Rifiuto della “cultura dello scarto”, condanna del profitto fine a se stesso, critiche a viso aperto contro l’illusione dell’inutilità dell’intervento pubblico nell’economia, difesa degli ultimi, dei poveri, dei disabili e degli emarginati, duri affondi contro la “speculazione finanziaria con il guadagno facile come scopo fondamentale“, definita una “strage” e rifiuto totale dei dogmi dominanti nell’ideologia neoliberista, come il mito dell’autoregolazione dei mercati e quello dei benefici dell’individualismo. L’enciclica Fratelli tutti recentemente firmata ad Assisi da papa Francesco contiene questi importanti elementi di critica dell’ideologia economica dominante e si inserisce, rafforzandone i concetti elaborati nel corso degli ultimi decenni, in una tradizione pluridecennale di elaborazione della dottrina sociale che ha portato la Chiesa a criticare con durezza gli eccessi dell’ideologia neoliberista e del crescente predominio dell’economia e della finanza sui popoli, i loro diritti e i loro destini.
 
Nell’enciclica, per un commento preciso e puntuale della quale rimandiamo a un’interessante analisi del giovane teologo Piotr Zygulski pubblicata da Kritica Economica, Bergoglio interviene nel pieno del dibattito economico e politico sulla crisi della globalizzazione e dei suoi meccanismi di governance, al cui interno oltre all’aumento delle opportunità di investimento, crescita e sviluppo di produzione e commerci le nazioni hanno anche incontrato rischi sistemici legati alla crescente competitività tra i Paesi e la graduale emarginazione degli ultimi, degli sconfitti, vittime di disuguaglianze crescenti, povertà, tagli ai servizi sociali.
 
Si sente, nell’enciclica, l’eco di una crescente presa di posizione del mondo cattolico contro il neoliberismo, acuita dalla pandemia di coronavirus: a ridosso della Pasqua due economisti molto ascoltati nel contesto cattolico, il presidente della Pontificia accademia delle Scienze Sociali Stefano Zamagni e il francese Gael Giraud, avevano dato esposizione concreta all’ammonimento del Papa sull’impossibilità di “vivere sani in un mondo malato” sottolineando, rispettivamente, come negli anni a venire “il nemico numero uno sarà il neoliberismo” ed occorrerà avviare la ripresa post-crisi sul sentiero del rafforzamento del welfare, della tutela del lavoro e dell’enfasi sulla spesa pubblica.
 
Soprattutto, Bergoglio può guardare a un consolidato sentiero di approfondimento dottrinale e culturale tracciato dai suoi predecessori. Lungimiranti nel rivitalizzare la dottrina sociale della Chiesa dopo il Concilio Vaticano II e il graduale incedere della globalizzazione. Paolo VI, Giovanni Paolo II Benedetto XVI hanno segnato grandi avanzamenti in tal senso, rendendo consolidate nel mondo cattolico il rifiuto del profitto fine a sè stesso, la tutela del lavoro e dei beni pubblici e il rifiuto dell’individualismo di matrice evangelico-protestante insito nell’ideologia economica dominante.
 

La lotta della Chiesa per un’economia umana

 
La Popolorum progressio di Paolo VI, in questo contesto, ha aperto la strada. Il papa bresciano, nell’enciclica del 1967, ha lanciato un duro ammonimento contro le disuguaglianze, rendendo sempre più noto il concetto di sviluppo umano integrale. Per Montini “lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere sviluppo autentico, dev’essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo. […] Nel disegno di Dio, ogni uomo è chiamato a uno sviluppo, perché ogni vita è vocazione”. Una chiave di lettura che ha portato al graduale consolidamento di una riflessione su un “nuovo umanesimo” in grado di mettere la persona nella sua interezza, e non solo il consumatore, al centro del discorso economico, denunciando lo sfruttamento, la svalorizzazione del lavoro e l’asservimento alla logica del profitto di beni pubblici e istituzioni comune.
 
Accarezzata nel suo brevissimo pontificato “de medietate lunae” da Giovanni Paolo I, tale visione è stata ampliata e sistematizzata da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, in due pontificati che ebbero come ponte proprio la grande influenza teologica, dottrinale e culturale di Jospeh Ratzinger. Giovanni Paolo II, di cui sono note le dure critiche all’ideologia del socialismo reale, ebbe parole di fuoco anche per la sottomissione di popoli e nazioni all’ideologia di mercato. Nell’enciclica Sollicitudo rei socialis (1987) Wojtyla “sacralizzò” la dottrina sociale: il Papa polacco ricordò al popolo cristiano che essa non “appartiene al campo dell’ideologia, ma della teologia e specialmente della teologia morale”. Di fronte al predominio crescente della finanza, Giovanni Paolo II rispose con la Laborem exercens (1981), rifiutando la costituzione del lavoro in merce e valorizzandolo come fonte di glorificazione dell’uomo; sul campo internazionale, condannò il crescente asservimento dei Paesi in via di sviluppo al debito estero e nel 1993, in un’intervista a La Stampa, fu radicale: ““Secondo me, all’origine di numerosi gravi problemi sociali e umani che attualmente tormentano l’Europa e il mondo si trovano anche le manifestazioni degenerate del capitalismo”.
 
Benedetto XVI amplificò in senso proattivo la critica della Chiesa cattolica collegando la necessità del “nuovo umanesimo” a un rifiuto degli eccessi della società di mercato, da lui letti in netto legame con l’ascesa di un’ideologia ritenuta pericolosa, perchè destinata a dare l’illusione all’uomo di poter vivere senza Dio. Nella Caritas in veritate (2009), Ratzinger esprime questi concetti valorizzando l’idea che all’individualismo, alla logica del profitto e all’atomizzazione sociale si possano e si debbano opporre visioni a lungo termine più complesse e articolate. Nell’enciclica, ha notato Giulio Sapelli, Ratzinger “ha denunciato la finanza fine a se stessa, la speculazione, la disoccupazione. La Caritas in veritate è animata da un vero e proprio atto d’accusa contro l’accumulazione capitalistica e il profitto fine a sè stesso”. Al contempo, Bendetto XVI ha difeso l’idea di impresa sociale, tanto cara anche a studiosi come Zamagni, ricordato la centralità della figura dell’imprenditore e le sue responsabilità sociali, schermando il fianco della Chiesa da coloro che troppo superficialmente vedevano la critica economica della dottrina sociale ispirata alle reminiscenze di un’ideologia pauperistica fine a sè stessa.
Il filo rosso che collega Paolo VI a Francesco, passando per i pontefici dell’ultimo mezzo secolo, è dunque la necessità di far prevalere l’interesse sociale nell’azione economica sul calcolo utilitaristico e il concetto di una società competitiva e atomizzata. Si promuove dunque l’idea che sia la cooperazione tra uomini, popoli e nazioni a fungere da contraltare ideale agli appetiti predatori insiti nelle versioni più estreme e rapaci di capitalismo. Bergoglio affronta queste tematiche con un approccio diverso, fondato sulla figura del “povero”, retaggio della sua impronta culturale argentina plasmata dall’elaborazione teorico-politica peronista, e aggiunge una forte sensibilità per l’ambiente. Ma il corpus della sua critica è consolidato: da “terza via” tra capitalismo e socialismo, la dottrina sociale della Chiesa si è oggi posizionata come voce critica per un capitalismo dal volto umano. Un capitalismo “cattolico” opposto a quello neoliberista, plasmato dall’ethos evangelico-protestante di matrice anglosassone. Per la cui elaborazione in Occidente mancano, ad ora, le forze politiche in grado di mettere a sistema un’energia intellettuale, culturale e umana che ha saputo guardare con lucidità agli errori e alle esagerazioni che hanno prodotto negli ultimi decenni crisi e instabilità sistemiche.
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