1. Lo dice una ricerca
Una ampia ricerca, anzi, come viene definita, metaricerca (meta-analysis), perché condotta sui risultati di trenta studi pubblicati negli ultimi quindici anni, dimostra che gli insegnanti con una consistente anzianità di servizio nell’insegnamento della stessa materia e nella stessa scuola (o distretto) ottengono risultati migliori di quelli conseguiti dai loro colleghi più giovani e con limitata esperienza.
A questa conclusione pervengono due ricercatrici americane, Tara Kini e Anne Podolsky, in un saggio intitolato Does Teaching Experience Increase Teacher Effectiveness? A Review of the Research (Palo Alto: Learning Policy Institute, 2016), citato dalla rubrica settimanale online Worth A Read, pubblicata dal ‘Great Lakes Center for Education Research and Practice’(GLC), organizzazione non profit situata a East Lansing, nello Stato del Michigan, in contatto con tutti i più importanti centri di ricerca educativa americani.
La tesi sostenuta nel saggio si fonda su una nutrita serie di dati statistici, riguardanti per la maggior parte i risultati ottenuti dagli studenti nei test di apprendimento (i cosiddetti BST, Big Standardized Test), cosa che, secondo i recensori di Worth A Read, costituisce un limite della ricerca perché “i BST non costituiscono una misura del grado di apprendimento dello studente, ma solo della loro capacità di superare questo tipo di test”.
Ciò premesso la citata metaricerca evidenzia comunque questi risultati:
gli studenti che ottengono i migliori risultati nelle materie testate (in genere lettura, matematica, scienze, come in PISA) sono quelli che hanno gli insegnanti meno giovani, con almeno 15-20 anni di esperienza;
gli insegnanti migliorano più rapidamente l’efficacia della loro didattica (misurata sempre sulla base dell’esito dei BST) nel loro primo decennio di insegnamento, ma il miglioramento prosegue nel secondo decennio, e cresce, sia pure più lentamente, anche dopo;
anche altri indicatori non cognitivi (la frequenza a scuola, la disciplina, l’impegno nei compiti a casa, la lettura di libri non scolastici) danno risultati migliori in rapporto con l’esperienza del docente;
i risultati degli studenti migliorano quando tra i docenti c’è collaborazione, e non competizione;
gli insegnanti più giovani ottengono più rapidamente risultati migliori (sempre misurati con i BST) se collaborano con colleghi più anziani.
Gli esperti del GLC, pur ribadendo le loro critiche verso l’uso/abuso dei BST, ritengono che l’insieme di questi dati offra indicazioni precise ai decisori politici e ai responsabili della conduzione delle scuole: gli insegnanti anziani vanno rivalutati. Perché, scherza uno dei commentatori, gli insegnanti sono come il vino, invecchiando migliorano.
 
2. Quanto conta l’esperienza in Italia?
I tre principali consigli che gli esperti americani della GLC offrono ai decisori politico-amministrativi si possono così riassumere:
– incrementare e incentivare la stabilità dei docenti;
– favorire un clima di collaborazione tra i docenti;
– inviare gli insegnanti più esperti nelle classi più difficili non solo per ragioni pedagogiche ed economiche, ma anche perché rispondenti a un principio di equità.
Sarebbe questa una ricetta esportabile nel nostro Paese?
Difficile rispondere alla domanda perché in Italia, per varie ragioni, non si dispone di una massa di dati nemmeno lontanamente paragonabile a quella su cui hanno lavorato i ricercatori americani negli ultimi 15 anni. I vari test PISA, IEA e Invalsi offrono qualche indicazione di carattere quantitativo sui risultati ottenuti dagli studenti, non correlabili però alle caratteristiche dei loro docenti (età, anzianità di servizio, permanenza nella sede, stile di lavoro più o meno collaborativo, formazione in servizio…).
Qualche dato si potrebbe ricavare, per la verità, dai questionari insegnanti utilizzati dall’Invalsi in diverse occasioni se essi non fossero protetti dall’anonimato, dalle norme italiane sulla privacy e dall’esplicita ostilità dei sindacati e di molti docenti verso qualunque ipotesi di correlazione tra i risultati raggiunti dagli studenti nei test standardizzati e la prestazione di lavoro dei loro insegnanti.
Certo, il problema si porrà presto (si sta già ponendo) quando i Comitati di valutazione dovranno definire i criteri per l’assegnazione del bonus per il merito ai docenti e i dirigenti scolastici saranno chiamati ad applicarli, sia pure non meccanicamente: la soluzione ‘americana’, almeno quella consigliata dal think tank GLC, spingerebbe a privilegiare l’anzianità di servizio e a penalizzare i giovani, ma apparirebbe antimeritocratica e un po’ in controtendenza rispetto allo spazio che la 107 (comma 129) assegna ai risultati e ai ruoli organizzativi innovativi a prescindere dall’età o dall’esperienza dei docenti. Una bella gatta da pelare per tutti: sindacati, ministero/ministro in sede di implementazione della norma e dirigenti scolastici, che rischiano di trovarsi con il cerino in mano.
Tutti temi che meritano una ampia e pubblica discussione, cui Tuttoscuola si impegna a dare la massima visibilità.
 
3. Il dibattito in Italia
La ricerca americana “L’esperienza di insegnamento aumenta l’efficacia dell’insegnante?” riapre in Italia un antico dibattito sull’incidenza dell’anzianità dei docenti sulla qualità professionale.
La struttura stipendiale degli insegnanti italiani, caratterizzata dai gradoni, ha da sempre premiato l’anzianità come riconoscimento professionale. Eppure il ringiovanimento della classe docente attraverso il nuovo concorso sembra essere considerato – Miur in testa – sinonimo di qualità professionale e di riqualificazione del sistema. Anche nella scuola, si fa largo la logica della rottamazione?
Non vi è dubbio che la prolungata assenza di concorsi che ha colpito la scuola italiana, in mancanza di ricambio generazionale, ha contribuito, complice anche la riforma pensionistica, ad invecchiare la classe docente, la cui età media ormai sfiora i 52 anni.
Ma l’anzianità nella scuola è sempre una ricchezza che va valorizzata e, anzi, deve servire a trascinare le nuove generazioni verso un diffuso incremento qualitativo dell’offerta formativa. Certo un insegnante esperto che abbia costruito la propria carriera sulla motivazione e sull’aggiornamento professionale può dare un apporto ben diverso da chi ha vivacchiato sulla base di quanto studiato venti, trenta o più anni fa.
Più che parlare di ricambio generazionale crediamo sia logico e auspicabile parlare di incontro generazionale, un mix che può aiutare a coniugare esperienza con nuove competenze.
Non è ozioso un dibattito su questa questione. L’esperienza professionale connessa con l’età è una risorsa per la scuola? O è un ostacolo nel rapporto con gli studenti “millennials”?
Questi interrogativi valgono in tutti gli ordini di scuola dall’infanzia alle superiori?
Chiediamo a voi, in particolare ai genitori, ai dirigenti scolastici e agli stessi docenti di esprimere la vostra valutazione. Scrivete a tuttoscuola@tuttoscuola.com o sulla nostra pagina Facebook https://www.facebook.com/tuttoscuola.
 
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