dalla “maschera” ( prosopeîon) dell’iperattività e per questo della multiframmentazione di Marta.
La fede continua ancora oggi a costituire un «fondamento di ciò che si spera» (Eb 11,1) e la Chiesa a essere quella realtà descritta da san Cirillo di Alessandria con una sola e unica parola, la parola pandocheîon(“ locanda”, “albergo”). Scrive in proposito il santo di Alessandria: «Cristo ci ha portati in se stesso, poiché noi siamo membra del suo corpo. Ma ci ha anche condotti a una locanda ( pandocheîon), e chiama “locanda” la Chiesa, la quale accoglie e contiene tutti in se stessa».
Ho l’impressione che questo piccolo brano di san Cirillo nasconda parole che hanno il potere di distruggere tutte le certezze che la “cultura del molto” ha imposto all’uomo dei tempi moderni, il quale a sua volta, perduto nell’edonismo di un amore autocentrato, ha perpetrato e continua a perpetrare l’errore di quello splendido angelo che per l’incapacità di comunicare e di lasciarsi amare, per l’incapacità di operare nel modo in cui opera il suo Creatore, si è trasformato completamente in esistenza chiusa, in principe delle tenebre, in principe di questo mondo. E tutti sappiamo che questo è il famoso e sventurato Lucifero.
Agli antipodi, dunque, di questo amore autocentrato, che comporta consapevoli e inconsapevoli esclusioni ontologiche, l’ortodossia, così come ce la rivela il testo dell’Alessandrino appena citato propone un modo di esistenza, che di fronte alla cultura del molto, di fronte ai fenomeni contemporanei delle superculture e delle culture esclusiviste diametralmente opposte – e ricordiamo qui il precetto giudaico: “l’Ammonita e il Moabita non entreranno nella comunità del Signore!” (Dt 23,4) – ha al proprio centro il mistero dell’umanizzazione di Cristo e la sua persona. Propone in altre parole una cultura dell’incarnazione, una cultura ecumenica, che ha le sue radici nel “minimo”, che risponde al doppio nome di “svuotamento” ( kénosis), ossia svuotamento di sé, e di assunzione dell’altro ( próslepsis), del totalmente diverso. È l’incontro con ciò che io non sono. In modo che possa diventare possibile la risposta affermativa al mistero della partecipazione alla casa comune di Dio Padre, che contiene e accoglie in sé tutti, tutte le creature del suo amore. E questo perché la partecipazione alla Chiesa, ovvero la comunione al corpo del Signore, non costituisce una conquista di chi è giustificato, puro e salvato ex officio, ma un dono di Dio creatore, concesso gratuitamente a giusti e ingiusti.
Senz’altro, dunque, e su un piano più pratico, la partecipazione al Regno presuppone il dare da mangiare all’affamato, il dare da bere all’assetato, il vestire l’ignudo, il curare il malato, il visitare il carcerato e certamente l’accoglienza dello straniero (cf. Mt 25,35-36). In ultima analisi, l’assunzione a proprio carico del minimo, del fratello più piccolo, servendo il quale si serve lo stesso Cristo. Leggiamo a questo proposito in Matteo: «E rispondendo il Re dirà loro: in verità vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli (minimi), l’avete fatto a me» (Mt 25,40).
in “Avvenire” del 6 settembre 2017
 
 
«Tutti i cristiani sono stranieri»
di Marcus Plested
Permettetemi di iniziare con un famoso passo di un’apologia del cristianesimo primitivo, l’A Diogneto, che trae spunto dal tema dell’estraneità formulato nella Lettera agli ebrei: «I cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per territorio, né per lingua, né per abiti… Abitano nella loro patria, ma come stranieri ( pároikoi); a tutto partecipano come cittadini e a tutto sottostanno come stranieri ( xénoi). Ogni terra straniera è patria per loro, ogni patria è terra straniera ( pása xéne patrís estin autôn, kaì pása patrís xéne)». Il tema della xenitéia – essere straniero, sentirsi straniero, farsi straniero – è una costante nella storia del cristianesimo. In quanto cristiani non siamo mai completamente “a casa” in questo mondo. Qui non abbiamo una città permanente; «la nostra cittadinanza è nei cieli», come ci ricorda l’apostolo Paolo (Fil 3,20). In un certo senso siamo tutti stranieri. Lo stesso nostro Signore nacque lontano dalla sua terra, trascorse alcuni anni come rifugiato in Egitto e non ebbe fissa dimora durante il suo ministero terreno: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Mt 8,20). Quando invia i suoi apostoli, il Signore insegna loro a imitare il suo stile di vita itinerante: «Non procuratevi oro né argento né denaro nelle vostre cinture, né sacca da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone» (Mt 10,9-10). Il tema della xenitéia ovviamente è molto vasto ed è intimamente e strutturalmente connesso al tema della philoxenía (amore per lo straniero). La tradizione ortodossa chiama tutti noi a essere e a sentirci stranieri, forestieri. Questo può comportare il trasferimento in una terra straniera o in un lontano deserto o su una montagna ma tale spostamento d’ordine fisico non è mai il punto reale o comunque l’unico. La xenitéia può essere vissuta ovunque, ad Atene, sul Monte Athos, a Milano o a Milwaukee. Siamo tutti chiamati a essere stranieri o forestieri là dove siamo, a renderci estranei dai vincoli materiali e ad adottare in ogni occasione la mentalità dello straniero. Non dobbiamo mai essere completamente, interamente su questa terra. Guardiamo piuttosto a una terra migliore, a quella celeste (cf. Eb 13,14). Ma è parimenti chiaro che non ci volgeremo a una terra migliore se ignoriamo i bisogni e le miserie di questa terra e, in particolare, i bisogni degli stranieri e dei forestieri che vivono in mezzo a noi. La xenitéia è stata e sempre sarà legata alla philoxenía, cioè all’amore per lo straniero. Possiamo mantenere i nostri pensieri sull’aldilà ma questo non ci porterà mai a disdegnare il qui e ora.
Quanto alla xenitéia, vorrei suggerire che il mondo moderno ha favorito la creazione di una dinamica assolutamente negativa di estraniamento. I modelli economici, lavorativi e agricoli del capitalismo moderno globalizzato servono tutti, in diversi modi, a incoraggiare la perdita delle radici e a indebolire i vincoli con la famiglia e la terra. La connettività del nostro mondo moderno, a mio avviso, è qualcosa di illusorio: Internet, in particolare, può fare di tutti noi degli stranieri. Sentimenti di isolamento e alienazione sono tristemente dilaganti nel mondo sviluppato. Molte persone hanno ben poco bisogno di ricordare che sono “straniere”, e non certo in senso positivo. Non è compito facile riscoprire e instillare un senso più positivo della xenitéia quale viene articolato nella tradizione cristiana ortodossa, e cioè xenitéia intesa come estraniamento dai vincoli materiali, assimilazione a Cristo, l’archetipo dello straniero, e pellegrinaggio verso la nostra vera patria. Forse però uno dei modi migliori per acquisire e accogliere questo senso positivo della xenitéia è proprio quello di farlo attraverso la philoxenía. Nessuno di noi ignora l’immensa richiesta di philoxenía da parte di rifugiati – si tratta di una crisi che ha sfidato in maniera particolarmente acuta l’Italia e la Grecia. Ma sia che parliamo di rifugiati o di monaci pellegrini, di senzatetto o di affamati, a tutti noi sono indubbiamente offerte ampie opportunità per esercitare la philoxenía. In quanto stranieri noi stessi, potremo ringraziare profondamente per ogni occasione che ci consente di mostrare amore per i nostri compagni stranieri.
in “Avvenire” del 6 settembre 2017