«Dispercezione» e «infodemia» sono due parole da conoscere per prendere coscienza di un pericolo serio, quello di essere ancora più vulnerabili perché confusi da troppe informazioni superficiali e ingannevoli. Come difendersi?
«Dov’è la sapienza che abbiamo perduto nell’informazione?» se lo chiedeva il poeta T. S. Eliot nel 1922, un secolo fa. Il poeta, lungi dall’essere quella creatura persa in sogni lontani e astratti, è di solito la vera voce dell’attualità. In questo caso ci indica una distizione capitale: sapere non è informarsi. La sapienza è un vocabolo inerente il gusto (il latino sapio significa «avere sapore»), ma noi lo riduciamo a una abbuffata di cibi insipidi e per nulla nutrienti. È il dramma dell’infodemia ed è ciò a cui Alessandro D’Avenia dedica il suo affondo riflessivo del lunedì dalle colonne del Corriere.La faccenda è proprio urgente da sviscerare, perché siamo in piena emergenza non solo sanitaria ma anche da bulimia di news. Da una parte c’è il cinismo di un certo tipo di comunicazione che misura il valore dell parole solo sulla quantità di clic che generano, dall’altra c’è gente affamata di senso in mezzo a una pandemia che ha confuso ogni coordinata di riferimento.
 
Dispercezione
Una recente ricerca di Ipsos (su soggetti di età diverse in 32 Paesi) ha analizzato il livello di «dispercezione»: la percezione errata di un fatto a causa della sua narrazione. L’Italia risulta ai primi posti nel campionato di chi «crede» invece di «sapere». I dati del 2019, relativi alla percezione delle cause di morte, dicono che gli italiani pensano per esempio che ogni anno: il 10% delle persone muoiano per problemi cardiovascolari e sono invece il 35%; il 6% per disturbi neurologici contro il 14%; il 9% di violenze contro lo 0,1%; il 10% per abuso di sostanze contro il 2%; il 7% per suicidi contro lo 0,7%.
Quando c’è il prefisso dis occorre stare ben svegli, pericolo in vista! Distrazionedisagiodisgrazia sono condizioni negative perché subiscono la forza di qualcosa che separa e disperde. La dispercezione chiamata in causa da D’Avenia è, dunque, uno smarrimento in tante direzioni sbagliate che subiamo informandoci troppo e male. Anziché seguire briciole che ci riportano a casa come Pollicino, siamo ingannati a prendere direzioni di pensiero che ci catapultano in un labirinto. Ci pare di camminare e procedere in avanti, ma siamo in gabbia.
E non è neppure questo il peggio: Siamo dentro un Matrix informativo e performativo, in cui le notizie non puntano alla verità ma alla viralità: si diffonde un’infodemia (epidemia di informazioni) che non rende più consapevoli e razionali di fronte alla realtà, ma anzi orienta i comportamenti a partire da percezioni falsate. Le notizie basate sulla paura, con le loro frequenti e appaganti scariche di dopamina, danno dipendenza, ma anche l’ansia tipica dell’eccesso di questo neurotrasmettitore nel nostro cervello.
L’esempio di Matrix ci facilita la comprensione, ma D’Avenia si appoggia soprattutto a un autore di fantascienza americano per offrire una traduzione visiva efficace: si tratta di Philip K. Dick, noto ai più per aver ispirato film come Blade Runner e Minority Report. Anche la – buona – fantascienza si rivela un ottimo serbatoio per riflettere sul tema della libertà umana alle prese con le trappole del potere. Nel racconto Formica elettrica di Dick c’è un robot che si rende conto di essere stato manipolato grazie a un alimentatore di realtà fissato nel suo “cuore”: in pratica – proprio come in Matrix – la realtà non è tale ma viene creata in modo fittizio e poi infilata dentro la creatura. Non è solo fantascienza, ahimé. Un surrogato di realtà nient’affatto autentica ci viene infilato quotidianamente dentro in molti modi e siamo noi – inconsapevolmente – ad aprire la porta all’inganno.
 
Manipolabili
Ci troviamo nel bel mezzo di una pandemia. Siamo confusi perché gli eventi sono debordanti rispetto alla nostra capacità di comprensione; ci pare di non avere i contenitori giusti per separare, mangiare e digerire quello che accade. La paura di rimanere spiazzati e senza appigli ci fa prendere un grosso abbaglio sulla sapienza, la confondiamo con il «riuscire a essere al corrente su tutto». Non è molto diverso dalla logica dell’accaparramento nei supermercati, la sopravvivenza si trasforma in un’abbuffata (che ha effetti collaterali non trascurabili).

 […] l’iper-comunicazione non aiuta a capire e agire meglio, ma alimenta uno stato di paura costante, che spesso ci rende più dipendenti e manipolabili, come mostra il passare da certe convinzioni e azioni a quelle opposte nel giro di poche ore. (Ibid)

È verissimo, me ne rendo conto su me stessa. Quando un tema mi affligge, la tentazione grossa è quella di raccogliere più informazioni possibili, senza fare troppa attenzione alle fonti. La preoccupazione, nei momenti di agitazione, è quella di accumulare dati, quasi si trattasse di pezzi indispensabili per finire un puzzle. La visione d’insieme e il giudizio però non arrivano, anzi mi ritrovo a essere una banderuola al vento che cambia – appunto! – opinione di continuo. «Dov’è la sapienza che abbiamo perduto nell’informazione?» incalza Eliot in sottofondo. E ha ragione. La sapienza è qualcosa di opposto all’opinione e all’informazione; è quella roccia a cui dovremmo aggrapparci per salvarci dai molti predoni che ci vogliono iper-informati e proporzionalmente confusi. Sì, ma dov’è questa sapienza? Come la riconosco?
 
Una relazione la riconosci, e anche una bugia
Il tema della conoscenza e della comunicazione sono argomenti infiniti, bellissimi. L’uomo ha la parola perché riconosce da solo di essere incompleto. Questo è il primo asse cartesiano di cui non dimenticarsi. Dobbiamo tenerlo a mente perché noi parliamo sempre e comunque, e riceviamo altrettante cascate di parole.  A fronte della cosiddetta «infodemia» di cui siamo vittime, c’è una consapevolezza semplice che possiamo curare e custodire per opporci all’invasione di informazioni che ci priva di conoscenza e ci rende vittime ancora più vulnerabili. Se la parola nasce dal sentirsi incompleti come individui, la parola è di conseguenza un bisogno di relazione con gli altri. E cos’è una relazione? Vale la pena riascoltare un altro contributo video di D’Avenia di presentazione del suo L’arte di essere fragili. In quel contesto lo scrittore affermò: “La relazione è dare all’altro ciò di cui l’altro ha bisogno”.
Semplice, granitico. Con questo paio di occhiali si fa piazza pulita di molte parole che sono in realtà menzogne travestite. Quando leggo o ascolto un testo posso innanzitutto chiedermi: chi scrive vuole colmare un bisogno autentico dell’ascoltatore? Molto più spesso ci imbattiamo in articoli in cui la voce narrante accarezza con grande vanità solo le proprie opinioni e vuole metterle su un piedistallo ben visibile. Altri testi sono scritti apposta per farci cliccare sul tasto “avanti”, a mero scopo di guadagno. Altri ancora sono come una carta da parati colorata in una stanza vuota, nascondono il nulla che non sanno riempire. Chi scrive mi sta pensando? Lo muove una premura umana o un interesse diverso (egoistico o di profitto)? Ecco domande da tenere deste. Quando è inifluente la presenza di un ascoltatore e si punta solo su un pubblico inerte e numeroso, allora senza dubbio siamo al cospetto di informazioni irrilevanti e dannose.
Ho tenuto per ultimo il nucleo più vivo dell’affermazione sintetica di D’Avenia. Per riconoscere una vera relazione, occorre partire dal bisogno. Mettere a fuoco qual è il vero motore da cui partono le nostre domande è ciò che merita tutta la nostra energia di discernimento. L’agitazione che mi spinge a cercare risposte in ogni pagina scritta, da cosa nasce? La paura che stimola l’idea che più informazioni raccolgo più sono al sicuro, da cosa nasce? Ci vuole tempo e pazienza per rispondere a questi interrogativi, ed è un tempo tutto guadagnato e da consumare in silenzio.
Non a caso, spesso, ci riempiamo di notizie da leggere perché il nostro primo timore è rimanere a tu per tu con ciò che ci grida dentro. Cerchiamo informazioni che siano un rumore più forte, per coprire il nostro lamento o pianto. Come di recente ci ha ricordato Suor Marianna, fare silenzio è un impegno benedetto perché è lì che Dio parla. La sua Parola attende, paziente, che il nostro bisogno la cerchi. Questa esperienza è essenziale per poter poi incontrare le altre mille voci umane in cui ci imbattiamo: la preghiera è la prima relazione, e detta il passo ed è la pietra di paragone per giudicare ogni altra relazione e comunicazione.
Annalisa Teggi, Aleteia, 5 Maggio, 2020