Il pluralismo viene spesso percepito come una minaccia alla fede perché associato al relativismo e a una perdita di substrato religioso. Io ho una posizione opposta. A me pare che il pluralismo sia positivo per la fede.
Quando iniziai la mia carriera come sociologo della religione operavo, così come ciascuno in questo campo, dentro la teoria della cosiddetta secolarizzazione. Noi pensavamo che modernità significasse invariabilmente declino della religione. Mi ci sono voluti più di vent’anni per concludere che questa teoria non era empiricamente verificata. Il mondo oggi è religioso come mai lo è stato, in certi posti più che mai (vi sono delle eccezioni, in particolare l’Europa occidentale e quella che è chiamata intellighenzia occidentale, ma queste situazioni devono, e possono, essere spiegate). Noi non viviamo in un’età secolare; noi viviamo in un’età pluralista, che ha implicazioni importanti per la religione, ma diverse da quelle dell’età secolare. Quello che caratterizza la situazione di oggi è che il pluralismo (non sempre protetto dalla libertà religiosa) è diventato globalizzato.
Molti cristiani sono entusiasti della crescita globale del cristianesimo nell’ultimo secolo. Ma sono inclini a deplorare la situazione del crescente pluralismo in quelle che erano società cristiane uniformi. Essi gradiscono la possibilità di chiese domestiche in Cina, ma sono contrari alla costruzione di moschee in Olanda. È una reazione errata, che sbaglia nel riconoscere i benefici religiosi del pluralismo.
Primo beneficio: diventa più difficile dare per acquisita una tradizione religiosa. Sono necessari atti di decisione. Noi siamo animali sociali e così, se ciascuno intorno a me è d’accordo su qualcosa, io condividerò molto volentieri questa posizione. Il pluralismo rende invece questo genere di consenso molto raro. Questo stato di cose – la perdita della certezza – dà certamente fastidio. Ma penso sia cosa buona se consideriamo un assenso deliberato e riflettuto come parte integrante di una fede autentica. Penso che sia meglio che le condizioni sociali ci incoraggino a decidere sulla fede piuttosto che vivere tra le circostanze che ci “danno” la fede, il che renderebbe la nostra identità religiosa simile al nostro colore dei capelli o alle nostre allergie piuttosto che una qualità pienamente personale che nasce dal nostro libero assenso. Noi possiamo vedere come il pluralismo approfondisce questa fiducia, perché scalza le false rassicurazioni approntate da un consenso sociale uniforme.
Secondo beneficio: la libertà è un grande dono e il pluralismo inaugura nuove aree di libertà. Il pluralismo fa prendere il largo agli individui verso nuove decisioni, cosa che è un bene in sé. La Dichiarazione sulla libertà religiosa del Concilio Vaticano II, la Dignitatis humanae, lo definisce molto bene: la libertà religiosa è un diritto fondamentale radicato nella dignità umana. Essa riguarda non solo il diritto dei cattolici a proclamare la loro fede, ma quello di tutte le persone a seguire la loro fede o a non avere alcun credo. La dignità, la fede e la libertà sono profondamente legate. L’esercizio della libertà non è sempre facile. L’omogeneità religiosa certamente rende la fede più facile.
Terzo beneficio: se il pluralismo viene unito alla libertà religiosa, tutte le istituzioni religiose diventano di fatto associazioni volontarie. Questo cambia la relazione tra clero e laici, la relazione tra le Chiese, e tra queste e lo Stato. Il laicato guadagna potere, anche all’interno delle Chiese gerarchiche, e questo agisce sulla vitalità religiosa. Chiese diverse, private del potere coercitivo come monopoli religiosi sponsorizzati dallo Stato, diventano competitori pacifici; questo crea una sorta di mercato religioso (sebbene non si debba esagerare l’applicabilità di questi concetti derivati dall’economia). E lo Stato, religiosamente neutrale anche se è ancora simbolicamente legato a una specifica tradizione, può servire come arbitro imparziale. Questo rafforza la cultura democratica e incoraggia differenti comunità religiose a diventare pienamente partecipi della vita pubblica.
Quarto beneficio: il pluralismo influenza credenti singoli e comunità religiose a distinguere tra il nucleo della fede e gli elementi meno centrali. Inevitabilmente l’interazione con quelli che hanno condizioni religiose diverse, specialmente laddove condividiamo un discorso secolare comune, relativizza la mia fede. Io definisco questo processo “contaminazione cognitiva”. Esso mi porta a entrare in un processo di contrattazione: posso arrivare a non ritenere essenziali alcuni degli elementi della mia fede, mentre il nucleo rimane non negoziabile. Il pluralismo mi costringe a discernere cosa veramente sta al cuore della mia fede, liberandomi dalle false enfasi su quanto è meno decisivo. Dovremmo apprezzare il modo in cui il pluralismo ci può portare a quello che, alla fin fine, veramente interessa di più per la nostra fede.
Berger Siamo pluralisti, grazie a Dio, di Peter L. Berger, in “Avvenire” del 14 settembre 2016