La riflessione pedagogica non può fare a meno, in quest’ora, di fare i conti con una serie di cambiamenti socio-culturali, che, dopo la pandemia, cominciano a fare sentire i loro effetti a livello antropologico. Si sta assistendo ad una liquefazione di granitiche certezze esistenziali che sarebbe controproducente, quando non assurdo, non tenere in considerazione attraverso una speculazione razionale, tesa a far emergere la caducità di rilevanti esperienze, forse fino a questo momento scarsamente problematizzate. Il tema della globalizzazione è stato, senz’altro oggetto di numerosissime indagini socio-economiche, ma raramente ne sono stati indagati i risvolti relativi alla profondità dell’essere persona e dell’essere costitutivamente in relazione con il creato da un punto di vista della filosofia dell’educazione.
In questa sede si tenterà di offrire una riflessione sulla questione, offrendo una breve disanima sulla necessità di ritornare a ripensare l’essenziale per riscoprire la necessità di ripartire da ciò che si offre all’esperienza umana come immediato: la bellezza, frammento dell’eterno nella caducità del tempo. A partire dalla riscoperta del bello anche la globalizzazione può assumere nuovi connotati e cessare di essere un costrutto appannaggio delle logiche economiche per diventare oggetto di un’educazione capace di valorizzare, nell’intreccio delle relazioni, il valore infinito dell’essere persona e della sua eccedenza trascendente.
«Alla fine di febbraio 2020, quel virus dal nome ridondante “corona virus”, che si sapeva avesse colpito una popolosa regione della Cina e che sembrava così distante da noi, ha fatto irruzione in Italia, nel cuore del vecchio continente. Da quei giorni, l’occidente è entrato in un vortice di sofferenza e paura che, in poche settimane, ha fatto crollare le granitiche certezze antropologiche e gnoseologiche che erano diventate il codice genetico del patrimonio culturale dell’uomo contemporaneo. In pochi giorni l’umanità si è ritrovata in uno stato emotivo, cognitivo e comportamentale di difficile definizione e comprensione. Ora dopo ora, veniva coniato un nuovo vocabolario per identificare i vissuti di un’umanità costretta a fare i conti con la propria costitutiva fragilità. Il “corona virus” è diventato il problema globale. Miliardi di soggettività hanno fatto i conti con il proprio vissuto psicologico. È stato un confronto nuovo con la paura di essere davvero quel che si è: creature fragili in cammino verso l’eternità.
Chiusa nelle proprie abitazioni per circa due mesi, l’umanità contemporanea ha realizzato che il cambiamento portato dall’epidemia nelle vite degli abitanti del villaggio globale è stato dirompente, repentino e capace di lasciare segni indelebili nell’intelligenza e nel cuore di tutti.
Le conseguenze immediatamente visibili della pandemia sono stati i cambiamenti inaspettati nello stile di vita, che, in fase di piena emergenza, ha cominciato a mutare radicalmente.  Una situazione dai connotati estremamente negativi, i cui risvolti non sono ancora compresi del tutto, ma che tuttavia potrebbe essere un’occasione per immaginare reazioni resilienti nell’oggi e prospettive positive per il domani.
Si è intravisto la possibilità di mettere in discussione quel modus vivendi, che nelle società occidentali è stato ritenuto, fino a ieri, scontato e normale, ma che, ora, mostra tutta la sua precaria inconsistenza. Quando l’emergenza sarà conclusa, non sarà possibile un “ritorno al futuro” prospettato fino a qualche mese prima dell’irrompere del covid-19: la quotidianità subirà modifiche importanti, non solo nel vivere l’ordinarietà dello scorrere del tempo, ma anche nel prendere una coscienza nuova e condivisa circa l’esistenza e l’esistente.
La pandemia ha seminato sofferenza e morte, ma può anche aver posto in essere le premesse di una nuova vita. La più illustre vittima della pandemia credo che possa essere identificata nel crepuscolo del senso di onnipotenza che ha dominato l’uomo postmoderno, ovvero la sua convinzione, fondata sulla chimerica idea che lo sviluppo economico e tecnologico non potessero avere limiti. Per troppo tempo si è ritenuto erroneamente che lo sviluppo, avvolto da un’egida utilitaristica e tecnocratica, potesse travalicare qualsiasi limite. Proprio questo pensiero distorto dall’onnipotenza è stato piegato dalla realtà, che ha messo in luce quelle fragilità che non è dato superare, non per una sorta di asfittico imperativo categorico, ma perché il limite è intrinsecamente embricato in tutto ciò che è soggetto al divenire.
La Storia può aiutarci a rileggere la nuova situazione di vita che il covid-19 ha portato nel nostro tempo: i momenti emergenziali e di ricostruzione hanno sempre offerto, accanto a effetti tragici e drammatici, possibilità inaspettate di rinascite umane culturali e spirituali.  Proprio quando la quotidianità e le sue certezze accidentali, che non riguardano cioè la sostanza delle cose, ma si limitano ad essere accessorie, crollano, l’uomo tende a riscoprire l’essenziale. Questa pericolosa quanto inattesa epidemia, pur nella sua drammatica fenomenologia, richiama il genere umano a ciò che davvero conta e che, troppe volte, gli uomini e le donne nel nostro tempo hanno dimenticato: l’essenziale.
In che cosa potrebbe consistere la riscoperta dell’essenziale? Riscoprire l’essenziale potrebbe voler dire incontrare la realtà dove si è e riscoprire la bellezza del dono dell’esistenza, un dono, che merita di essere riletto e compreso. Tutto questo è possibile grazie alla capacità umana di contemplare e problematizzare tutti quegli aspetti apparentemente semplici dell’esperienza sensibile, che la frenesia dell’uomo contemporaneo stava rischiando di non cogliere più.
In quest’ora in cui tutto galleggia nel mare incerto del “forse”, che rende certamente le esistenze costrette a misurarsi con la precarietà e con il conseguente avvertire, spesso in modo insopportabile, la difficoltà di trovare punti fermi su cui reperire certezze, può emergere la consolazione del sapere che è possibile ritrovare il bandolo della matassa, ovvero ciò che sostiene l’essere persona umana: il pensiero.
Occorre riscoprire un pensiero meditante impastato di gratuità, che il mondo contemporaneo aveva messo da parte. Il pensiero globalizzato finalizzato all’utile aveva lasciato a pochi soggetti, troppo spesso guardati con sospetto e marginalizzati con l’etichetta di utopisti, la possibilità di gustare la bellezza di ricercare il senso dell’esistente, senza altro scopo se non la gioia della contemplazione in se stessa, che gusta la bellezza di ciò che è.
Ciascun individuo è stato interpellato nel profondo dall’esperienza funesta del covid-19. Nella vicissitudine dell’isolamento e dei nuovi stili di vita che si sono necessariamente imposti, l’uomo ha innanzi a sé la possibilità di riappropriarsi in pieno della propria umanità, ovvero di quella comune densità ontologica che lo rende un’entità unica e irripetibile nella propria irrevocabile dignità di persona. Questa coscienza permette una rilettura dei fenomeni che hanno caratterizzato il nostro tempo appiattendo il pensiero, non in ultimo la globalizzazione, che pareva aver livellato la bellezza delle differenze.
La globalizzazione, oggetto di tante discussioni e riflessioni, ha messo in luce ora, il rovescio della medaglia che ne costituisce l’essenza; un rovescio che non era mai apparso, in quanto tenuto lontano dalla vista comune dagli interessi economici, che hanno reso globali le logiche malate del denaro e hanno dimenticato l’umano. Se esiste un villaggio globale non è perché per molto tempo sono venuti meno i confini spazio temporali, ma perché esiste un’umanità che condivide le fragilità e le potenzialità che ogni soggetto porta con sé in quel cammino meraviglioso, bello e impegnativo che si chiama vita.
Dopo la pandemia e suoi nefasti esiti fatti di vite interrotte e affetti spezzati, il terreno comune su cui tutti gli esseri umani avranno la possibilità di incontrarsi non saranno né i mercati né la realtà virtuale, ma ciò per cui ciascuna persona “è” nell’unicità del suo esserci nel mondo, ovvero, un’esistenza pensata e condivisa. Il pensiero, infatti, è che ci distingue da ogni altro ente in natura. Il pensare è ciò che conduce a valicare la porta del limite, attraverso cui la sofferenza ha obbligato tutti a passare, per riscoprire, al di là del varco, la gioia autentica che permea di sé l’esistente: la bellezza»[1].
 
 
[1] L. Raspi, Rimettersi in gioco con la bellezza. In cammino con sant’Agostino al tempo del covid-19, San Lorenzo, Reggio Emila, 2020.