Ecumenismo – 500 anni della riforma: il Cristo inattuale
intervista a Fulvio Ferrario a cura di Domenico Segna

La Riforma ha con i suoi quattro «solus» – solus Christus, sola fide, sola gratia, sola Scriptura – ri- sostanziato l’Europa del messaggio cristiano.
– Domandiamo a Fulvio Ferrario, docente presso la Facoltà valdese di teologia, che cosa resta di questa volontà restauratrice della Riforma?
«Ho sempre amato e citato volentieri l’interpretazione della Riforma proposta da Nietzsche: da fiero avversario del cristianesimo, egli ha capito meglio di altri che Lutero, molto semplicemente, ha inteso prendere sul serio la realtà di Dio. Il Dio di Lutero, cioè, non è una metafora, un ideale regolatore, il garante di un sistema di valori, bensì il Dio vivente della Bibbia, che si comunica all’essere umano e interviene nella storia.
Nietzsche è scandalizzato dal fatto che la Bibbia venga seriamente considerata un luogo nel quale Dio stesso parla e che qualcuno pensi che davvero Dio ascolti la preghiera. In effetti, la Riforma ha fatto esattamente questo: all’alba della modernità, essa ha proclamato nuovamente, con grande forza, il messaggio di Gesù Cristo; e ha pregato, convinta, come i bambini, che Dio esaudisca chi si rivolge a lui.
Precisamente per tale motivo, essa è stata anche una forza di rinnovamento della civiltà europea e una delle matrici dell’Occidente moderno. Per contro, vedere nella Riforma anzitutto una forza di secolarizzazione (una lettura che unisce, peraltro, avversari e ammiratori) è, a mio parere, miope. Lutero e gli altri polemizzano contro la Chiesa in nome di Gesù; e le prime parole della Riforma (prima tesi di Lutero sulle indulgenze) sono un invito alla “penitenza”, cioè alla conversione».
– In una società come quella europea, dove le Chiese si svuotano, il protestantesimo mostra segnali di crisi probabilmente in modo più profondo rispetto al cattolicesimo sebbene gli stessi siano visibili anche in quest’ultimo. Come rispondono a questo stato di cose le Chiese storiche nate dal movimento riformatore del XVI secolo?
«La scristianizzazione europea è un fenomeno d’ampia portata e molto pervasivo e non stupisce che esso riguardi un po’ tutte le Chiese. Devo dire, tuttavia, di essere piuttosto preoccupato per quello che mi appare un atteggiamento troppo passivo di molte Chiese protestanti europee. Di fronte alla drastica diminuzione del numero dei membri e, di conseguenza, al ridimensionamento delle finanze e delle strutture, si assiste anzitutto a ristrutturazioni organizzative.
Esse sono ovviamente necessarie, ma non credo proprio che possano aggredire la sostanza del problema. Mi sembra che le Chiese protestanti che furono sociologicamente significative insistano a concepirsi come «Chiese di popolo», che costituiscono una componente, non sempre centrale, ma nemmeno irrilevante, del panorama sociale. Ebbene, tutto lascia credere che questa situazione sia tramontata.
Ormai le Chiese sono minoranze, non si diventa cristiani “automaticamente”, ma solo a partire da una motivazione abbastanza articolata: insomma, devi sapere perché sei cristiano. Alcune Chiese protestanti in Europa sembrano voler contrastare la crisi “abbassando” la richiesta, cioè annacquando ulteriormente il loro profilo.
Si tratta, a mio parere, di una strategia catastrofica: in primo luogo, essa è difficilmente difendibile sulla base della Scrittura; inoltre, nemmeno funziona. Se ti presenti in termini poco profilati, non interessi a nessuno».
 
Primo: vivere l’Evangelo
– La Chiesa è sempre creatura verbi: cattolicesimo, ortodossia, protestantesimo lo declinano, però, in modo diverso tra loro. Nel vocabolario protestante non ci sono problemi nell’usare il termine «confessione»: quale è stato e, soprattutto, quale potrà essere, nonostante le citate difficoltà, l’apporto originale che contraddistingue il mondo protestante nella varietà delle sue espressioni? Quali sentieri nuovi può percorrere una Chiesa evangelica superando anche consolidate tradizioni?
«È molto semplice: il protestantesimo è l’unica forma di cristianesimo ad aver compreso che la Chiesa di Gesù Cristo non si esaurisce in una delle sue espressioni visibili. Sia il cattolicesimo, sia l’ortodossia continuano a pensare in termini esclusivisti: solo noi siamo la vera Chiesa. Il cattolicesimo, qualche volta, lo fa in forma più sfumata, ma per ora, almeno a livello di magistero, la sostanza non cambia.
Una Chiesa evangelica, invece, è in grado di riconoscere altre Chiese come espressioni dell’una sancta, conformemente a quanto accade nel Nuovo Testamento. Questa è la ragione per la quale il movimento ecumenico, fino al Vaticano II, è stato, almeno sul piano istituzionale, una faccenda quasi esclusivamente protestante. Le difficoltà attuali dell’ecumenismo dipendono in larga misura proprio da questo: com’è possibile parlare di comunione (e non semplicemente di riassorbimento di alcune Chiese da parte di altre) se si ha una comprensione esclusivista della Chiesa stessa?».
– Leggo da un brano tratto dal suo ultimo libro, Il futuro della Riforma, uscito da pochi mesi: «La priorità, tuttavia, non consiste nell’allestire un’apologetica più adeguata a rispondere ai “nuovi atei”, bensì nel lasciare che la parola della croce determini la nostra immagine di Dio»: quale è l’immagine del Cristo della Riforma? Dov’è il suo «scandalo» in un mondo occidentale distratto e areligioso come l’attuale?
«Anzitutto mi preme sottolineare che il primo impegno della Chiesa non è convincere gli altri, ma vivere l’Evangelo. L’enfasi sulla “evangelizzazione”, diffusa tra i cristiani che si ritengono impegnati, spesso presuppone che la Chiesa già comprenda e viva il messaggio e che l’unico problema sia trovare il famoso “linguaggio” adatto all’“essere umano di oggi”. Nulla contro l’impegno di traduzione dell’annuncio (è anche il compito della teologia, cioè il mio mestiere); ma non è il problema principale. Una Chiesa che vive la fede, riesce anche a comunicarla. Laddove la realtà di Cristo è conosciuta perché vissuta, le parole si trovano. Spesso, una comunità riunita per il culto nella domenica sonnacchiosa delle nostre città dice di più su Gesù che un libro di cristologia (benché io stesso stia per pubblicarne uno…).
Quanto al Cristo della Riforma, mi concentrerei su tre punti: a) Gesù è il nome, il volto, l’espressione, la storia, dell’unico Dio (Gesù come evento di rivelazione); b) egli è il Crocifisso: il Dio cristiano è diverso da quello delle religioni e non è semplicemente il “grande architetto” dell’universo (teologia della croce); c) il riferimento a Gesù ti permette, giorno per giorno, di ricominciare nonostante ogni fallimento (Gesù come evento di “salvezza”)».
 
Una responsabilità per i protestanti
– Il protestantesimo ha da sempre posto al suo centro Cristo e, dunque, una responsabilità del credente caratterizzata da una rigorosa etica che chiama a libertà. Quale idea di responsabilità si delinea per tutto il mondo cristiano odierno posto a confronto con il Lutero de La libertà del cristiano e del De servo arbitrio?
«Ne Il futuro della Riforma mi sono permesso di rivolgere qualche obiezione all’idea corrente di libertà come “autonomia” o “autodeterminazione”. A mio avviso, la Riforma, ma soprattutto la Bibbia, comprendono l’essere umano come drammaticamente condizionato da poteri che lo vogliono asservire.
Il soggetto non è affatto “libero”, bensì coinvolto in un intreccio inestricabile di poteri. La Scrittura osa affermare che il Dio di Gesù Cristo libera dai poteri diabolici di questo mondo. Questa è la ragione per la quale una realtà così “non politica” come il cristianesimo delle origini è stata ferocemente perseguitata dal potere romano. Prima ancora: è la ragione per la quale il non politico Gesù è stato ucciso dal potere imperiale, per una volta d’accordo con l’aristocrazia del tempio».
– La Riforma: un storia inattuale? Non sarà questa, paradossalmente, la sua «forza»?
«Ritorniamo a Nietzsche, che si arrabbiava perché il messaggio protestante gli sembrava scandalosamente inattuale. In realtà, è Gesù a essere inattuale, lo è sempre stato: la sua persona è la critica al culto del presente e dei suoi stili di vita e di pensiero. Per la Chiesa (non solo per quella protestante, naturalmente), la sfida consiste nell’essere fedele all’inattualità di Cristo.
Non, cioè, a qualsiasi inattualità: l’arroccamento nelle ideologie pseudocristiane del passato non è di per sé migliore del tentativo patetico d’adeguarsi a tutti i costi all’ultima moda. Quella di Cristo è un’inattualità qualificata: Gesù è sempre “contemporaneo”, come diceva Kierkegaard, ma lo è come colui che inquieta la contemporaneità, la critica, la giudica e in tal modo la perdona, cioè la valorizza autenticamente.
Il protestantesimo non ha certo l’esclusiva di questo messaggio. In passato, però, esso ha contribuito a rimetterlo a fuoco, il che costituisce anche una responsabilità per l’oggi».
a cura di Domenico Segna, in “il Regno” – Attualità – n. 16 del 15 settembre 2016
 
 
Ecumenismo – 500 anni della Riforma: voci di donna
intervista alla pastora Lidia Maggi a cura di Domenico Segna

La pastora battista Lidia Maggi, teologa nota anche per il suo impegno in campo ecumenico, che esercita il suo ministero a Varese. Il centro del colloquio è il ruolo della donna nella vita sociale e della Chiesa (ndr).
– Potremmo definire Katharina von Bora, la monaca cistercense convertitasi assieme ad altre otto compagne al protestantesimo e poi divenuta sposa di Martin Lutero, la prima suffragetta della storia moderna? In altre parole, che cosa ha comportato l’avvento della Riforma nella vita quotidiana delle donne?
«La Riforma, all’interno della Chiesa, riscopre il primato della parola di Dio, arrivando a mettere al centro della fede il rapporto con la Scrittura. Lo fa in un contesto dove l’istruzione era privilegio di pochi, per lo più maschi e benestanti. Esortare, incoraggiare e promuovere l’alfabetizzazione delle persone, al fine di permettere a ogni credente di leggere e studiare la Bibbia, ha rappresentato una vera rivoluzione culturale, di cui anche le donne hanno beneficiato.
Incoraggiate a imparare a scrivere, leggere, memorizzare interi paragrafi della Bibbia, le donne, anche le più semplici, vengono strappate all’ignoranza. La memoria della necessità di istruire uomini e donne, nelle Chiese, per permettere loro di investigare personalmente le Scritture, è conservata nel modo col quale ancor oggi vengono chiamati gli incontri di formazione biblica per bambini, ragazzi e adulti: «scuola domenicale», espressione che può creare qualche disagio a bambini e bambine che temono di trovarsi a scuola anche di domenica. Espressione mantenuta però anche per non dimenticare il contributo delle Chiese riformate all’alfabetizzazione di tutti, senza discriminazione di genere».
– «La donna impari in silenzio, in piena sottomissione» (1Tm 2,11): spesso si fa riferimento a questo passo per suffragare una presunta misoginia della Bibbia. In essa tuttavia, sia nell’Antico sia nel Nuovo Testamento, il ruolo delle donne è molto più complesso. Quale lettura viene data dal mondo evangelico al rapporto tra la Bibbia e le donne? La Bibbia delle donne è solo un titolo dell’editrice Claudiana oppure qualcosa di più? Chi sono le donne di Dio?
«C’è una singolare comunanza tra ciò che è successo alla Scrittura e la vicenda delle donne all’interno delle Chiese. Un’analoga condizione le accomuna, nel bene e nel male. Come si è passati da una Chiesa primitiva, in cui trovavano espressione una pluralità di ministeri e di doni che coinvolgevano uomini e donne, a un’organizzazione ecclesiale in cui i ministeri sono stati accentrati e le donne sempre più marginalizzate; così anche la Scrittura ha vissuto una medesima parabola.
Da Parola consegnata a una comunità tutta profetica è divenuta libro sequestrato, Parola in esilio. Solo pochi decenni fa, prima del concilio Vaticano II, per molti cattolici la Bibbia era considerata il libro dei protestanti, da non leggere senza permesso e mediazione magisteriale.
Dunque, donne e Scrittura, accomunate in un’analoga vicenda di riduzione al silenzio, sono passate dalla libertà evangelica al sospetto ecclesiastico. Tale problema riguarda anche le Chiese di tradizione riformata che, pur avendo messo al centro della fede la Parola attestata nella Bibbia, non sempre l’hanno onorata nel modo di leggerla e interpretarla.
 
Onestà di fronte alla Bibbia
Il mondo evangelico è, per l’appunto, un mondo, abitato da sensibilità differenti: vi sono Chiese dove le donne sono state accolte e riconosciute nella loro ministerialità; e Chiese in cui esse, proprio come nel mondo cattolico, faticano a farsi ascoltare. Se è bastato mettere al centro la Bibbia per strappare dall’analfabetismo una comunità, non è sufficiente leggerla e interpretarla per ridare voce alle donne. Dobbiamo domandarci «come» la leggiamo. Come passare da una lettura che ci conferma nelle nostre certezze (i famosi dicta probantia medioevali) a un autentico ascolto, capace di cambiare e convertire i nostri sguardi.
Solo se fuoriusciamo da giudizi frettolosi e letture ideologiche, potremo provare a dare credito alla Scrittura, senza per questo rinunciare all’onestà intellettuale. Inizieremo a fare i conti con un libro che, a più riprese e con avvincente ironia, reclama che gli vengano restituiti i lineamenti del proprio volto.
Una recriminazione a cui le donne non possono rimanere indifferenti. Perché, finora, il volto della Scrittura è stato sostituito da una sua caricatura: una distorsione, in cui i tratti femminili sono stati resi silenti e i tratti maschili sono stati enfatizzati, esasperati. È giunto il tempo di aprire questo libro e di ascoltarlo al di là delle secolari interpretazioni (impossibile saltarle e, insieme, letale non contestualizzarle, non porle in tensione tra loro), alla ricerca del volto, anzi, dei volti di quel libro al plurale.
Scopriremo così che le donne, nella Bibbia, pur muovendosi in un contesto patriarcale, vivono un forte protagonismo. Non è un caso che alcuni libri biblici sono dedicati a figure femminili (Rut, Ester, ma anche il canto d’amore più bello: il Cantico dei cantici). Il mondo biblico non è un universo ideale, fuori dalla storia, quasi un’isola felice. La Bibbia ha la pretesa di attraversare la realtà senza tacerne le contraddizioni, le ferite inferte al creato. Non rimuove nulla e tutto mette in questione. Il dominio maschile sulle donne è una delle problematiche affrontate con coraggioso realismo.
Colui che viene a redimere il mondo forma una comunità diversa rispetto ai valori del mondo, dove al centro ci sono gli ultimi. Egli esorta a non adeguarsi ai criteri mondani di competizione e potere: “Ma tra voi non sia così”. La Chiesa, nel suo momento sorgivo, è stata in grado di raccogliere quella visione e di viverla. Le donne sono state accolte come discepole, apostole, profetesse, alla stessa stregua degli uomini maschi.
Certo, tale libertà ha spaventato presto alcuni capi della Chiesa; e la lettera a Timoteo, citata nella domanda, ne è una dimostrazione. Ma è proprio questa reazione “scorretta”, direi quasi isterica, di chi richiama al silenzio le donne che attesta la grande libertà di cui godevano le donne nelle Chiese.
Se, agli inizi del II secolo, un responsabile di Chiesa, appartenente alla scuola paolina, sente il bisogno di mettere ordine e limitare la libertà di movimento di donne non sposate, sottratte al controllo maschile, correggendo in tal modo il tiro rispetto a quel modello di Chiesa dove, in Cristo, non conta più essere ebreo o straniero, schiavo o libero, uomo o donna, vuol dire che qualcosa era davvero cambiato nelle Chiese per le donne. E così il patriarcato, un demone mondano scacciato dalla Chiesa, rientra strisciante pochi decenni dopo l’esperienza sorgiva.
Leggere la Bibbia, lasciando che il mondo femminile si riveli e riacquisti voce, non è solo un atto di giustizia verso le donne, che ancora oggi sono afone nelle Chiese. In gioco c’è Dio stesso, la sua immagine, il suo volto.
Il testo di Genesi su “maschio e femmina” a immagine e somiglianza divina, non rimanda solo all’istituzione del matrimonio, ma a Dio stesso che, per non essere trasformato in idolo, ha bisogno di essere annunciato con voci plurali: maschile e femminile, per l’appunto. La posta in gioco è nientemeno che teologica.
 
Donne di Dio
Chi sono le donne di Dio? Nella narrazione biblica, sono quelle che hanno fatto esperienza del divino. Donne diverse: alcune molto forti, come Sara; altre, vittime, come Agar, la schiava egiziana. Donne coraggiose, come Sifra e Pua, le due levatrici che disobbediscono agli ordini di morte del faraone. Donne con funzione di guida, come Miriam, la sorella di Mosè, o Debora, giudice e condottiera.
Donne come Maria, con la sua fede curiosa, piena di domande; come Elisabetta, capace di accogliere e sostenere una giovane sorella. Le donne intorno a Gesù, a iniziare dalla Maddalena. Donne protagoniste nelle comunità paoline, come Febe, diacono a Corinto. Donne forti e deboli, coraggiose e codarde. Dio non cammina solo con gli uomini maschi né con chi è perfetto. Donne afferrate da Dio per intraprendere un esodo dalla terra di schiavitù del patriarcato verso la terra promessa.
Un processo di liberazione che ha i suoi arresti, che trova resistenza nelle stesse donne. La chiesa poteva essere questa terra promessa per le donne; e invece si è spesso rivelata come luogo d’oppressione e silenzio. Oggi, le donne di Dio sono tutte coloro che stanno lavorando per trasformare in un luogo più accogliente la terra, a iniziare dalle Chiese. Donne diverse per tradizione, credo religioso, cultura; ma animate dalla stessa passione per la vita. Donne che non si rassegnano al dominio patriarcale, ma anche donne che lo subiscono senza pensare che per loro sia possibile un altro modo di vivere.
Le donne di Dio sono anche tutte quelle pensatrici cattoliche che, nonostante la mancanza di spazio nella loro Chiesa, studiano, insegnano, scrivono, pubblicano: teologhe e bibliste acute che, dall’interno, provano a render più accogliente e ospitale la Chiesa. Limitandomi al panorama italiano, penso a Marinella Perroni, Serena Noceti, Cristina Simonelli, Stella Morra, Lilia Sebastiani, Adriana Valerio, Benedetta Selene Zorzi, Rosanna Virgili…; alle suore Orsoline di Vicenza, con il loro centro “Presenza donna”: tutte donne di Dio. Quanta ricchezza nel cattolicesimo italiano. Se ne dovranno accorgere i vertici, prima o poi!».
Il pastorato femminile sarebbe dovuto essere qualcosa di connaturato nelle Chiese nate dalla Riforma, segnatamente in quelle di matrice calvinista; tuttavia, anche in esse il processo per giungere a esso è stato lento. Oltre al maschilismo, quali le cause di questo ritardo? Cosa significa per una donna essere pastore, quale diverso surplus offre rispetto al pastorato maschile?
«Perlopiù si pensa alla Riforma come a un evento puntuale, accaduto in un preciso momento storico, che per convenzione si fa coincidere con il 1517, anno in cui Lutero innescò con le sue Tesi un vivace dibattito sulla fede e la Chiesa. La Riforma è piuttosto un processo, innescato secoli prima e ancora in corso. Ecco perché si parla di “Ecclesia reformata semper reformanda”. Il cambiamento fa parte dell’essere del discepolo e della comunità dei discepoli e si concretizza nella continua necessità di sottoporsi docilmente alla guida dello Spirito di Gesù, che fa ogni cosa nuova.
La Riforma, nel suo momento sorgivo, non ha riflettuto direttamente sul pastorato femminile; e tuttavia, ha innescato dei processi che hanno portato, come frutto tardivo, a questo riconoscimento.
Aver strappato la Chiesa a una visione clericale, mettendo al centro la vocazione di ogni singolo credente in rapporto diretto con Dio e le Scritture, ha gettato un seme che può annoverare tra i suoi frutti anche il pastorato femminile.
 
Il ritorno del patriarcato
Un frutto che ha faticato a maturare, proprio a causa del maschilismo che non è solo un problema individuale, ma sociale, collettivo. Le Chiese vivono immerse nelle diverse società e ne respirano i profumi come anche i veleni. Questi ultimi entrano nelle Chiese e ne contaminano le strutture, il clima, lo sguardo.
Si pensa spesso che il mondo entra nelle Chiese con l’emancipazione delle donne, una visione laica della vita, la libertà. In realtà, la vera secolarizzazione è iniziata nelle Chiese quando il patriarcato, scacciato dal cristianesimo delle origini, è rientrato a pieno titolo nelle strutture delle Chiese. I modelli patriarcali hanno segnato l’organizzazione interna alle Chiese; e quel “tra voi non sia così” è stato disatteso.
Anche le Chiese della Riforma hanno subito questo avvelenamento. È solo per grazia che lo Spirito ha guidato le Chiese protestanti a un ravvedimento che non può dirsi concluso.
Vengo alla questione del pastorato. “Ma è corretto dire pastora?” È con questa domanda che, in genere, si manifesta quello stupore che coglie l’interlocutore, quando si trova di fronte a un ministro che non solo è sposato ma addirittura donna.
Se, nella Chiesa cattolica, il celibato è condizione per lo svolgimento del ministero presbiterale, tale condizione non sussiste nelle Chiese della Riforma, dove è permesso sposarsi e avere dei figli. L’impegno familiare non è vissuto in conflitto con il lavoro pastorale; anzi, la famiglia diventa per il pastore e la pastora un’opportunità per maturare uno sguardo più concreto sulla vita di coppia, sui problemi educativi ed economici.
Nel passato, le Chiese più tradizionaliste arrivavano addirittura a vedere nel pastore sposato la possibilità di un effettivo beneficio per la Chiesa: “Prendi due e paghi uno”! Il pastore non ancora maritato si trovava, di conseguenza, svantaggiato rispetto al collega ammogliato. La moglie del pastore aveva un ruolo importante nel gestire le visite in ospedale, nella cura dei locali (fiori, biscotti alle agapi…), nel lavoro con i bambini o nelle incombenze di segreteria. Se poi questa sapeva anche suonare l’organo, la Chiesa non poteva pretendere di meglio.
Oggi, questa dinamica è quasi del tutto venuta meno. Sempre più le Chiese imparano a ridimensionare le proprie aspettative nei confronti della coppia pastorale, arrivando ad accettare che un pastore possa separare la propria vita privata dal ministero nella Chiesa.
E la figura della moglie di pastore è stata sostituita da quella di donne, ministre del Signore. È, ormai, da diversi decenni che le Chiese riformate sono guidate da donne. Non senza resistenze, le donne pastore si sono guadagnate sul campo una credibilità anche nei confronti di chi faticava a vedere in una donna un ministro di Dio. Nelle Chiese riformate, generalmente, il ministero femminile è ormai riconosciuto e apprezzato.
Negli ultimi decenni, le donne hanno aiutato le Chiese a comprendere quanto possa essere efficace una parola di genere nell’ascolto pastorale, nella predicazione e nella formazione teologica. A mio giudizio, il contributo più prezioso portato dal ministero femminile consiste nell’aver rimesso al centro del dibattito ecclesiale la necessità di recuperare una ministerialità diffusa, una collegialità di ministeri effettiva. Non è questo il senso del battesimo? Un segno del patto, dato non solo agli uomini maschi con la circoncisione, ma a tutta la comunità, senza distinzioni di genere, classe e nazione».
 
Il discernimento ci accomuna
– Tra cattolici e protestanti nel corso della storia gli approcci alla famiglia sono stati differenti: basta vedere un qualsiasi film americano per rendersi conto di quanto diversa sia la concezione, anche antropologica, che fa da sfondo. Che lettura dà della recente esortazione apostolica Amoris laetitia?
«Chissà perché, tutte le volte che s’intervista una pastora, si arriva a parlare di famiglia! Sono automatismi interessanti. Le riconosco, però, il modo tutt’altro che stereotipato di porre la domanda, avendo evitato di chiedermi, come solitamente avviene, come concilio il ministero con la famiglia. Mi domanda invece un parere su un documento importante per il magistero cattolico.
Sarebbe banale e scorretto rispondere in poche battute su un’esortazione apostolica corposa, forse la più articolata scritta dal vescovo di Roma, Francesco. Un testo poliedrico, che restituisce respiro alla complessità dell’esperienza di coppia. Ho trovato particolarmente significativo il capitolo ottavo, che sintetizza un cambiamento di sguardo nei confronti delle famiglie ferite. Il titolo potrebbe riassumere l’intera esortazione: accompagnare, discernere e integrare la fragilità. Al centro, l’attenzione ai corpi concreti più che a dottrine e norme canoniche a cui adeguarsi.
Uno sguardo di misericordia, che prova a sospendere il giudizio e la condanna, per discernere. E una volta aperto il cantiere del discernimento, le analisi possono essere differenti. Ma la diversità di sguardi, di sensibilità, di valutazioni anche etiche, non significa necessariamente incompatibilità. Le Chiese, al di fuori di quell’orizzonte ideologico preoccupato di definire e giudicare, possono arricchirsi reciprocamente anche a partire dalle differenti valutazioni di cui si fanno portavoce. Certo, bisogna fuoriuscire dagli slogan gridati, stile “Family day”, e virare decisamente nella direzione dell’ascolto attento e non giudicante della realtà e della Parola. È lungo questa strada, mi sembra, che Francesco sta muovendo passi importanti, che segnano l’inizio di un cambiamento di rotta rispetto all’impossibilità di un dibattito non ideologico, come al tempo dei “valori non negoziabili”».
– Chi è Lidia Maggi, nostra sorella?
«Mi piace questa domanda che include già la risposta più appropriata: “nostra sorella”. Mi sento sorella in quanto parte di quell’unica Chiesa che si manifesta nella pluralità delle confessioni. La passione ecumenica mi ha regalato il dono meraviglioso di scoprire nelle altre confessioni la bellezza e la ricchezza di diverse letture delle Scritture, di tradizioni che provano a dire l’Evangelo nel presente, in dialogo con le generazioni che ci hanno preceduto. Oltre al dono di tanti fratelli e sorelle che ho avuto la gioia di conoscere e di stimare.
La mia fede sarebbe molto più povera senza questi sguardi, che curano i miei occhi miopi mostrandomi una realtà complessa. La Chiesa è “una” non perché le confessioni sono omologate a un solo modello, a un pensiero unico; piuttosto, perché la diversità di ogni tradizione non è motivo di divisione. Una e plurale. Questa pluralità ci strappa dalle nostre granitiche certezze, ci apre al confronto, per ricercare insieme ciò che lo Spirito dice alle Chiese.
Ho imparato che la voce di Dio arriva più chiaramente quando l’altro, l’altra, mi parla. L’ecumenismo mi ha strappato dall’idolo di una fede autoreferenziale e competitiva e mi ha donato tanti fratelli e sorelle. Le Chiese stanno imparando, dopo secoli di rapporti conflittuali, a fare la pace, a riconoscersi nelle loro diversità e a collaborare per rendere un po’ più ospitale il mondo, nostra casa comune. E non c’è chi non veda quanto sia prezioso questo cammino, ancora agli inizi, in un mondo frammentato e in preda all’inimicizia».
a cura di Domenico Segna, in “il Regno” – Attualità – n. 16 del 15 settembre 2016