A seguito della visita di papa Francersco alla chiesa luterana di Roma è stato intervistato il pastore Jakob Betz alla guida delle comunità luterane di Genova e Sanremo. Il pastore Betz, 60 anni, tedesco, sposato, padre di tre figli adulti, proviene dalla sede pastorale di Wangen im Allgäu, nel sud della Germania.
 
Intervista
Che significato ha avuto la visita di Bergoglio alla chiesa luterana di via Sicilia a Roma?
È di straordinaria importanza per l’ecumene ed è unica nella suo significato. L’atmosfera dell’incontro è stata caratterizzata dal sincero interesse e dalla cordialità di un papa che abbiamo sentito fratello in Cristo. La visita si è svolta senza formalità: solo il Vangelo della domenica (Matteo 25,31-46) – che era anche il testo della predica nelle nostre Chiese protestanti – ha costituito il cuore dell’incontro. Francesco ha posto l’accento, tanto nel dialogo con alcuni membri della comunità come anche, nella sua breve predica, sul servizio alla Parola e sul servizio al prossimo.ù
 
Come sono state percepite da voi le sue parole: «Dobbiamo chiederci scusa»?
Il papa si è riferito al fatto che tutti noi, luterani e cattolici, in quanto servitori di Gesù, dobbiamo chiederci scusa per lo scandalo della nostra separazione. Sulla via di una diversità riconciliata accogliamo volentieri questo importante impulso che ci impegna a fare di tutto per cercare l’unità visibile. Si tratta ora di elaborare quali siano i passi concreti che questo cammino implica. La Commissione luterana-cattolica sull’unità e la commemorazione comune della Riforma nel 2017 si è espressa a tal proposito, nel 2013, con le parole «Dal conflitto alla comunione». Un ulteriore passo sulla via della diversità riconciliata sarà la manifestazione dell’Associazione mondiale luterana con la Chiesa cattolico-romana nell’autunno del 2016 a Lund (Svezia).
 
Il «consenso» cattolico-luterano su punti fondamentali della dottrina della giustificazione (Augsburg, 1999) non ha portato, di fatto, a concrete conseguenze ecclesiologiche. Cambierà qualcosa dopo questa visita?
In base alle riflessioni del papa, l’accostarsi alla comunione dell’Ultima Cena è più una questione di coscienza che non una questione di dottrina. Per quelli che si chiedono se possono partecipare all’Eucaristia in una Chiesa diversa dalla loro, il papa ha chiarito: «Parlate col Signore e andate avanti». Nella situazione concreta questo può essere interpretato come un incitamento alla «disubbidienza confessionale», ma anche come incitamento a partecipare reciprocamente alla Cena eucaristica. L’esame del singolo diventa qui il criterio decisivo; diviene secondario quello dell’ubbidienza alla dottrina della Chiesa. Sul piano personale le parole del papa aprono le porte allo scambio dell’ospitalità eucaristica. Dal punto di vista teologico ha fondato la sua affermazione riferendosi a Paolo: «Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo» (Efesini 4,5), e poi ha aggiunto: «Tiratene poi voi le conseguenze». Grandioso! Non c’è però ragione di farsi prendere dall’euforia, poiché restano divergenze dirimenti tra la Chiesa luterana e la Chiesa cattolica, soprattutto per quanto riguarda la comprensione del ministero. Su questo punto noi luterani resteremo in stretto dialogo con la Chiesa cattolica per discuterne con pazienza e competenza teologica. Le affermazioni del papa vanno nella direzione della speranza.
 
Come accostarsi alla celebrazione dei 500 anni della Riforma, nel 2017, vista l’apertura ecumenica del Vaticano?
Incontrandoci, Francesco ha ripetuto più volte concetti come «servire» e «servizio» ai fratelli e alle sorelle, alla società, ai bisognosi. Seguendo un filo rosso ha parlato non solo della possibilità, ma della necessità che la nostra sia una testimonianza comune, cristiana, nel mondo, caratterizzata dal servire. Io confido che se noi scopriremo insieme la forza del Vangelo di Gesù Cristo per il nostro tempo – e di questo si tratta nel 2017 e oltre – allora possiamo essere insieme testimoni nell’annuncio e nel servizio nei confronti del mondo, per grazia di Dio.

intervista a Jakob Betz a cura di Claudio Paravati, in “Confronti” del dicembre 2015
 
 

Giubileo catto-luterano
di Lorenzo Tommasin
La parola giubileo, di origine ebraica, in alcune lingue europee significa «anniversario», «ricorrenza calendariale». In tedesco, ad esempio, tale è oggi il significato comune di Jubiläum: e nella terra (di) Martin Lutero – ma anche in quelle di Calvino, Farel, Beda e Knox, i riformatori effigiati su un famoso muro di Ginevra – un giubileo s’attende per il 2017. È il cinquecentesimo anniversario della pubblicazione delle 95 tesi di Lutero. La suggestiva quasi-coincidenza del giubileo della Riforma e del giubileo proclamato, con un anno d’anticipo su quello, dalla chiesa di Roma, è stata notata in terra protestante, dove qualcuno ha persino temuto che l’uno rischi di (o addirittura miri a) mettere in ombra l’altro.
L’attenzione alla storia da parte del mainstream cattolico contemporaneo porterebbe a escludere una studiata sovrapposizione. Si tratta, forse, di una casualità, ma è pur vero che in tal modo un giubileo «straordinario», cioè non previsto dal calendario, dedicato alla «misericordia» (tutti i giubilei cattolici, a ben vedere, lo sono, visto che in questione c’è sempre la remissione dei peccati) finisce curiosamente per coincidere con i cinquecento anni dal 1516. In quei mesi, che Lutero ricordava come quelli in cui «cominciai a scrivere contro il papato», la dottrina cattolica della misericordia fu messa in discussione nel suo presupposto fondamentale, cioè nella prerogativa papale di gestire il perdono e la remissione dei peccati come un patrimonio a sua disposizione, amministrandoli in modo ordinario o straordinario, a seconda delle necessità di fare cassa, o di monopolizzare un’anche più redditizia audience. Ancora nella bolla emessa per l’attuale giubileo si parla ad esempio del perdono di «peccati che sono riservati alla Sede Apostolica». Dove riservati andrà sperabilmente riferito alla loro remissione, non – come la formula potrebbe far supporre – alla facoltà di commetterli.
Il testo delle tesi luterane del 1517 verteva in effetti su una disputa che non era né politica, né economica, ma appunto teologica, giacché di teologia, a quel tempo, il papato si occupava ancora tanto intensamente quanto strumentalmente.
Una riduttiva vulgata connette la polemica luterana al mero impiego del denaro nella compravendita delle indulgenze: Leone X, come è noto, aveva bisogno di rimpinguare le esauste casse pontificie, giacché il Rinascimento oltre ai suoi splendori ebbe pure i suoi costi.
Ma è ben noto, almeno fuori d’Italia, che buona parte delle 95 degnità luterane verte proprio sul tema della misericordia e della remissione dei peccati, rovesciando la prospettiva per cui il perdono parte da un’indizione papale e piove sui fedeli e proponendo la conversione individuale del fedele come vera, unica e costante fonte della misericordia. L’obiezione valeva, peraltro, anche a rivisitare, contestualizzandola, la riflessione cristiana sulla povertà materiale (tesi 59: «San Lorenzo ha detto che il tesoro della chiesa sono i poveri, ma l’impiego di questo vocabolo esprimeva la concezione del suo tempo»: si trattava in effetti di uno degli argomenti che inducevano i fedeli a devolvere offerte). Le 95 tesi vi contrappongono, come è noto, una visione spirituale più impegnativa – seppur ancora confusa e abbozzata –, ma insieme più concretamente storica, della chiesa (tesi 62: «Il vero tesoro della chiesa è il santo vangelo della gloria e della grazia di Dio»). Per un’altra curiosa e – ancora – certo casuale coincidenza, le parole di Lorenzo chiosate dalla luterana tesi 59 sono state ripetute qualche settimana fa dall’attuale papa. La concezione del nostro tempo (parafrasando Lutero) ha reso quella frase ben gradita ai media, soprattutto a quelli italiani, in cui i temi giubilari ricorrono con intensità maggiore che altrove, e generalmente in assenza di riferimenti diversi dalla prospettiva attuale del Vaticano o di pochi altri colli tiberini. Così, le parole sul tesoro della chiesa sono state presentate come profondamente rivoluzionarie e innovative. Come in molti altri casi, la loro immediata efficacia ha coperto ogni riferimento alla loro storia, alla loro percezione e alla loro sedimentazione nel dibattito cristiano. Da espressione coperta di una scaltra strategia di fund raising, esse sono state promosse a efficace slogan di un pauperismo che pure riconduce, in forme nuove, la religione a una funzione che pare prioritariamente economica, cioè a un discorso sui beni terreni, punto di partenza e punto d’arrivo di una misericordia tutta strumentale. Del resto, anche nella pratica cinquecentesca delle indulgenze il bando papale si traduceva in un’omelia sul denaro, che i banditori pontifici deprecavano nel momento stesso in cui invitavano a devolverlo per ottenere misericordia. Avidità e pauperismo possono talora essere due facce della stessa medaglia, cioè della stessa ossessione per i beni secolari.
Cinquecento anni dopo (e in un cattolicesimo ormai dimentico di quella storia), denominazione, natura e cronologia del giubileo della misericordia non sembrano filtrate da un’adeguata considerazione storica. Apparire innovativi, se non rivoluzionari, diventa così possibile nel solco di una indisturbata continuità e in un contesto culturale sempre più schiacciato sul presente, che tende semplicemente a ignorare la lunga prospettiva storica in cui atti e testi – quindi anche bolle e giubilei – vanno letti. Adattandosi abilmente a un’epoca ormai indisponibile alla riflessione storica (e figurarsi a quella teologica…), la grande kermesse giubilare ritorna in forme e in parole che forse paiono talora nuove, sui passi di una vicenda antica e, forse, semplicemente rimossa.

in “Il Sole 24 Ore” del 10 gennaio 2016