Ormai da vari mesi ci accompagna un interrogativo sempre più impellente: come vincere l’islam radicale e gli attentati jihadisti?
L’allarmismo e la paura sempre più diffusa comincia a coinvolgere anche chi sembra non curarsi della cosa. Una confronto sereno puoi aiutarci a trovare un atteggiamento equilibrato e sicuro.
Il Prof. Nabil El Fattah afferma che i foreign fighters europei non sono dei disperati che devono vendicarsi della fame patita, ma degli individui che trovano nella suggestione politico-terroristica del Califfato un ancoraggio identitario, una ragione di vita e di morte. Per contrastare questa deriva, non è solo questione di intelligence, di sicurezza, di militarizzazione delle città, ma va condotta è anche una battaglia culturale. Nello tempo stesso, la lotta di liberazione dal fanatismo integralista deve venire dal di dentro dell’Islam, perché non vi sarà nessuno che dall’esterno ci libererà da questo cancro.
A me pare che ancora sia molto limitata e senza una strategia chiara la battaglia culturale degli europei e quasi inesistente o molto tacita la liberazione dal fanatismo integralista dal di dentro dell’islam.
Vedi anche:Prof. Nabil El Fattah, Capire e vincere l’islam radicale e gli attentati jihadisti: serve una battaglia culturale://www.didatticaermeneutica.it/5142-2/
Condividi questo articolo, scegli la piattaforma!
9 Commenti
I commenti sono chiusi.
Contro il progetto della morte, noi scegliamo la vita
di Cheikh Bentounes e Abdelhak Sahli (Scout Musulmani di Francia)
Comunicato Contro il progetto della morte, noi scegliamo la vita. L’orrore e la violenza cieca hanno di nuovo brandito il loro stendardo. Gli Scout Musulmani di Francia condannano con forza gli attentati del 22 marzo a Bruxelles. I nostri pensieri accompagnano le vittime di quegli eventi tragici, e tutta la nostra compassione e le nostre condoglianze per le loro famiglie e i loro cari. Nel destino che ci unisce e ci raccoglie in quanto Europei riaffermiamo insieme la nostra fraternità umana. Questa prova tragica che ci colpisce tutti può certo scuoterla, ma essa deve rimanere forte e solidale più che mai. Contro il progetto della morte, noi scegliamo la vita. Cheikh Bentounes, fondatore e presidente onorario Abdelhak Sahli, presidente
in “temoignagechretien.fr” del 24 marzo 2016 (traduzione: http://www.finesettimana.org)
Di notevole interesse risultano alcune considerazioni espresse da Z.Bauman in recenti interviste. Ne riportiamo alcune:
«Identificare il “problema immigrazione” con quello della sicurezza nazionale e personale, subordinando il primo al secondo e infine fondendoli nella prassi come nel linguaggio, significa aiutare i terroristi a raggiungere i loro obiettivi. Prima di tutto, secondo la logica della profezia che si auto-avvera, infiammare sentimenti anti-islamici in Europa, facendo sì che siano gli stessi europei a convincere i giovani musulmani dell’esistenza di una distanza insormontabile tra loro. Questo rende molto più facile convogliare i conflitti connaturati alle relazioni sociali nell’idea di una guerra santa tra due modi di vivere inconciliabili, tra la sola vera fede e un insieme di false credenze. In Francia, per esempio, malgrado non siano più di un migliaio i giovani musulmani sospettati di legami con il terrorismo, per l’opinione pubblica tutti i musulmani, e in particolare i giovani, sono “complici”, colpevoli ancor prima che il crimine sia stato commesso. Così una comunità diventa la comoda valvola di sfogo per il risentimento della società, a prescindere dai valori dei singoli, da quanto impegno e onestà questi mettano in gioco per diventare cittadini». http://www.didatticaermeneutica.it/5252-2/
La responsabilità mi pare a questo punto comune. Ciascuno per la sua parte deve concorrere a creare un contesto in cui i conflitti vengano superati. Ogni comunità culturale e religiosa ha un suo preciso compito da svolgere per superare lo scontro.
In merito alla negoziazione tra Europa e comunità islamiche, Panebianco che insegna sistemi internazionali comparati presso la facoltà di scienze politiche dell’università di Bologna e si definisce liberale non cattolico esprime alcuni principi “non negoziabili”:
– “la laicità, a sua volta fondata sulla capacità di distinguere fra il sacro e il profano, fra il regno di Dio e il regno di Cesare”;
– “l’uguaglianza giuridica fra gli individui a prescindere da sesso, religione o altro”,
– “il principio della libertà individuale”.
Questi principi secondo Panebianco costituiscono “l’anima” dell’Europa. E l’Europa dovrebbe difenderli “con particolare accanimento” quando “si andrà a negoziazioni aperte o tacite con le comunità musulmane immigrate”, negoziazioni a cui “ci si andrà senz’altro”, dato che “solo le comunità musulmane possiedono le risorse culturali per riportare alla ragione tutti quei loro giovani (ma non solo) che oggi simpatizzano per l’estremismo”.
Interessanti queste considerazioni che vengono da un intellettuale di area liberale docente esperto in scienze politiche.
Al di là dei principi non negoziabili importante è l’idea che l’Europa deve assumere un atteggiamento chiaro e consapevole della sua identità culturale all’interno della quale deve integrare coloro che chiedono di far parte delle nostre comunità.
Sandro Magister in un uso articolo nel blog Settimo cielo (http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/) fa riferimento ad alcuini dei principi non negoziabili sulla natura e sulla ragione che Benedetto XVI fece in un suo discorso a Berlino:
“Contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato, mai un ordinamento giuridico derivante da una rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto; ha rimandato all’armonia tra ragione oggettiva e soggettiva, un’armonia che però presuppone l’essere ambedue le sfere fondate nella Ragione creatrice di Dio. Con ciò i teologi cristiani si sono associati a un movimento filosofico e giuridico che si era formato sin dal secolo II a. C. Nella prima metà del secondo secolo precristiano si ebbe un incontro tra il diritto naturale sociale sviluppato dai filosofi stoici e autorevoli maestri del diritto romano. In questo contatto è nata la cultura giuridica occidentale, che è stata ed è tuttora di un’importanza determinante per la cultura giuridica dell’umanità. Da questo legame precristiano tra diritto e filosofia parte la via che porta, attraverso il Medioevo cristiano, allo sviluppo giuridico dell’Illuminismo fino alla dichiarazione dei diritti umani e fino alla nostra legge fondamentale tedesca, con cui il nostro popolo, nel 1949, ha riconosciuto ‘gli inviolabili e inalienabili diritti dell’uomo come fondamento di ogni comunità umana, della pace e della giustizia nel mondo'”.
In realtà più della sociologia è forse la psicologia che ci aiuta a capire chi e perché diventa estremista. Il punto che sembra unire tutti questi soggetti è che tutti paiono alla ricerca qualcosa: un ideale, un senso di appartenenza, un’avventura. Come dice Ed Husein, un ex militante islamista nato e cresciuto a Londra, i jihadisti europei spesso «sono disillusi, non emarginati. Molti sono ben istruiti e con una buona famiglia. Ma cercano tutti dei valori o una ragione per la quale combattere, una causa per la quale poter morire». La mancata integrazione e la vita in un quartiere malfamato posso aiutare a creare questa disillusione, ma da soli non offrono una spiegazione concreta per illustrare un fenomeno così complesso come la radicalizzazione. (da La Stampa, L.Vidino, È il bisogno di appartenere a spingere i giovani alla jiad, 11 aprile 2016)
In una recente intervista a Christoph Schönborn, a cura di Andrea Tornielli, Il cardinale arcivescovo di Vienna, commenta così le notizie che arrivano dal Brennero e la decisione di creare controlli serrati per evitare il passaggio incontrollato di immigrati dall’Italia verso l’Austria.
Che reazione le provoca ciò che sta accadendo al confine tra Italia e Austria e, in generale, in alcuni Paesi europei?
«Una sensazione di tristezza. L’opposto della misericordia, alla quale ci richiama in continuazione Papa Francesco, è l’indurimento del cuore. Ecco, in Europa stiamo vivendo una situazione di questo tipo. Invece di accogliere pensiamo ad innalzare nuove barriere»
Come giudica questo atteggiamento?
«Dobbiamo cercare di costruire, tutti insieme e senza lasciare soli i Paesi di frontiera o i Paesi più piccoli, un’Europa che non ruoti solo intorno all’economia, ma anche alla sacralità della persona umana. Dove sono andati a finire i valori che ci hanno unito? Li abbiamo dimenticati? Rischiamo di essere un’Europa dal cuore indurito. Dietro a questa perdita di sensibilità nei confronti del prossimo c’è l’incapacità di commuoversi, di compatire, cioè di patire insieme a questi fratelli. È una perdita di umanità, una nuova forma di paganesimo. L’antico paganesimo, come ha ripetuto più volte Joseph Ratzinger, era segnato proprio dall’insensibilità».
«Accogliere e ricordare i valori fondanti dell’Europa non significa non porsi il problema di come governare il fenomeno migratorio e le emergenze. Penso al peso che sopportano alcuni Paesi che sono sull’orlo del collasso, dove si trovano a vivere ammassati nei campi milioni di profughi: parlo del Libano, della Giordania, della Turchia, ad esempio. Penso poi agli avamposti della nostra Europa, a isole come quella che visiterà il Papa. Bisogna mettere sempre al centro la dignità umana degli immigrati, che non sono numeri per le nostre statistiche. Sono donne, bambini, giovani, uomini, anziani. Persone in carne e ossa che fuggono dalla disperazione, che hanno lasciato tutto, che spesso non hanno più una casa. Finché non ci abitueremo a vedere i volti in carne e ossa delle persone dietro i numeri, non ritroveremo quel cuore che l’Europa, l’Europa cristiana, sembra aver smarrito. Non ci possiamo permettere di smarrire i valori e i principi di umanità, di rispetto per la dignità di ogni persona, di sussidiarietà e di solidarietà reciproca, anche se in certi momenti della storia, come ha ricordato Papa Francesco, possono essere un peso difficile da portare».
Cosa bisogna fare, secondo lei?
«Ci sono le emergenze da affrontare con buon senso, ragionevolezza e accoglienza, coinvolgendo tutti i Paesi della Ue. Non dobbiamo mai dimenticare, tra l’altro, le responsabilità che abbiamo come Occidente nei confronti di certi Paesi i cui cittadini pagano le conseguenze delle nostre guerre. Ma oltre l’emergenza, servono politiche concrete che aiutino i Paesi di provenienza dei migranti a superare i conflitti interni e a svilupparsi garantendo la pace. Noi dovremmo lavorare per superare i conflitti, non per alimentarli».
“Stiamo mostrando il volto di un’Europa dal cuore duro”
intervista a Christoph Schönborn, a cura di Andrea Tornielli
in “La Stampa” del 14 aprile 2016
Nadia, ecco la donna eletta leader dai giovani musulmani
di Barbara Cottavoz
in “La Stampa” del 18 maggio 2016
«Noi Giovani musulmani siamo come le Acli, gli Scout. Persone religiose ma prima di tutto italiani impegnati nella vita sociale»: Nadia Bouzekri, 24 anni, studentessa universitaria di management nata a Sesto San Giovanni da un impiegato e una casalinga di origini marocchine, è la nuova presidente dell’associazione che riunisce i fedeli islamici tra i 14 e i 33 anni. I Giovani musulmani d’Italia sono in espansione: oggi contano 1200 soci e 51 sedi a cui nei prossimi mesi se ne aggiungeranno altre venticinque.
Nadia Bouzekri è la prima donna a guidare l’associazione. All’assemblea che l’ha eletta a Piacenza le ragazze velate erano da una parte, i maschi dall’altra; il ruolo femminile nel mondo islamico è spesso nel mirino: «Bisogna distinguere tra la religione e il retaggio culturale tradizionale – precisa Bouzekri -. L’Islam non limita la donna anzi la pone a un livello pari, se non superiore per alcuni aspetti, a quello dell’uomo. Anche in Italia le donne guadagnano meno degli uomini: c’è ancora tanto da fare indipendentemente dal credo».
Il «reclutamento»
L’associazione vuole crescere, è attivissima sui social, cura molto l’immagine e nel nuovo direttivo di Bouzekri c’è un consigliere incaricato del «reclutamento», cioè di avviare le nuove sedi, Mohamed Hamad. Come vi finanziate? «Ci sono le tessere dei soci, partecipiamo a bandi pubblici su particolari progetti e se necessario ci autotassiamo con l’aiuto delle famiglie. Finanziamenti esterni? Magari ne avessimo!» dice la neopresidente.
Che cosa desidera un ragazzo musulmano oggi in Italia? «Vorremmo non dover sempre dimostrare di essere davvero italiani, non dover ribadire a ogni strage che siamo contro gli attentati, che quella non è la nostra fede – risponde Nadia -. Credevamo che l’equazione islamismo e terrorismo fosse superata, invece sentiamo tanta diffidenza verso di noi. Il velo o i simboli islamici sono collegati ad aggressività, violenza o estremismo: niente di più sbagliato».
Bouzekri è nata in Italia ma ha ricevuto la cittadinanza solo alla maggiore età: «Quando ho aperto la lettera che mi chiedeva se sceglievo la nazionalità di questo Paese mi è venuto da sorridere perché io ero già profondamente italiana. Lo Stato deve fare un passo verso le seconde generazioni di immigrati. È assurdo che bambini nati qui debbano andare in questura per rinnovare il permesso di soggiorno».
Eppure negli altri Paesi europei dove l’immigrazione è cominciata prima che in Italia non sembra che l’integrazione sia un problema di cittadinanza: «No, è vero non basta – concorda Bouzekri -. Servono pari opportunità reali: ho amiche che avevano concordato stage che poi si sono viste rifiutare al colloquio, quando le hanno viste con il velo. Il modello italiano, però, resta migliore di altri, qui non ci sono quartieri-ghetto. Ma lo Stato deve stringere un’intesa con l’Islam riconoscendo i luoghi di culto: così ci saranno spazi di preghiera trasparenti. La lezione belga e francese ci insegna che i terroristi non frequentano centri islamici, hanno una visione distorta della religione, costruita su Internet».
Lei, single con la passione per la fotografia e per Marrakech (città della famiglia), ha le idee chiare: «Studio per la laurea magistrale a Reggio Emilia e in futuro mi vedo una manager. Desidero essere utile alla società. La politica? Mi interessa se è servizio alla comunità. Ma non di professione: voglio un’occupazione vera».
La resa di Bassam Tibi, che teorizzò la compatibilità dell’islam con i valori europei: “Ho perso, ha vinto il velo”
di Matteo Matzuzzi
in “Il Foglio” del 3 giugno 2016
“Il 2015 segna la fine della mia speranza di una europeizzazione dell’islam”, scrive nell’ultimo numero della rivista politico-culturale tedesca Cicero Bassam Tibi, tra i più noti islamologi contemporanei, una carriera tra Harvard, Berkeley e infine Gottinga. Anni fa, Tibi coniò il neologismo “euroislam”, argomentando la necessità di sviluppare un islam di tipo europeo tra gli immigrati musulmani inseriti nel Vecchio continente per scongiurare il rischio di vedere entro pochi anni la nascita di una “Europa islamizzata”. Un modello i cui requisiti fondamentali erano la separazione tra religione e politica e la capacità dell’islam di fare propria un’idea di tolleranza ispirata ai princìpi dell’Illuminismo europeo, e non “a quello che i musulmani considerano per tolleranza, cioè ritenere gli ebrei e i cristiani subordinati, dhimmi.
Concetto, quest’ultimo, che rappresenta la negazione stessa dell’idea d’Europa”, che può ammettere solo “la determinazione dei musulmani che vivono qui come individui singoli, e non come umma, cioè come collettivo”. Il rischio di un’Europa islamizzata era comunque basso, scriveva Tibi, convinto della possibilità di far coesistere la religione islamica con i più genuini valori europei. Oggi, l’ammissione della resa: “Non ci sarà alcun islam europeo”, perché ha vinto “l’islam del velo, che è rappresentato dagli islamisti e dai salafiti ortodossi”. Una resa i cui contorni hanno iniziato a manifestarsi molto tempo fa, scrive l’intellettuale nato a Damasco: “Dopo l’undici settembre, e dopo aver visto molte persone nelle società parallele islamiche in Europa plaudire a tanta umiliazione dell’occidente, cominciai a nutrire dubbi sulla mia visione di un islam europeo. Io – prosegue Tibi – sono europeo ‘per scelta’, nel senso che ho deciso di trasferirmi in Europa per godere del diritto fondamentale alla libertà di pensiero. Ma oggi in Germania mi sento ostacolato dai divieti ogni qual volta vorrei esprimere qualche osservazione sull’islam, l’islamismo e la stessa Europa”. Dopotutto, aggiunge, “già Theodor Adorno criticò l’abitudine mentale tedesca di evitare di dire la propria su non poche questioni per mera paura delle conseguenze. Il risultato è l’emergere di un ‘censore interiore’ che impedisce non solo di esprimere pensieri scomodi, ma anche di elaborarli”. E oggi la Germania – dove lui ha scelto di risiedere – è l’emblema del fallimento dell’idea di un euroislam: “Lo stato tedesco vuole essere ideologicamente neutrale, ma finora ha solo incoraggiato le reti islamiche organizzate, finendo per emarginare i musulmani europei.
Questo modello è il principale responsabile per il fallimento dell’euroislam”. Il futuro è già qui, sotto gli occhi, osserva Bassam Tibi, e per capirlo bisogna tornare al 1992 quando all’Istituto del mondo arabo di Parigi partecipò a un progetto per rendere pienamente cittadini i musulmani in Francia. L’obiettivo, scrive l’islamologo, consisteva nel sostituire l’integrazione al concetto obsoleto di assimilazione. Un quarto di secolo dopo, “le società parallele hanno trionfato sull’integrazione”, benché “i tedeschi buonisti non vogliano sapere nulla di tutto questo”, perché “questi argomenti sono un tabù”. Nei prossimi anni, è la previsione, “avremo tante società parallele, la siriana e l’afghana, l’irachena e la somala, il cui segno distintivo è il velo islamico”. “Il mio impegno per l’euroislam – è la chiosa – si è tradotto nel tentativo di costruire ponti. Devo ammettere la mia sconfitta”.
Per Mohammad Sammak, sunnita, consigliere politico del gran Muftì del Libano: «L’Islam non è cambiato. Il testo coranico è costante e gli Hadith, le parole del Profeta, sono chiari. Non è cambiato né prima né dopo quell’incontro. Ciò che è cambiato è che un gruppo di estremisti vendicativi e disperati ha dirottato l’Islam e lo sta usando come strumento di vendetta». Del resto «sappiamo cosa è successo ai tanti monasteri e chiese che sono stati distrutti, seppure siano descritti dal Corano come case di Dio, e nonostante l’avvertimento del profeta Maometto ai musulmani di non danneggiarli, considerandolo un atto di disobbedienza a Dio e al Suo Profeta». L’esponente musulmano ricorda il padre gesuita Paolo Dall’Oglio, «che ha dedicato la sua vita a servire musulmani e cristiani in Siria» e il vescovo di Aleppo Yohanna Ibrahim, rapiti dai fanatici e scomparsi. Spiega che padre Hamel «è una vittima non solo per la vostra Chiesa, ma anche per la nostra religione». Ed è tra gli applausi che Sammak parla del «movimento totalitario» che minaccia la sua fede: «Noi musulmani ben comprendiamo che dobbiamo liberare la nostra religione da questo «dirottamento» e riorganizzare l’Islam al suo interno, in allineamento con i principi spirituali dell’Islam e con i principi che costituiscono le fondamenta della civiltà umana nel XXI secolo». Così «affrontare il tema dell’estremismo religioso è un dovere innanzitutto dei musulmani», scandisce: «Papa Francesco si è proposto come leader spirituale per tutta l’umanità quando ha detto che non c’è nessuna religione criminale, ma che ci sono criminali in tutte le religioni».
E un sunnita celebra la visita di San Francesco al Saladino, di Gian Guido Vecchi, in “Corriere della Sera” del 19 settembre 2016