Un piano Industria 4.0 a livello globale. Non più solo robot ma intelligenza artificiale, Internet of things, Big Data, macchine che imparano da sole, reti digitali. “C’è un’accelerazione brusca e probabilmente decisiva nel trasferimento delle attività umane alle macchine”, sentenzia lo storico dell’economia Giuseppe Berta. Automazione non più solo in fabbrica ma in banca, al negozio, per strada, in cantiere, in casa. “È una rivoluzione pari per importanza alla rivoluzione industriale del XIX secolo in Inghilterra e in America”. E il lavoro che fine farà? Nessuno è ottimista. I l precedente della rivoluzione industriale direbbe che centinaia di milioni di persone sono uscite dall’agricoltura per andare a fare i lavori più impensabili a quei tempi, insomma un colossale cambio sarebbe possibile. “Ma questa rivoluzione, figlia della rete, è ancora più radicale e invasiva”, dice Berta, docente alla Bocconi. “La creazione di nuove occupazioni non compenserà la perdita di quelle soppiantate dalle macchine. Tanto più in un Paese come il nostro che ha una crescita così scarsa”. Che il risultato finale di questa rivoluzione sia destinato a tenerci con il fiato sospeso lo conferma un massiccio studio della Mc-Kinsey datato Maggio 2017: A future that works: automation, employment and productivity. Vi si legge che il 49% delle attività umane “è soggetto a qualche forma di automazione “. A una conclusione simile (il 47% dei lavori sostituibili) sono giunti Benedikt Frey e Michael Osborne della Oxford University, che a loro volta hanno appena sfornato un rapporto analogo, e l’Ocse citata dal Governatore Visco nella relazione di mercoledì scorso – indica percentuali analoghe.
Duemila attività

La McKinsey è scesa nel dettaglio analizzando 2000 attività in 820 tipi di lavoro. Conclusione, oltre a quella che in metà delle attività entrerà l’automazione: “Per il 60% di tutti i lavori è automatizzabile almeno il 30% delle funzioni”. I lavori totalmente automatizzabili come i cucitori e i raccoglitori agricoli non superano secondo il rapporto il 5% del totale. Ma una percentuale ancora inferiore riguarda quelli “per nulla automatizzabili”, fra i quali la McKinsey inserisce gli psichiatri e a sorpresa i deputati. Secondo lo studio, in tutto il mondo 1,2 miliardi di posti di lavoro sono sostituibili – in tutto o in parte – con le tecnologie oggi disponibili a livello commerciale, di cui 700 milioni in India e Cina. Il totale globale degli stipendi coinvolti è di 14,6 trilioni di dollari. Nei soli cinque Paesi europei esaminati – Francia, Germania, Italia, Spagna e UK – i posti full-time a rischio sono 54 milioni, pari a un monte stipendi di 1.700 miliardi. E queste classificazioni non comprendono tecnologie praticamente pronte ma ancora in fase sperimentale, come le auto senza pilota o i droni per il trasporto umano. Il contraltare positivo è che la produttività nei Paesi industrializzati è in grado di crescere da quest’anno in una misura che va dallo 0,8 all’1,4% ogni dodici mesi. “Sembra una percentuale bassa ma in realtà in essa è insito un gran numero di nuovi posti di lavoro che possono nascere grazie all’automazione, e sono posti più qualificati, gratificanti e addirittura meglio pagati”, ci spiega dalla sede londinese Paul Willmott, senior partner di McKinsey & Company e co-responsabile della divisione digitale del gruppo che ha realizzato lo studio. Sulla misura in cui i posti nuovi compenseranno quelli persi, la McKinsey è prudente.Però scrive: “Una volta superata la cruciale fase attuale, la creazione di nuovi posti figli della tecnologia sarà esponenziale: nel 2065 si sarà raggiunto un numero di posti aggiuntivi fra gli 1,1 e i 2,3 miliardi”. L’importante, riprende Willmott, “è che i governi si rendano conto della portata del cambiamento e collaborino con le aziende nella riprogrammazione del training dei lavoratori”. Non c’è da perdere tempo, “perché la tecnologia non aspetta nessuno”, ma neanche, secondo Willmott, da stracciarsi le vesti anzitempo: “Il nostro rapporto va letto in positivo. Intanto perché è proiettato sul medio- lungo termine. Per gran parte dei cambiamenti che identifichiamo la prospettiva temporale è di dieci- vent’anni. Le auto senza pilota, uno degli sviluppi più appariscenti, avranno ancora bisogno di tempo per essere introdotte. Ma tutto ciò non significa che bisogna fermarsi, la tecnologia non aspetta. Eppure in Europa, dice l’analista, l’automazione può rappresentare una forza intrinseca importante, “che permetterà grandi salti qualititivi nelle produzioni e una miglior qualità della vita per quanti, magari sottratti a lavori umili e faticosi, avranno saputo con coraggio rimettersi in gioco cambiando settore”.

Il piano di “re-skillig”

Anche Berta concorda: “È necessario varare, in Italia come negli altri Paesi industrializzati, un imponente piano di investimenti pubblici, costino quel che costino, e reimpostare tutti i programmi di preparazione, soprattutto tecnica e professionale, tenendo conto del nuovo paradigma che si sta imponendo “. E sul punto insiste Marco Morchio, responsabile per l’Italia di Accenture Strategy che a sua volta ha realizzato uno studio sulle competenze da affinare in presenza dell’automazione: “È sul potenziale umano, che rappresenta l’asset su cui l’automazione non può intervenire, che le aziende devono far leva, accrescendo le cosidette soft skill come l’intelligenza emozionale, la capacità relazionale, la creatività, la capacità di analisi critica”. Nessuno degli studi suona il de profundis per il lavoro ma l’importante è quello che in inglese si chiama re-skilling : “È l’unica risposta possibile, la più sensata e redditizia, rispetto al galoppare dell’automazione”, commenta Daniel Gros, direttore del Center for european policy studies di Bruxelles. “Non è però una garanzia assoluta di riuscire a cogliere i benefici in termini di produttività, che dipende da una serie complessa di fattori, innanzitutto dalla composizione del Pil. Prendiamo l’Italia: la componente manifatturiera non supera il 16%, e per quanti sforzi si riescano a fare e si utilizzi intelligentemente l’automazione, è difficile che solo da lì venga un rilancio della produttività. Peraltro il gap di produttività italiano resta difficile da spiegare in sé”.

I vantaggi dell’Italia

Una parola buona per l’Italia la spende Morchio di Accenture (malgrado che i vari studi non siano generosi quanto a potenzialità di recupero della produttività del Bel Paese): “L’Italia, in presenza di una reale volontà e consapevolezza, potrebbe addirittura essere avvantaggiata rispetto ad altri Paesi nel percorso di valorizzazione del fattore umano, perché da sempre è un territorio fertile per la creatività e l’imprenditorialità. La forza lavoro italiana è composta da professionisti formati non solo dal punto di vista scientifico e tecnologico, ma anche su aspetti quali l’intelligenza emozionale e la capacità di essere innovativi e versatili, in grado di gestire in autonomia e rapidità rischi e opportunità”. L’automazione può migliorare l’efficienza nei settori più diversi, e permettere svolte decisive. “Prendiamo l’attività bancaria”, argomenta Angelo Baglioni, economista internazionale della Cattolica. “Tutti conosciamo l’Internet banking, la sua comodità per il cittadino e purtroppo le sue conseguenze in termini di occupazione. Ma pensiamo più in grande: intanto le modalità B2B consentono alle aziende di avere più rapido accesso al credito, di fornire alla banca tutte le informazioni di cui ha bisogno, di facilitare le relazioni e di renderle più trasparenti. Ma poi l’automazione potrebbe avere un ruolo fondamentale per la soluzione del problema delle sofferenze. Solo se il potenziale acquirente di un titolo cartolarizzato è in grado di distinguere immediatamente da cosa è costituito questo titolo, quali crediti ci sono stati inzeppati dentro, di quali garanzie gode ogni singola partita, semplicemente chi è e quali precedenti ha il debitore, allora potrà nascere un vero mercato dei titoli cartolarizzati. Una tipica applicazione di Big Data. E la nascita di questo mercato è come sappiamo la condizione per lo sblocco del nodo degli Npl”.

La globalizzazione

L’automazione s’incrocia con una serie di grandi problemi sul fronte geopolitico. “I Paesi più rapidi nel valorizzare le potenzialità dell’automazione sono quelli che colgono al meglio le opportunità della globalizzazione “, spiega l’economista Dambisa Moyo, nata in Zambia, studi a Oxford e formazione nell’ufficio studi Goldman Sachs, che ai pregi e ai (molti) difetti della globalizzazione ha dedicato più di un saggio nonché un seminario proprio presso McKinsey. “Il problema è che se non si è potuto o voluto fare gli investimenti nell’automazione, si accentuano le diseguaglianze fra un Paese e l’altro. L’automazione in agricoltura per esempio è decisiva, e l’85% dell’economia dei Paesi in via di sviluppo è costituita ancora dal settore primario. Chi non può accederi, è tagliato fuori dalle correnti di modernizzazione “. Per incapacità o impossibilità di investimenti in automazioneo, spiega la Moyo, “si compromette lo sviluppo. E si finirà per bene che vada a dover dipendere dagli aiuti del resto del mondo, che sono un rimedio peggiore del male. È naturale che le colpe della popolazione vengano attribuite alla globalizzazione contro la quale può esserci anche una ribellione violenta”.
Intelligenza artificiale Big Data. Così robot cambiano il lavoro, Eugenio Occorsio, 5 giugno 2017