L’inizio di una nuova vita
L’inizio di una nuova vita corrisponde a un’irruzione di un “altro” nel proprio corpo, una presa di possesso che genera sentimenti ambivalenti di gioia e di paura. Le mille e mille anamnesi delle madri lo documentano. L’altro che prende possesso, con la forza tenace e fragile di un germoglio, sconcerta, smuove gli equilibri, richiede un’accoglienza senza condizioni. Solo così un evento biologico può trasformarsi nel dialogo intimo tra due persone, di cui, una non ancora nata e un’altra che scopre con stupore e spavento la sua nuova identità di mamma. Al concepimento del figlio non è estranea la dimensione del progetto da parte dei genitori e, a volte, anche di uno solo di essi. Dove, però, essa è predominante, si rischia di “progettare” il figlio a partire dai propri bisogni, con il rischio di piegarlo alle proprie esigenze. Anche nel corso della gravidanza, la tentazione di pro- gettare il bambino secondo i propri desideri può togliere spazio allo sviluppo di quell’identità originale e unica che il nascituro rappresenta, esponendosi ed esponendolo a delusioni e fraintendimenti. Anche di questo si trovano numerose tracce nei colloqui anamnestici.
 
La chiamata al bambino
Anche all’inizio della vita del bambino c’è una chiamata. Non è un caso che il primo organo di senso che si sviluppa nel feto siano le vescicole dell’orecchio. Che cosa sente il bambino prenatale?

Dallo sfondo del “basso continuo” dei rumori corporei ritmici si stacca il suono della voce materna. […] A differenza dei suoni corporei ritmici, che sono continui e impersonali, la voce materna, percepita dal bambino prenatale, è discontinua. La voce materna confronta il bambino prenatale, fin dal momento in cui egli è in grado di percepirla, con il principio dell’alterità, dell’altro con il quale è possibile entrare in relazione. Il bambino non solo la sente, ma l’ascolta attivamente e le risponde con i mezzi di cui dispone, ossia con un cambiamento del rit- mo cardiaco, testimone del suo stato di attenzione, e con un aumento dei movimenti durante i periodi di veglia” (1).
La “danza” del bambino che si sintonizza sul ritmo del “canto” della madre è la testimonianza di una sua attività mirata a realizzare un incontro, una protoforma di reciprocità, di ciò che Trevarthen descrive come confluenza dialogica:
“Questo termine sintetizza la dinamica relazionale, il doppio movimento di due esseri che si incontrano, attivi entrambi, senza tuttavia fondersi in un’unione indifferenziata, e mantenendo la possibilità di una reciprocità precisamente grazie alla loro capacità di rimanere due” (2):
Il canto della madre e la danza del bambino che inizia già nell’utero costituisce il prototipo di ogni esperienza di sintonizzazione che, dopo la nascita e nelle diverse fasi della crescita, si realizzerà con modalità nuove – preverbali e verbali – e verrà vissuta come esperienza di sintonizzazione affettiva, ossia di un essere-in-relazione del bambino con l’ambiente che lo circonda. La sintonizzazione, intesa nel senso più ampio, di andare al ritmo, di essere all’unisono o, come dice la lingua tedesca di essere stimming (Stimme = voce, sentimento), è alla base del sentimento di benessere e di appartenenza che fonda quel sentimento di “esserci” e di “essere insieme”, di cui parla Donald Winnicott. La carenza di questa esperienza genera, all’inverso, un sentimento di caduta, frammentazione, solitudine.

 
Il bambino debitore alla sua musica, al suo desiderio
Perché questo processo di sintonizzazione si realizzi è necessario che la madre (l’ambiente) non tradisca la vocazione del bambino a diventare se stesso e sappia ascoltare la sua musica:
Nella tradizione di un popolo africano, una donna che scopre di essere in attesa di un bambino esce dal villaggio, sola, raggiunge un certo albero, si siede ai suoi piedi e rimane lì fino a quando non sente dentro di sé una melodia. Allora ritorna al villaggio cantando quella che sarà la melodia del bambino. Prima ancora di avere un nome, egli avrà un canto. La melodia viene cantata dalla madre fino alla nascita. Durante il parto, cantata dalla comunità delle donne, essa accoglie il bambino. La melodia lo accompagnerà per tutta la vita e nei momenti più signi- ficativi della sua esistenza, dal rituale di iniziazione al matrimonio fino alla cerimonia funebre. Il canto del bambino africano è parte della sua identità fin dall’inizio della vita prenatale“(3).
Riconoscere la melodia propria di cui ogni bambino è portatore richiede all’ambiente capacità di attenzione e di ascolto.
Durante la vita del bambino molti saranno i momenti in cui questa musica sarà riconosciuta e troverà eco nelle buone cure della mamma. Ma potrà essere anche tradita, quando l’ambiente rimarrà sordo ai veri bisogni del bambino, perché troppo preoccupato, ansioso o catturato dalle proprie esigenze. Se, invece, la madre saprà ascoltare, imparerà anche a contenere e a filtrare, attraverso la sua mente, le sensazioni e le emozioni che invadono il piccolo, in questo modo le renderà “digeribili” e portatrici di senso. Il bambino non cerca il senso, ma gli viene dato da una persona che entra in rapporto con lui, che lo rispecchia. Nell’in- contro, nel rispecchiamento, si manifesta il senso del suo stesso esistere.
La madre sogna il suo bambino, gli da spazio e sponde e rispetta la sua spinta ad esistere, confermandolo nelle sue conquiste di autonomia. Questa accoglienza rende la persona responsabile di se stesso, degli altri e delle cose. Modulandosi secondo lo sviluppo cognitivo ed emotivo dell’individuo, apre l’IO al NOI e rende possibili comportamenti altruistici, di condivisione e di cura.

Le ricerche psicologiche attuali, sia di matrice cognitivista che psicodinamica, confermano, che il bambino ha la capacità di provare sentimenti empatici e di comportarsi in modo altruistico fin dalla prima infanzia.
Negli anni ’80 – ’90, un’equipe di ricercatori italiani (Rizzolatti, Gallesi ed altri) ha individuato le basi neurologiche dell’empatia nella presenza di “neuroni-specchio”.
Essi si attivano sia quando il soggetto compie un’azione sia quando la vede compiere da un altro: l’azione osservata viene in qualche modo riconosciuta come propria.
I neuroni-specchio (“mirror neurons”) permettono di comprendere le azioni osservate e anche di imitarle. Esiste, dunque, un legame empatico tra noi e gli altri, un sistema di scambi, an- che a livello neurologico, che potrebbe essere alla base del com- portamento altruistico e quindi costituire il presupposto biologico del comportamento etico. Scrive Rizzolatti:
Il sistema dei neuroni specchio appare così decisivo per l’insorgere di quel terreno d’esperienza comune che è all’origine della nostra capacità di agire come soggetti non soltanto individuali ma anche e soprattutto sociali. Forme più o meno complicate di imitazione, di apprendimento, di comunicazione gestuale e addirittura verbale trovano, infatti, un riscontro puntuale nell’attivazione di specifici circuiti specchio. Non solo: la nostra stessa possibilità di cogliere le reazioni emotive degli altri è correlata a un determinato insieme di aree caratterizzate da proprietà specchio. Al pari delle azioni, anche le emozioni risultano immediatamente condivise: la percezione del dolore o del disgusto altrui attivano le stesse aree della corteccia cerebrale che sono coinvolte quando siamo noi a provare dolore o disgusto” (4).

Rispecchiare le emozioni dell’altro e sentirsi rispecchiato deve condurre alla scoperta – fondamentale per l’agire sociale – della individualità propria e dell’altra persona.
Nel campo della psicologia dello sviluppo si parla ormai da trent’anni delle teorie della mente26 cioè della capacità del bambino di attribuire stati mentali a sé e agli altri. Normalmente all’età di tre-quattro anni, il bambino comincia a intuire che l’altro ha una mente propria con pensieri e desideri personali che possono essere diversi dai suoi. Questa abilità gli permette di dare significato al comportamento dell’altro e in qualche modo di prevederlo. Riconoscere l’altro come portatore di un suo pensiero, di desideri ed emozioni è condizione indispensabile per entrare in rapporto con lui, distinguendosi da lui: quindi da una parte il cervello risponde come un diapason all’altro, che viene, però, avvertito sempre di più come un’individualità. Entrare in un rapporto empatico senza confondersi è il presupposto dell’interazione sociale.
Tutto ciò ci fa comprendere che il comportamento etico che sembra dipendere solo dalla conoscenza dei valori e dalla volontà di realizzarli ha precise basi neurofisiologiche e psicologiche e dipende dalla maturazione delle varie componenti della persona, maturazione che avviene secondo tappe e ritmi ben precisi ed è promossa e stimolata dall’azione educativa.
 

NOTE

  1. S. MAIELLO, Dialoghi ante litteram. Note sugli elementi ritmici e sonori del linguag- gio e della comunicazione verbale, Richard & Piggle, 27 (2011) 3, p. 250.
  2. Ibid., p.252.
  3. Ibid.
  4. G. RIZZOLATTI – C. SINIGAGLIA, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Raffaello Cortina Editore, Milano 2006, p. 4.

F.Kannhaiser, Esplorare i paesaggi interiori, in R.Romio (a cura), Educare alla vita, Elledici, Torino 202o, pp. 107-11o