“Qual è il senso dei giorni segnati dalle mascherine che abbiamo passato? Quali pensieri hanno attraversato la nostra mente?È possibile immaginare un futuro migliore dopo questo tempo? Che cosa ci resterà di quello che abbiamo sofferto? Sapremo rinascere come persone nuove? Come una nuova umanità? Sono interrogativi che, in qualche modo, il “prof.” CoVid ha sollecitato con la sua “lezione”. Ha voluto, in fondo dirci che, dopo anni di corse e di stress, dovremmo assaporare di più la bontà della “lentezza”, l’intelligenza di dare tempo al tempo per fermarci ogni tanto a consultare, con lucidità e profondità, quel “navigatore” invisibile ma decisivo che è la nostra coscienza”.
( P. Greco, Lezione… di vita. Per una nuova stagione del mondo, Il piccolo carro, Torino 2020).
 
La riflessione sulla questione educativa, con l’avvento della pandemia mondiale, ritorna prepotentemente di attualità. Richiama l’attenzione non solo di genitori, insegnanti e operatori del settore, i primi ad essere coinvolti, ma di tutta l’opionione pubblica. Il CoVid-19 non soltanto ha ridimensionato il nostro raggio di azione, ma ha cambiato il modo di relazionarsi, tra le persone e con l’ambiente in cui viviamo. Il blocco imposto dalle misure di sicurezza ha offerto l’occasione di rivalutare la bellezza di stare in famiglia, la grandezza dell’amicizia e l’importanza della scuola. In fondo ha riportato in primo piano la vita come valore da capitalizzare e da non sciupare dietro effimeri sogni e traguardi.
Parlare oggi di “educazione” non è possibile senza rifersi al momento che stiamo affrontando: una nuova stagione che mentre ci distanzia, ci avvicina in una maniera sorprendente, rendendoci responsabili gli uni degli altri. Ci siamo resi conto che nessuno può uscire da questa inedita situazione senza l’altro. Che ogni mio gesto riguarda anche chi mi è vicino e viceversa. Un virus invisibile che, pare espropriarci di tutto, eppure ci riconsegna il valore delle cose, e anche se costringe a chiudere le scuole ci proietta in un grande laboratorio educativo e civile. Da cui nessuno può sentirsi escluso.
 
Migliori o peggiori?
Il teologo laico Vito Mancuso ha invitato a vedere un’occasione da non sprecare: «Siamo di fronte, quindi, ad un problema più grande di noi, che ci sovrasta. Questa è l’occasione per vedere di che pasta siamo fatti. Possiamo cadere nel burrone o superare il pericolo, possiamo migliorarci, ma anche peggiorare. Dipenderà da quanto ognuno di noi sarà capace o meno di andare oltre i propri interessi e non essere prigioniero delle proprie paure e capacità». Abbiamo l’opportunità, ancora una volta, di tirare fuori il meglio da ciascuno di noi, e non restare nelle sabbie mobili del nostro egoismo.
Anche se purtroppo ahinoi il virus in molti sta facendo emergere il peggio: assistiamo a continui episodi di abbrutimento e in non pochi casi di vera rabbia. In Francia, un autista di autobus, è stato picchiato brutalmente fino a morire, da due giovani sconosciuti, soltanto perché li stava richiamando a rispettare la regola della mascherina. In Toscana, sulla costa apuana, le reazione di due bagnanti contro la madre di un bambino reduce da un complicato trapianto, che chiedeva semplicemente di mantenere le distanze precazionali: “Il Covid non esiste. Qui niente distanze. Se è ammalato se lo tenga chiuso in casa, oppure si sposti lei”.
Mentre dall’altra parte abbiamo assistito ad immagini incoraggianti che affermano la non estinzione dell’umanità. Nelle settimane post-lockdown, tra le tante, ho assistito ad una scena che mi ha fatto molto riflettere, eravamo al parco giochi con i bimbi: arriva una famigliola, mamma, due figli, e il papà munito di igienizzante, guanti, fazzolettini, disinfettanti, che nella meraviglia di tutti i presenti, comincia a disinfettare e pulire tutti i giochi. Un vigile che osserva quanto accade, lo invita ad andare più spesso al parco, come per dire: se tutti facessero così, si prendessero cura dei giochi, invece di gettare la cartacce o vandalizzare i luoghi. Un immigrato in provincia di Bergamo, che anni addietro è stato accolto dagli italiani e nel momento della crisi, sceglie di mettere a disposizione la frutta, gratis, per chi ne ha bisogno.
 
Decidere di essere uomini nuovi
È proprio vero quanto scrive Erri De Luca, i tempi originali non generano necessariamente uomini nuovi. Non sono certamente soltanto le situazioni nuove a  creare persone nuove, anzi come può accadere che “i tempi che incitano a essere originali generano spesso concorrenti, individui che per distinguersi agiscono tutti nello stesso modo”. Chiaramente non è il contesto nuovo a partorire un’umanità nuova, bensì il modo con il quale questa reagisce e risponde al nuovo che gli si presenta davanti. La storia ce lo ha insegnato più volte, l’esperienza ce lo dice ogni giorno, è l’uomo che sceglie se rinascere come persona nuova da una determinata situazione oppure restare quello di prima. In altre parole, siamo noi che personalmente decidiamo nelle diverse situazioni che ci accadono, di tirare fuori il meglio oppure il peggio.
Il filosofo Roberto Mancini, ha evidenziato che il virus ha avuto il potere di fare riscoprire che siamo una sola umanità presente sulla terra. Non esistono più umanità, bensì una sola grande famiglia umana., di cui tutti facciamo parte. Per cui il pensiero che prima vengo “io” e poi ci sono gli “altri” nel nuovo contesto della pandemia va in frantumi. I momenti complessi che stiamo vivendo ci fanno riflettere sul fatto che io sono insieme all’altro e soprattutto grazie all’altro, ed infine che ciascuno è per l’altro. Si potrebbe dire, “io sono”, ed esisto, grazie ad “un altro” e per un “altro”. I sopravvissuti al contagio lo hanno vissuto sulla propria pelle, grazie alla dedizione e alla competenza dei “soldati della salute”, uomini e donne che hanno rischiato la vita per salvare quella altrui, medici, infermieri, operatori sanitaria.
Il confine da superare è proprio il nostro ego chiuso su sé stesso, infatti avvertiamo tutti il cattivo odore di un’esistenza ripiegata su sé stessa e incapace di alzare lo sguardo verso l’alto e verso l’altro. In questa prospettiva il prendersi cura degli altri è la via che ci permette di non morire, di uscire dal proprio mondo per vivere e alimentare il bene che è più forte di qualsiasi male, e morte. L’altra faccia della medaglia è l’amore. In effetti è soltanto l’amore che mantiene in vita anche chi muore. L’amore è il vero antidoto alla morte.
 
La riscoperta del valore dell’educare
“Cosa ci ha insegnato questo virus?”. Ci ha fatto riscoprire il valore dell’educare… che è sempre una questione del “noi”, di un’opera “crea-tiva”. Nel senso di cooperare alla creazione di una vita, ovvero di aiutare a comprendere che: “tu sarai sempre ciò che deciderai di essere”. Non si tratta soltanto di lavorare sulla persona, di dare una forma, come fece Michelangelo che dentro un blocco di marmo, prima di scolpire intravide la forma e l’immagine nascosta. Bensì di educare “con” la persona e per la persona: la quale è sempre un essere unico e originale, non di mia proprietà, ma affidato alla nostra responsabilità.
L’altro è una terra sacra, bisogna togliersi i sandali, ogni persona è opera di Dio, non nostra. Stiamo attenti all’egolatria educativa. Quel contorto pensiero che annebbia la ragione e spinge ad autoconvincersi che l’altro è un oggetto da modellare a proprio immagine e somiglianza. Mentre l’altro resta sempre altro da noi, quale immagine e somiglianza di Dio e non nostra. Non si deve mai dimenticare che l’educare è l’azione del cooperare alla generazione del mistero del figlio.
Nel Piccolo Principe si trova una nellissima pagina in cui racconta come dovrebbe essere una sana relazione educativa: bisogna prendersi cura della rosa. Il seme contiene tutto già dentro, deve solo essere accompagnato a sbocciare. Per questo è necessario stabilire un legame importante, ossia, una relazione di amore. Educare oggi a mio avviuso significa fare innamorare l’altro della realtà che lo circonda, ma prima ancora di quello che porta dentro, la bellezza che custodisce e ci custodisce e permtte di non abbrutirci, quella che spesso si trova come diamanti grezzi nelle caverne buie del proprie essere.
 
Un’icona evangelica: i discepoli di Emmaus
Il racconto evangelico dei due discepoli di Emmaus è l’icona perfetta di cosa vuol dire educare oggi: ci sono due discepoli tristi…delusi…(due ragazzi di oggi…) ritornano alle loro abitudini: tornano indietro e non vanno avanti, quando la giovinezza è tendere al compimento di sé stessi. Ovvero compie il movimento opporto, di gettarsi innanzi: la giovinezza è dare un contenuto ai sogni scriveva il filosofo tedesco Kirkegaard: infatti quando i sogni si rompono è la vita che smette di fluire.
Gesù si fa compagno di viaggio, viene da lotano come un forestiero, è in cammino: la vita è realtà in movimento non statica. Gesù ha fatto del cammino una scuola, apprende dalla vita reale, si espone, osserva, ascolta. mangia polvere, scrive nel fango. Il nazareno si fa vicino, diventa prossimo dell’altro, si mette accanto: non avanti e né dietro. Ma diviene compagno di viaggio, domanda, ascolta, solletica la memoria, racconta per farsi raccontare, suscita la nostalgia, muove il mondo dei desideri, scopre la nervatura della vita dei due giovani, e li aiuta a venire fuori: per essere più precisi aiuta loro ad aprire gli occhi affinchè decidessero di venire fuori in piena libertà e riprendersi il sogno di un’altra vita, più bella, quella che il maestro aveva loro provocato. Attraveso dei gesti semplici, che hanno l’odore del quotidiano, come lo spezzare il pane, condivide, fa comunione con loro: ed ecco che lo riconoscono, i gli occhi si aprono, comprendono che è lui, il Signore della vita.
L’educazione oggi è chiamata a generare legami che invitano a riconoscere ciò che si è, e vedere chi siamo, per condurre a chiedersi poi “per cosa sei fatto?”. Si tratta di una “vocazione”: non ardeva forse il cuore nel petto dei due? Cambia lo stato d’animo: dalla tristezza si passa alla gioia, cambia anche direzione di vita. Questo racconto ci insegna tra le altre cose che non si può educare senza la dimensione dell’affettività e della capacità empatica. L’educare non è solo nozioni, ma si tratta di valori e sioprattutto di una relazione “cuore a cuore”.
 
Ritornare ai maestri: Giovanni Bosco e Lorenzo Milani
In questo tempo di grande disorientamento, è bene recuperare gli insegnamenti dei grandi maestri di vita, per ritrovare la giusta rotta che ci faccia uscire fuori dall’emergenza in cui siamo senza troppi strappi. Qui vorrei richiamare due esempi accomunati dalla stessa passione educativa, che hanno attinto alla scuola del Vangelo e dall’insegnamento dell’educatore, Gesù di Nazareth: Don Giovanni Bosco e Don Lorenzo Milani. Don Bosco, il padre del metodo preventivo, sosteneva che l’educare è una questione di cuore. Lo diceva un “sognatore”, ovvero un uomo che sognava per ogni giovane, qualcosa di bello. Un prete che vedeva in ogni giovane un sogno di Dio da realizzare e non mortificare.
Il metodo educativo del sacerdote piemontese resta valido ancora oggi, anzi assume un significato del tutto nuovo, da recuperare, esso si muove su tre principi: 1) Ragione: l’educare è un dialogo e non un monologo, dove uno parla e l’altro ascolta muto, assorbe come una spugna; 2)Amorevolezza: l’educare richiede uno sguardo che consente all’altro di essere riconosciuto e non giudicato; 3)Religione: l’educare è un legame, si tratta di una relazione significativa, non è una ritualità e tanto meno una dinamica confessionale, un indottrinamento.
Don Lorenzo Milani, comunemente conosciuto come il priore di Barbiana, sosteneva che l’educazione “non è una questione di metodo, utile per carità, ma di passione”. Ciò che conta è la qualità del rapporto che l’educatore stabilisce con i suoi interlocutori. Infatti don Milani era diventato per i suoi ragazzi qualcuno, perché coltivava il rapporto umano con ciascuno dei suoi giovani, un legama libero, dai gesti autentici, difatti mangiava con loro, giocava con loro, studiava con loro, li conosceva. Per questo sapeva scorgere in ciascuno l’unicità e l’orginalità da accompagnare a venire fuori. Rispettava e valorizzava la diversità di ogni ragazzo.
Il motto che campeggiava nelle stanze della sua piccola scuola, quale bussola che indica la rotta da seguire era: “I care”, nessuno mi è indifferente. Difatti don Lorenzo ha prestato sempre massima attenzione ai ragazzi più difficili, perché sosteneva che il compito dell’educare infine è non perdere proprio loro, quelli che la società “per bene” non vuole vedere: “se si pensa solo ai più bravi e si perdono i ragazzi difficili, la scuola smette di essere scuola”.
 
Assumersi la responsabilità di salvare il mondo
L’educare oggi, non può prescindere da questa consapevolezza, di essere responsabili verso il fratello che ci sta accanto e la natura nella quale viviamo. Si tratta di assumersi la responsabilità dell’altro, non come proprietà privata, ma in quanto alterità che ci viene incontro e interpella. Chiama ad uscire da sé stessi ed essere custodi dell’altro. Nessuno si salva da solo. Il CoVid-19 ce lo ha ricordato in tutta la sua drammaticità. Questo tempo ci impone di recuperare una prospettiva per molto tempo dimenticata, cara a Dio: racconta il libro della Genesi che siamo stati fatti custodi del paradiso dell’Eden.
Affidandoci ul compito di prenderci cura di quanto ci è stato dato in dono. Spesso però rispondiamo come Caino al richiamo del Signore: “Caino dove è tuo fratello Abele?”; “Signore, sono forse io il custode di mio fratello?”. Come siamo tutti debitori dei beni che ci ritroviamo senza nostro merito, così siamo chiamati a renderci degni di questi beni prendendocene cura, riconoscendone la bellezza, il dono che sono per noi, rispettandoli e valorizzandoli. Il mondo, la terra, l’aria che respiriamo, i nostri fratelli sono un dono che dobbiamo sapere custodire e preservare, altrimenti questo tempo sarà passato invano.
La filosofa ebrea tedesca, Hanna Arendt, con la sua consueta incisività delinea cosa è l’educazione: «L’educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina, che è inevitabile senza il rinnovamento, senza l’arrivo dei giovani. Nell’educazione si decide anche se noi amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balia di sé stessi, se li amiamo tanto da non strappargli di mano la loro occasione d’intraprendere qualcosa di nuovo, qualcosa d’imprevedibile per noi: e prepararli invece al compito di rinnovare un mondo che sarà comune a tutti».
Educare oggi richiede di amare fino in fondo e gratuitamente, senza tornaconti personali, così tanto da non girare la testa dall’altra parte e abbracciare il mondo. L’amore non va al potere ma ha il potere di iniziare il cambiamento: una canzone interpretata da Fiorella Mannoia, L’amore va al potere afferma che l’amore non ha mai la maggioranza in questo mondo, ciò che conta spesso sono i soldi, il successo, l’amore pare non conta niente, ma nella vita di tutti i giorni ci rendiamo conto di quanto vale un gesto di amore, fa volare gli aquiloni, libera il bello. Per questo non bisogna perdere la speranza, con una carezza, un gesto di risurrezione noi possiamo fare opposizione creativa a chi dell’amore fa svuotato il suo significato più vero.
L’educare oggi richiede un cuore dilatato, capace di allargarsi per fare spazio all’altro. Da questo movimento interiore potrà nascere l’impegno per salvare quanto sta andando alla rovina. Non servono i grandi gesti per fare tutto ciò. Basta partire dai piccoli gesti quotidiani. A cominciare dai luoghi dove ci troviamo. A casa, al posto di lavoro, al parco giochi, ogni situazione è quella buona per dare avvio a ciò che papa Francesco ha definito la “rivoluzione della bellezza”. Il guaio è che ci si aspetta sempre che il cambiamento inizi dall’altro, mentre in realtà il cambiamento comincia da sé stessi. Dal nostro pensiero e dal nostro cuore. Che poi dovranno superare la prova del nove, quello delle azioni, per non restare soltanto delle nobili intenzioni, ma senza alcun effetto.
 
Coinvolgere i giovani
L’educare nella nuova stagione del mondo, comprende necessariamente coinvolgere chi profuma di vita e guarda al futuro: i giovani. Senza il coinvolgimento attivo delle nuove generazioni, l’azione educativa risulta un’operazione monca a cui verrebbe meno la vivacità, la creatività e la novità di chi per sua natura è portatore sano di speranza. Appunto i giovani. Anche se spesso vengono descritti come apatici e indifferenti a tutto, spesso spiaggiati sul divano, come ha scritto Michele Serra.
I giovani si adagiano quando mancano di esempi che spingono a salire la vetta della vita, soprattutto quando i loro sogni vengono continuamente mortificati da una società che investe nel consumo e poco nel futuro. Il loro tirare i remi in barca, dal mare della vita, nasconde in realtà un appello verso il mondo adulto, che organizza e struttura il futuro senza chiedere ai giovani cosa ne pensano. Senza domandare loro cosa credono, quello che sognano, che cosa li spaventa. Insomma senza coinvolgerli.
Per cui è necessario che noi per primi, gli adulti, vediamo la bellezza che i giovani portano dentro, che spesso tengono nascosta, i loro “pozzi zampillanti” e diamo fiducia, accompagnamo, ne sosteniamo i sogni. O meglio, facciamo partecipi i giovani della loro crescita e del rinnovamento del mondo. Nonostante i brufoli che hanno sul naso, i giovani sono portatori sani di bellezza. Ahinoi, molte volte, siamo proprio noi adulti a mortificare quella meravigliosa bellezza.
Il primo specchio dei ragazzi siamo noi, insegnanti, genitori, catechisti, preti, bisogna chiedersi quale bellezza diamo di noi stessi ai loro occhi, non quella esteriore, ma quella interiore, del nostro grado di innamoramento della realtà, della vita, della materia che si insegna, della famiglia, della fede. È innegabile, una persona bella dentro, appassionata, riconciliata, pacificata, libera, è capace di amore.
Pertanto educare non è qualcosa di astratto, ma un compito che richiede di conoscere prima di tutto se stessi, i punti di forza e i punti di debolezza, e scegliere poi di valorizzare i punti di forza, sui cui costruire l’autonomia e la consapevolezza di ciò che ciascuno è, ed è chiamato ad essere. Questa pandemia lo ha confermato senza equivoci, spesso noi ci fermiamo a lamentarci di ciò che non abbiamo, invece nell’emergenza abbiamo valorizzato quello che avevamo, ed abbiamo scoperto tante cose che non pensavamo di avere: abbiamo scoperto tanti pozzi zampillanti, di energia, da dove abbiamo attinto acqua pulita per sopravvivere e camminare verso il futuro.
 
di Paolo Greco