Giobbe è il libro più possente del Testo biblico: quello in cui l’umiliato, il vessato ingiustamente, si ribella alla legge imposta da Dio. È il grande libro dell’urlo e del nulla, da cui è impedito trarre pia morale: schiantato dall’orazione di Dio – che va dal capitolo 38 al 41, un immane poema cosmico – Giobbe s’inchina, “Capisco: tu puoi tutto, l’impossibile per te è niente”. La risposta autentica l’ha data prima: “Sono niente, cosa posso dire? Con la mano mi chiudo la bocca”. L’uomo è niente, carne che si sradica il verbo di bocca, mano come sutura – proprio questo niente, però, obbliga Dio a rivelarsi. Ogni morale è irritante perché Giobbe nasce per tacitare i moralisti: non è vero che il giusto è prediletto da Dio, la vita insegna che il perverso sovrasta il giusto, che la vita è male.

 

Nell’epistolario di Fëdor Dostoevskij edito dal Saggiatore – un libro di cui bisognerebbe parlare ogni giorno – capito su una lettera del 10 giugno 1875, indirizzata alla moglie. “Leggo il libro di Giobbe e mi conduce a una dolorosa estasi; smetto di leggere e giro un’ora per la stanza, quasi in lacrime, e se non fosse per le orribili annotazioni del traduttore, forse, sarei felice. È strano, Anja, ma questo libro è uno dei primi che mi ha colpito in vita mia e allora ero quasi un infante!”. Giobbe è il libro più possente del Testo: quello in cui l’umiliato, il vessato ingiustamente, si ribella alla legge imposta da Dio. (…)
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Secondo Carducci, Giacomo Leopardi è “il Job del pensiero italiano”. Leopardi, piuttosto, si esercita a tradurre il libro di Giobbe – i critici confondo le date: c’è chi crede che la carta sia del 1816, chi posteriore al ’21. Il poeta attacca così:
Uom fu che ’l mal fuggia che Dio temea,
Retto, illibato in Us. Giobbe ’l nomaro.
Sette figliuoli e tre figliuole aveva.
Fu l’aver suo divizioso e raro…

Non va oltre un’altra manciata di versi, colto da inquietudine implosa, da ulcera. Per congiunzione d’indole, il poeta che riassume l’esistere nell’endecasillabo più cupo della letteratura italiana (“è funesto a chi nasce il dì natale”) si fa fratello del profeta che urla, “perché non sono morto appena uscito dal grembo?… perché dare alla luce l’infelice?”.
Leopardi traduce un brandello della leggenda originaria di Giobbe. Da essa sappiamo che il giusto è conteso per gioco tra Satana e Dio, e che Dio concede infine a Satana di provare il suo ‘eletto’ fino all’umiliazione, fino all’estremo dolore – la perdita del possedimento, la morte dei figli, il corpo orribilmente piagato. Non esiste risarcimento a questo scherzo: il Dio sibillino sibila, “ecco: quanto è suo è tuo, ma non ucciderlo”, e Satana tutto preda, tutto si prende, morde.
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Guido Ceronetti – la sua versione del Libro di Giobbe è del 1972, giace in catalogo Adelphi 
“temporaneamente non disponibile”, perché?; se ne può acquistare a caro prezzo, 10,99 euro, solo l’ebook – spiega il senso del libro in un saggio, Sulla polvere e sulla cenere, che attacca così: “Iob dice che i buoni non vivono e che Dio li fa ingiustamente morire. Gli amici di Iob dicono che i cattivi non vivono e che Dio li fa giustamente morire. La verità è che tutti muoiono. La Scrittura finisce per dire, con questo linguaggio bicorne, quello che tutti sappiamo: nessuno vive. E si serve di questa verità inferiore per comporne una superiore, che è la sua verità unica: solo Dio vive”.
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La leggenda termina con Giobbe risarcito da Dio: tutto ciò che Satana ha sottratto gli è restituito, con effluvio di fortune – meglio: “raddoppiò quanto aveva posseduto” –, tanto che egli “morì, vecchio e sazio di giorni”. La storia di Giobbe, in fondo, è una storia di morte e resurrezione: morto al favore di Dio, vi risorge. Ciò che è morto, però – il pio Giobbe, giusto e ricco – non ritorna mai esattamente uguale. Dopo aver pigliato Isacco come olocausto per Dio, Abramo – uomo dalla fede sconvolta – non è più lo stesso. Durante la prova, Dio uccide l’uomo provato, e lo riplasma. “Ristabilì la sorte di Giobbe”, è scritto – ma Giobbe, ristabilito, è un altro. C’è qualcosa di terribile in questo: Dio, comunque, si nutre del prescelto, lo vuole, interamente; Dio è il tremendo: forse lo si prega proprio per tenerlo lontano.
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Qualche anno fa Edoardo Castagna ha pubblicato con Medusa L’uomo di Uz. Giobbe e la letteratura del Novecento. Ho una libreria che inghiotte libri: quello non lo ritrovo, ma qui potete ascoltare un dialogo con Castagna pubblicato dalla Radiotelevisione svizzera. Invece, ho ritrovato un libro di Harold Bloom – secondo me il più bello –, Rovinare le sacre verità, in cui il critico americano scrive che “il Libro di Giobbe è un libro profondamente perturbante. Come Re Lear, che ne è stato chiaramente influenzato, il Libro di Giobbe tocca i limiti della letteratura e forse li trascende”. Lì Bloom traccia una scia, affascinante, che lega Giobbe all’Achab di Moby Dick, a William Blake – che illustra il rotolo biblico di Job –e poi all’opera di Franz Kafka e Samuel Beckett. La ribellione di Giobbe, l’uomo che ha il coraggio di imputare a Dio il male del mondo, che lo accusa di aver creato un mondo ingiusto, sballato è il prototipo dell’uomo in rivolta di Camus. Nel 2000 Sellerio pubblica una versione del Libro di Giobbe nella collana dedicata ai “Romanzi giudiziari” con una didascalia interessante: “esso è interpretato come il primo racconto processuale della storia dell’umanità: un uomo risponde al tribunale di Dio a cercare e comprendere la sua colpa, prima di giustificarsene”.

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Quando Dio risponde a Giobbe, lo fa elencando le meraviglie del creato, con tono sublime: è una delle rare volte in cui il Testo si concentra, in particolare, sugli animali:
Il parto delle camosce sulle rupi
Tu lo prevedi? E vegli delle cerve
Sul figliare?…

Sei tu che alla cicogna dai ali e piume
E allo struzzo la gloria del piumaggio?…
Lo sparviero deve alla tua
Intelligenza se piglia il volo
Spiegando le sue ali verso il Sud?
Alla tua voce l’aquila s’innalza
E fa sulle cime il nido?
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È curioso: in questa caleidoscopica rassegna – ho citato dalla versione di Ceronetti – dove si elogia l’ippopotamo, il Leviatano dei mari, il cavallo, la fiera, le stelle, gli uccelli, chi manca è proprio l’uomo. Sono gli straordinari panorami (“Chi è la levatrice del ghiaccio, chi genera la brina che fa le acque dure come pietra e raggela gli abissi?”) e le bestie l’orgoglio di Dio; l’uomo nel creato pare un intruso. A lui Dio si rivela perché egli è il solo che non Lo vede, chissà. D’altronde, pure Dio appare in metafora di bestia. “Anche se sono giusto, non oso sollevare il capo… Se lo sollevo, come un leone mi dai la caccia”. Dio, agli occhi di Giobbe, è il leone; anche Gesù è sigillato con l’epiteto “Leone di Giuda”. La Bibbia Tob traduce il brano come “Il leopardo a caccia”: il leopardo appare di rado nel Testo, legato a visioni di ferocia. Nel libro del profeta Osea, Dio si raffigura così: “sarò come un leone, come un leopardo li spio per la via”. È bello pensare a un dio in forma di leopardo, la sua pazienza è letale. (d.b.)
 

Pangea, Sono niente, Cosa posso dire?”. Giobbe, Dostoevskij, Leopardi etc, 20 gennaio 2021