Il Poverello è un bestseller
di Gianfranco Ravasi

«Francesco, il mio santo preferito. Ho scritto quattro commedie su di lui. L’ho dipinto mille volte. Ma non sono mai sazio». Questa confessione di Fo nel suo dialogo Dario e Dio, realizzato da Giuseppina Manin, esprime un sentimento molto diffuso tra credenti, non credenti e diversamente credenti. Naturalmente l’arrivo di un papa di nome Francesco ha rinvigorito questa passione e la bibliografia incessante sul santo di Assisi attesta che non si è mai sazi – per usare la locuzione di Fo – di scoprire angoli remoti dell’anima e della storia di un personaggio già alonato di luce pochi anni dopo la sua morte avvenuta al tramonto di sabato 3 ottobre 1226, come testimonia Dante nel canto XI del Paradiso.
Pescando nella bibliografia di questi ultimi mesi, ci imbattiamo in una serie variegata di testi, in particolare quelli pubblicati dalle Edizioni Biblioteca Francescana che ha la sua sede nel convento di una delle chiese più care ai milanesi, S. Angelo, una delle principali testimonianze dell’architettura lombarda del Cinquecento, abbellita da un imponente apparato pittorico e scultoreo. Quel convento, elaborato da Giovanni Muzio negli anni ’30-’40 del secolo scorso, è stato la sede di un importante centro culturale, l’“Angelicum”, con un teatro e persino un’orchestra, con spazi espositivi, strutture caritative e appunto una ricca Biblioteca Francescana. Alle sue edizioni dobbiamo anche la fondamentale raccolta delle Fonti Francescane, apparsa per la prima volta nel 1977 e ripetutamente rivisitata e riedita fino al 2011.
Ora, invece, ci vengono presentate varie opere “francescane”: iniziamo col saggio di uno dei maggiori studiosi di Francesco, Jacques Dalarun, dedicato al capolavoro (a livello letterario e popolare) del santo di Assisi, il Cantico di frate Sole, tenendo come riferimento testuale il fondamentale manoscritto assisiano 338.
Dopo aver affrontato le coordinate generali (autore, genesi, tradizione), lo studioso – autore, tra l’altro, di un monumentale François d’Assise (2010) in due tomi che totalizzano 3418 pagine – tratteggia una sorta di trittico, scandito da altrettanti atti, delineando così la struttura letteraria e tematica dell’inno. Siamo per questa via condotti per mano nelle meraviglie di un canto di «laude, gloria, honore, benedictione», attraverso panorami che non sono da contemplare romanticamente perché sono veri e propri simboli mistico-teologici. Al riguardo, Dalarun è tranchant nell’impedire un’ermeneutica troppo “ecologista”: «Francesco non venera la natura: celebra la creazione… Non è un ammiratore estasiato della natura… Francesco è tanto poco vegetariano quanto poco è ecologista». Effettivamente anche la Laudato si’ di papa Francesco, pur rimandando alle questioni ecologiche, lo fa nella prospettiva biblica della custodia del creato e in chiave teologica e morale. Lo splendido apparato iconografico che intarsia ogni pagina di questo saggio, l’appassionata premessa di Attilio Bartoli Langeli e soprattutto l’intensa esegesi di Dalarun permettono al lettore di ritrovare la lunghezza d’onda corretta per essere in sintonia con Francesco, che «non era un sognatore» ma uno straordinario testimone nel quale bellezza e miseria, stupore e realismo, canto e orazione si fondevano in una trama unitaria, segnata dal basso continuo della fede alta e pura. Basti solo riascoltare, ad esempio, il sospiro della sua Preghiera davanti al Crocifisso, considerata il testo più antico del santo, composta forse nel gennaio 1206 quando, entrato nella chiesa di San Damiano, avvenne la sua “conversione”: «O alto e glorioso Dio, illumina le tenebre de lo core mio, e dammi fede diritta, speranza certa e caritade perfetta, senno e cognoscimento, Signore, che faccia lo tuo santo e verace comandamento. Amen».
Lo stesso Jacques Dalarun ci presenta in un altro volume un’avventura da lui vissuta. Nel 2014 dal Vermont un amico gli segnalava un antico manoscritto messo all’asta contenente una biografia di s. Francesco: a un primo spoglio condotto sulle riproduzioni on-line quel codice – che conteneva altri testi nei suoi 122 fogli di pergamena copiati nel decennio 1230-40 ad uso dei Frati Minori – rivelava un rimaneggiamento abbreviato di una delle fonti capitali per la conoscenza della storia del santo, la Vita del beato Francesco di Tommaso da Celano, composta su committenza del ministro generale dei francescani, quel frate Elia tanto caro al santo. Siamo, quindi, di fronte a un’opera connessa direttamente con quella sorgente e ora, accompagnati sempre dallo studioso francese che aveva fatto acquisire il codice alla Biblioteca Nazionale di Parigi, possiamo leggere questa che è da lui significativamente intitolata La Vita ritrovata del beatissimo Francesco.
Nell’immaginario popolare Francesco è affidato soprattutto ai bozzetti vivaci e pittoreschi dei Fioretti, versione in volgare di un originale latino più ampio attribuito a un certo Ugolino Boniscambi da Montegiorgio. In realtà i 53 capitoli in cui è suddivisa l’opera, che abbraccia un arco temporale di oltre 110 anni, estendendosi quindi ai compagni del santo e ad altri frati, sono segnati da una chiara impronta spirituale che purifica il prodigioso che talora occhieggia nei racconti. Il tema dominante è, infatti, la sequela di Cristo: Francesco, «vivendo in questa miserabile vita, con tutto il suo isforzo s’ingegnava di seguitare Cristo, perfetto maestro» (c. 25), così che egli visse sempre in modo da «conformarsi perfettamente a Cristo in ogni cosa» (c. 13). A scoprire proprio il volto autentico di s. Francesco così come affiora da queste narrazioni, ove gli uomini si trasfigurano divenendo celesti e gli angeli s’incarnano facendosi terrestri, è dedicata la «lettura francescana dei Fioretti» delineata da Daniele Soavi che, in apertura, segnala anche l’incessante incanto generato da queste pagine nei secoli successivi fino ai nostri giorni (chi non ricorda il Francesco giullare di Dio di Rossellini o Uccellacci e uccellini di Pasolini o l’album L’infinitamente piccolo di Branduardi?). Ritrovare l’atmosfera spirituale, oltre il meraviglioso, la carica di speranza, il primato del bene sul male, il paradiso possibile contro l’inferno esorcizzato, il contagio della santità superiore a quello del peccato, la fiducia in Dio oltre la disperazione, il Dio padre paziente e persino lebbroso con noi oltre l’onnipotenza trascendente, sono alcune linee di lettura dei Fioretti, lungo le quali veniamo guidati pagina dopo pagina. Sempre, però, brilla l’icona del santo del quale, in finale, dobbiamo segnalare la nuova presentazione della famosa Vita di san Francesco d’Assisi che il calvinista francese Paul Sabatier (1858-1928) pubblicò nel 1893 e che fu destinata a un successo clamoroso (Tolstoj la tradusse in russo). Legato ad Assisi della quale divenne anche cittadino onorario, questo storico, fondatore di una Società internazionale di studi francescani, volle ricomporre il profilo genuino di Francesco risalendo il più possibile alle fonti e liberandolo dalle incrostazioni devozionali. Ne nacque un ritratto certamente più spoglio, ancorato alla matrice evangelica che ne irradiava i lineamenti, ma anche avvolto da nuove vesti, quelle dell’oppositore fermo alle pretese papali ma anche dell’ingenuo carismatico tradito dai suoi stessi confratelli, appassionato assertore del primato della coscienza. L’opera – sottoposta a varie critiche – rimane, comunque, attraente e mostra quanto Francesco varchi con la sua presenza di luce i confini della sua cultura e della sua stessa storicità e spiritualità, proprio come testimoniava Dario Fo.
Delle Edizioni Biblioteca Francescana di Milano (www.bibliotecafrancescana.it):
Jacques Dalarun, Il Cantico di frate Sole , introduzione di Attilio Bartoli Langeli, pagg. 121, € 16. Jacques Dalarun, La Vita ritrovata del beatissimo Francesco , pagg. 164, € 10.
Daniele Salvi, Uomini celesti e angeli terrestri. Una lettura francescana dei Fioretti , pagg. 143, € 11
Si veda anche: Paul Sabatier, Vita di san Francesco d’Assisi , prefazione di André Vauchez e Grado Giovanni Merlo, Castelvecchi, Roma, pagg. 364, € 25
in “Il Sole 24 Ore” del 2 ottobre 2016
 
 
Ed Elia puntò all’Ordine
di Goffredo Fofi
Quanti sono i film ispirati alla figura di Francesco d’Assisi, dal muto in avanti? Almeno una dozzina, e nessuno memorabile a parte il Francesco giullare di Dio di Roberto Rossellini, ispirato bensì ai Fioretti e non alla storia. Tutto il resto è banale agiografia, escluse le forzature irrisolte dei due Francesco della Cavani, che di quel precedente tenevano conto ma volendo distinguersene per una lettura del personaggio ogni volta più estrema, attualizzata, ma non lontana nel primo caso (1966), quello più sincero, dell’insegnamento di Pasolini. D’altronde lo stesso Pasolini tentò il suo “fioretto”, nello stesso anno ’66, con l’episodio del frate Totò che predica ad Uccellacci e uccellini.
Il Francesco rosselliniano (1950, scritto con Fellini, che ebbe molto da apprenderne) era diviso in episodi, e uno di essi, quello con Aldo Fabrizi grottesco e rozzo condottiero conquistato dall’ostinata nonviolenza di fra’ Ginepro, rimane tra le più forti immagini del Medio Evo che il cinema abbia saputo suggerire (si può rimproverare oggi a quel film solo un mediocre uso del doppiaggio). Rossellini non pretendeva affatto a una lettura storica del francescanesimo e del suo ispiratore, ma a un’adesione intima e convinta allo spirito dei Fioretti, che, secondo i canoni della modernità, tutto potevano dirsi fuorché realistici, pensati e nati nello spirito di una religiosità popolare e contadina, tra leggenda ed esempio.
Come si colloca Il sogno di Francesco di Renaud Fély e Arnaud Louvet nella storia, diciamo così, del cinema francescano? Rifiuta il candore rosselliniano-felliniano-pasoliniano, la tensione cavaniana, ma anche l’agiografia “saint-sulpicienne” alla Zeffirelli e l’enfasi dannunziana del cinema muto, e si accuccia soddisfatto nella logica tra didascalica e attualizzante delle versioni televisive e del loro linguaggio, più leccato che ispirato. Il buon uso che gli autori – un regista e il suo produttore, evidentemente insoddisfatto del suo ruolo – fanno del cinemascope e dello spazio avrebbe richiesto, per esempio, un uso non abituale del colore e del commento musicale, e una lodevole ed economica essenzialità nella scelta degli ambienti (colline boschive, mura e chiese medievali – le pietre come unico reperto d’epoca, come unica autenticità?) avrebbe meritato una immediatezza e semplicità anche dei costumi e una scelta dei volti e dei corpi non così “nostra”, irrimediabilmente segnati dall’appartenenza a questa nostra epoca, agli anni duemila.
E la sceneggiatura, la “story”?
Sulla fondazione e la storia dell’ordine francescano e quella travagliata della sua regola, scritta da Francesco e modificata per volere del papa, si è scritto tantissimo, e si è anche tanto ricamato, tirandola spesso da una parte o dall’altra (o attualizzandola) a seconda della visione del francescanesimo che premeva agli studiosi affermare anche in rapporto, secondo quelli di appartenenza protestante, alla storia di una Riforma ancora lontana dal venire. E si è individuato nella figura di frate Elia colui che ha premuto e fatto di più per una regolarizzazione dell’ordine, per renderlo accettabile alla gerarchia ecclesiale, per farlo uscire, per dirla in termini politici, dalla spontaneità all’organizzazione. E sì, c’è anche stato chi ha fatto paragoni forzati, e ridicoli, tra Francesco ed Elia da una parte e, mettiamo, Lenin e Stalin dall’altro, come due poli di un’esperienza storica che si ripete, tra novatori rivoluzionari e normalizzatori burocratici o peggio. La scelta di Fély e Louvet non è stata così drastica ma più saggia e mediana, e la contrapposizione tra Francesco ed Elia è nel loro film una sorta di gioco delle parti necessario tra le due istanze dell’ordine – quella del profeta e santo e quella del funzionario bensì fedele, anche se si preoccupa del ritorno alla realtà, del fare i conti con la realtà, non tanto del profeta quanto dei suoi seguaci. Perché l’ordine sopravviva al suo fondatore è necessario che l’ordine, e il suo stesso fondatore, della realtà tengano conto, e questa non è solo quella della chiesa del tempo (e forse di ogni “chiesa” di sempre) ma della istituzionalizzazione di ogni spinta radicale, rivoluzionaria. Ha vinto l’ordine (al punto che oggi, e mi sembra ben noto, i francescani hanno da troppo tempo uno scarso peso nella storia della chiesa, per non parlare del suo rinnovamento). Convince del film il rispetto per la figura di Elia, di fatto il vero protagonista – lacerato dal dubbio di far bene per la durata dell’ordine premendo sul santo e poi sostituendoglisi nel censurare (non riscrivere) la regola nei passi che sono i più vicini al Vangelo, fino al punto, a vittoria ottenuta, di tentare il suicidio. Questa forzatura storica ha, nelle intenzioni degli autori, una funzione didascalica forte, attualizzante, e il film, nelle loro intenzioni, dovrebbe vivere di questo scontro-incontro, di questo amore-distanza tra Francesco ed Elia.
Non era un’idea sciocca, ma avrebbe avuto bisogno di una sceneggiatura adeguata e di una regia più ispirata. Così com’è, si risolve in una giustificazione dell’impresa affrontata che appare più scolastica che profonda, anche se il rapporto tra Francesco ed Elia avrebbe meritato e ancora meriterebbe un Autore o degli Autori con la maiuscola. Prigionieri del nostro tempo, e della convenzionalità dei linguaggi del nostro tempo, essi trasferiscono sul passato le loro-nostre idee, i loro-nostri pregiudizi, ma ciò nonostante potevano forse darci qualcosa di meglio che un teatrino di idee gradevole e televisivo senza vero dramma. Manca loro una vera tensione o persuasione religiosa allo stesso modo che una vera tensione o persuasione “politica”. Una spia di questa banalità sta nella scelta dei protagonisti e comprimari del film: volti e gesti di oggi, volti e gesti, se così si può dire, benestanti. Quello più irritante perché il più contemporaneo (nostro) di tutti è quello così “borghese 2016” dell’attore che impersona Elia. Sempre vistosamente attori comunque, da accademica normalità odierna, nonostante i buoni sforzi di Elio Germano per immettere un po’ d’anima nel suo Francesco.
(Il film da fare, oggi, dovrebbe forse occuparsi del Francesco nostro contemporaneo, del suo immane coraggio e della sua maggiore contraddizione, che è quella di volere e dover essere il Francesco che salva, dal basso, una chiesa periclitante e contemporaneamente il Francesco che sta a capo dell’istituzione. Come se, nella scena giottesca del sogno del papa, Francesco e il papa avessero lo stesso volto, fossero lo stesso attore, la stessa persona).
in “Il sole 24 Ore” del 2 ottobre 2016