Charles de Foucauld e il “mistero di Nazaret”
Giovedì 1° dicembre ricorre il centenario della morte del beato Charles de Foucauld, figura primaria della spiritualità cristiana recente, un uomo che – ha detto Papa Francesco – «forse come pochi altri, ha intuito la portata della spiritualità che emana da Nazaret»; un uomo il cui carisma – ha osservato il teologo Pierangelo Sequeri – «fu donato e destinato, in anticipo, per questo tempo della Chiesa».
L’ufficiale, l’esploratore
Charles de Foucauld nasce a Strasburgo, in Francia, il 15 settembre 1858. Nell’adolescenza subisce l’influsso dello scetticismo religioso e del positivismo scientifico che caratterizzano la sua epoca; ricordando quel tempo, scriverà: «Fin dall’età di 15 o 16 anni tutta la fede era sparita in me». Entrato alla scuola militare e divenuto ufficiale, è inviato con il suo reggimento in Algeria. Nel 1882 si dimette dall’esercito e parte per un viaggio di esplorazione che lo conduce dapprima in Marocco, quindi nel deserto algerino e tunisino.
«Mio Dio, fa che io Ti conosca!»
Rientra in famiglia, a Parigi, nel 1886, con l’intento di preparare un testo sulle sue scoperte: è un tempo decisivo per la sua conversione. Scriverà: «Ho iniziato ad andare in chiesa, senza essere credente, vi trascorrevo lunghe ore continuando a ripetere una strana preghiera: “Mio Dio, se esisti, fa che io Ti conosca!”». La sua conversione, accompagnata dall’abate Henry Huvelin, risale all’ottobre di quello stesso anno: «Non appena credetti che c’era un Dio, compresi che non potevo far altro che vivere per Lui».
Gesù, operaio di Nazaret
Compie subito un lungo pellegrinaggio in Terra santa, nel corso del quale annota: «Ho voglia di condurre la vita che ho intravisto, percepito camminando per le vie di Nazaret, dove Nostro Signore, povero artigiano perso nell’umiltà e nell’oscurità, ha appoggiato i piedi». Rivolgendosi a Gesù, scrive: «Come è fertile questa vita di Nazaret in esempi e in lezioni! Grazie! Grazie! Come siete buono ad averci donato questa istruzione per 30 anni!».
Tornato in patria, entra nella Trappa Notre-Dame des Neiges e viene poi mandato alla Trappa di Akbès, in Siria. Si accorge però che nella Trappa non è possibile «condurre la vita di povertà, di abiezione, di distacco effettivo, di umiltà, direi anche di raccoglimento di Nostro Signore a Nazaret». Significativo un episodio che gli capita in quel periodo: «Una settimana fa sono stato mandato a pregare un poco accanto a un povero operaio nativo del posto, cattolico, morto nella frazione vicina: quale differenza fra questa casa e le nostre abitazioni! Io agogno Nazaret».
La stessa vita di Nostro Signore
Resosi conto che «nessuna congregazione della Chiesa dà oggi la possibilità di condurre con Lui questa vita ch’Egli ha condotto in questo mondo», si domanda se «non è il caso di cercare alcune anime con le quali […] formare un inizio di piccola Congregazione di questo genere: lo scopo sarebbe condurre quanto più esattamente possibile la stessa vita di Nostro Signore, vivendo unicamente del lavoro delle mani, senz’accettare nessun dono spontaneo né alcuna questua, e seguendo alla lettera tutti i suoi consigli, non possedendo niente, privandosi del più possibile, anzitutto per essere più conforme a Nostro Signore e poi per darGli il più possibile nella persona dei poveri. Aggiungere a questo lavoro molte preghiere».
Nazaret è la vita di Gesù, non semplicemente la sua prefazione
Emerge qui qualcosa di consapevolmente inedito nella geografia religiosa contestuale, osserva Sequeri che, nel volume «Charles de Foucauld. Il Vangelo viene da Nazaret» (Edizioni Vita e Pensiero), scrive: «La novità dell’intuizione è data, in prima battuta, dalla nettezza del riferimento cristologico della imitazione/sequela di Nostro Signore Gesù: “la stessa vita di Nostro Signore” Gesù, e cioè “l’esistenza umile e oscura di Dio, operario di Nazaret”». In altri termini, «Nazaret non è il ‘prologo’ della vita pubblica, il semplice momento ‘preparatorio’ della missione, la forma di una ‘pre-evangelizzazione’ che realizza una condivisione generica e una testimonianza anonima. […] Nazaret è la vita di Gesù, non semplicemente la sua prefazione. È la missione redentrice in atto, non la sua mera condizione storica. Nazaret è il lavoro, la contiguità, la prossimità domestica del Figlio che si nutre per lunghissimi anni di ciò che sta a cuore all’abba-Dio (“Non sapevate che devo occuparmi delle cose del Padre mio?”, Lc 2,49). […] Da dove potrebbe mai ripartire una nuova evangelizzazione, se non lungamente sostando – per tutto il tempo necessario – nel fondamento in cui Dio l’ha posta per il Figlio medesimo?».
La lettura dei Vangeli
Nel 1897 fratel Charles lascia la Trappa e si trasferisce a Nazaret, dove vive per tre anni, alloggiando in una casetta presso il monastero delle clarisse: le sue giornate sono scandite dal lavoro, dall’adorazione silenziosa dell’Eucaristia e dalla lettura dei Vangeli. «De Foucauld desidera vivere a imitazione di Gesù, “operaio di Nazaret”: per fare questo sceglie di affidarsi ai Vangeli, che legge quotidianamente e medita per iscritto», racconta Antonella Fraccaro, religiosa delle Discepole del Vangelo (Istituto religioso che fa parte della Association Famille Spirituelle Charles de Foucauld) e autrice del volume «Charles de Foucauld e i Vangeli» (Edizioni Glossa). «Le sue meditazioni – alcune migliaia di pagine – non hanno un taglio intimistico e autoreferenziale; esse mettono in luce soprattutto il legame intenso e affettuoso che de Foucauld vive con il Signore. Al centro delle meditazioni non c’è il loro autore, ma la persona di Gesù e il Suo stile, da assimilare giorno dopo giorno con la Sua grazia. I motivi che ispirano la lettura dei Vangeli sono espressi in un breve testo, molto significativo, scritto su un piccolo foglio utilizzato come segnalibro e promemoria. Annotava fratel Charles rivolgendosi a Gesù: “Leggo: 1°) per darvi una prova d’amore, per imitarvi, per obbedirvi; 2°) per imparare ad amarvi meglio, per imparare a imitarvi meglio, per imparare a obbedirvi meglio; 3°) per poter farvi amare dagli altri, per poter farvi imitare dagli altri, per poter farvi obbedire dagli altri”».
Con il popolo del deserto
Nel tempo trascorso a Nazaret matura in fratel Charles la vocazione al sacerdozio: viene ordinato nel 1901, in Francia, e l’anno successivo si stabilisce a Beni Abbès, nel Sahara algerino, «tra le pecore più perdute, le più abbandonate». Scrive in quei giorni: «Dalle 4.30 del mattino alle 20.30 della sera, non smetto di parlare, di vedere gente: schiavi, poveri, ammalati, soldati, viaggiatori, curiosi. […] Voglio abituare tutti gli abitanti della terra a considerarmi come loro fratello, il fratello universale». Nel 1905 decide di trasferirsi più a sud, fra i Tuareg, a Tamanrasset, dove non ci sono «né guarnigione, né telegrafo, né europeo».
La bellezza domestica dell’insediamento evangelico
Non nella Trappa ma nel deserto è quella Nazaret che fratel Charles agognava. Commenta al riguardo Sequeri: «Il punto non è tanto quello della ‘durezza’ dell’ascesi, quanto piuttosto quello di una imitazione ‘reale’ di Nazaret: che deve trovare le condizioni del proprio rigore nella normalità del contesto in cui quelle condizioni sono già date come umane e non artificiosamente cercate e ricostruite come religiose. In quelle condizioni infatti il “piccolo fratello universale” si insedia come il suo “beneamato fratello Gesù” perché uomini e donne vi sono già insediati; perché esse sono la loro vita quotidiana, l’orizzonte del loro sguardo sul mondo». Il rigore di questa inabitazione include «un principio di semplificazione e un criterio di affinità che liberano la singolare bellezza domestica dell’insediamento evangelico».
Fratello e familiare dei Tuareg
Per i suoi Tuareg fratel Charles si prodiga generosamente. «Vuole vincere le diffidenze, conquistare la loro fiducia, fraternizzare, rendersi un loro familiare; vuole far conoscere la bontà di Gesù», dice Fraccaro. «Il suo tempo era diviso tra la preghiera, le relazioni con gli indigeni, che aiutava e sosteneva in molti modi, e gli studi della lingua tuareg: redasse anche un dizionario tuareg-francese. Nelle lettere agli amici lontani chiede di pregare per queste anime abbandonate, e anche per sé: “PregateLo perché io faccia quel che vuole da me per loro, perché io sono l’unico, purtroppo!, ad occuparmi di loro da parte di Lui e per Lui”».
La presenza eucaristica
I gesti di cura, la tenace dedizione agli uomini e alle donne del deserto, convivono con una totale relazione/conversazione con il Signore presente nell’Eucaristia. Fratel Charles lo ha portato fra coloro che non lo conoscono perché anch’essi sono “suoi”. È una presenza, una benedizione che tutti percepiscono, tutti sentono la preghiera e le parole che la abitano, tutti intuiscono il legame speciale cui dà vita. La presenza eucaristica del Signore condensa in sé la parola e il gesto cristiano meno “anonimi” che ci siano (Sequeri).
Se il chicco di grano non muore
Charles de Foucauld muore il 1° dicembre 1916, a Tamanrasset, colpito da un colpo di fucile durante una scaramuccia provocata da truppe ribelli del Sahara. Lui, che dal 1893 sino alla fine della sua vita si applicò alla redazione di «Regole» per quelle aggregazioni che tanto aveva desiderato, morì solo. Nei decenni successivi sono nate molte famiglie di religiosi, religiose, sacerdoti e laici che a lui si ispirano: attualmente sono venti, presenti in tutto il mondo. Riunite nella Association Famille Spirituelle Charles de Foucauld, comprendono circa 13mila persone. «Nella loro diversità – conclude Fraccaro – queste famiglie hanno tratti comuni: l’insediamento nei contesti dell’esistenza ordinaria, la vita in piccole comunità legate da spirito fraterno, la meditazione della Parola di Dio, la dedizione alle anime più sofferenti e abbandonate. Il chicco di grano, morendo, ha portato frutto, proprio come de Foucauld – legatissimo a questo versetto del Vangelo di Giovanni (12,24) – sperava accadesse».
di Cristina Uguccioni, in “La Stampa-Vatican Insider” del 29 novembre 2016
 
 
harles de Foucault Contemplazione, condivisione, universalità
di Antonella Fraccaro
Contemplazione, condivisione, universalità: tre condizioni di vita, tre espressioni di cura. È così che desideriamo raccontare l’esperienza al seguito di frère Charles. Nate circa 40 anni fa, nella diocesi di Treviso, in ascolto degli appelli del Concilio Vaticano II, abbiamo voluto rispondere ai bisogni del tempo, formate dalla Parola e dai documenti della Chiesa.
Una delle prime scelte che hanno segnato la nostra vita di donne religiose è stata quella di lavorare all’esterno della fraternità, per condividere “con” la gente la fatica e la bellezza della vita ordinaria (cercare casa, lavoro, far quadrare i conti a fine mese). Dalla spiritualità di Charles de Foucauld abbiamo assunto tre aspetti: la preghiera e la contemplazione, l’accoglienza e la condivisione, l’evangelizzazione secondo lo spirito di Gesù a Nazareth, vissuti in comunione con la Chiesa locale.
Nel 2007 il nostro istituto religioso è stato riconosciuto come il ventesimo gruppo della grande Famiglia spirituale Charles de Foucauld. Siamo attualmente presenti con 11 fraternità locali in alcune Chiese del nord Italia e in Francia.
La prima espressione di cura ereditata in questi anni dall’esperienza di frère Charles è la
contemplazione.
La meditazione del Vangelo e l’adorazione eucaristica silenziosa ci aiutano a guardare con gli occhi di Dio i piccoli e grandi eventi che accadono ogni giorno. Così scriveva Charles: la fede «fa vedere tutto sotto un’altra luce: gli uomini come immagini di Dio, che bisogna amare e venerare come ritratti del Beneamato… e le altre creature come cose che devono tutte quante, senza eccezione, aiutarci a ritrovare il cielo». Viviamo le nostre giornate animate da questo spirito, nel confronto fraterno, per discernere la volontà di Dio nelle diverse situazioni della vita, perché le nostre scelte siano il più possibile a servizio dei poveri. Lo sguardo contemplativo diventa motivo di fede e di speranza anche per quanti incontriamo, nel posto di lavoro o nelle comunità cristiane in cui siamo inserite. Guardare l’altro come un’immagine di Dio ci permette di vedere in lui o in lei una persona amata e salvata da Dio, da amare anzitutto così com’è.
La condivisione è la seconda espressione che ereditiamo dall’esperienza di frère Charles. Quante volte, negli scritti, egli ringrazia per essere stato accolto: dalla vita, anche se essa si è mostrata presto ostile con la perdita precoce di entrambi i genitori; dalla fede, grazie alla religiosità dei familiari e dei fratelli musulmani incontrati nel Sahara e in Marocco. È stato accolto più volte e in diverse situazioni da figure ecclesiali, da amici militari, dal popolo tuareg. A sua volta, Charles ha praticato assiduamente l’accoglienza: in Trappa, a Nazareth e nel deserto, dedicando tutto se stesso, fino al termine della sua vita. Giunto da poco a Beni Abbès scriveva: «Questa sera, per la festa del santo Nome di Gesù, ho una grande gioia: per la prima volta dei viaggiatori poveri ricevono l’ospitalità sotto l’umile tetto della Fraternità del Sacro Cuore. Gli indigeni cominciano a chiamarla Khaoua (la Fraternità) e a sapere che i poveri hanno qui un fratello; non solo i poveri, ma tutti gli uomini».
Le nostre fraternità sono aperte all’accoglienza, quotidiana e temporanea, e anche quando sono di modeste dimensioni, uno spazio per accogliere persone, di ogni cultura e nazionalità si trova sempre. In alcune nostre fraternità in Italia, dallo scorso anno, in seguito al ripetuto appello di papa Francesco, abbiamo aperto l’accoglienza anche a donne migranti, richiedenti asilo. Sono giovani, provenienti da varie parti dell’Africa, soprattutto dalla Nigeria (Benin City). Sono piene di forza di vita, ma nello stesso tempo ferite nella loro esistenza e fecondità, perché cresciute in contesti poveri culturalmente, in condizioni di violenza, di abuso, di sfruttamento. Vivere con loro, condividere la stessa mensa, gli stessi spazi, ha allargato gli orizzonti della nostra accoglienza e ci ha aperto a nuove forme di collaborazione e di gratuità, incoraggiandoci a sviluppare, insieme ad altre realtà civili ed ecclesiali, riflessioni e iniziative volte a offrire a queste donne prospettive di vita e di speranza.
L’esperienza di una nostra fraternità, in un quartiere di Marsiglia, a prevalenza musulmano e multietnico, ci fa sperimentare che cosa significa essere “straniere tra stranieri”. Tocchiamo con mano la bellezza della reciproca ospitalità, dell’ascolto e dell’accoglienza della ricchezza dell’altro, nei gesti di bontà e di cura donati e ricevuti. Sono vie quotidiane, piccole e nascoste, segni di speranza e di pace tra persone di diversa cultura e religione.
Fin dalla sua presenza nel Sahara, Charles de Foucauld si era proposto di «abituare tutti gli abitanti, cristiani, musulmani, ebrei, idolatri» a considerarlo «come loro fratello, il fratello universale». Egli voleva essere «il fratello di tutti gli uomini senza eccezione né distinzione » e desiderava che quanti lo avvicinavano, credenti e non credenti, diventassero, a loro volta, fratelli di altri uomini e donne.
L’universalità è la terza prospettiva di vita ereditata al seguito di frère Charles. Per noi, la “fraternità universale” ha trovato, nel corso degli anni, diverse forme di espressione. Frequentare ambiti lavorativi diversi, essere inserite in ambienti sociali, culturali e religiosi differenti (quartieri popolari, rurali e cittadini), vivere in comunione con le comunità cristiane di appartenenza, sono manifestazioni della creatività e originalità dell’esperienza spirituale foucauldiana.
L’incontro con la vicenda di frère Charles, fratello universale al seguito di Gesù di Nazareth, sia per ciascuno concreta possibilità per vivere relazioni di cura e benevolenza verso quanti incontriamo: relazioni pienamente umane poiché autenticamente evangeliche.
(A cura delle “Discepole del Vangelo”), in “Avvenire” del 30 novembre 2016