In una conferenza del 1955, L’abbandono, il filosofo Martin Heidegger scriveva che “l’uomo del nostro tempo è in fuga davanti al pensiero”. Con ciò egli non intendeva certo che quell’uomo, che allora aveva appena inaugurato l’era atomica, non pensasse: gli straordinari successi della scienza e della tecnica lo smentirebbero in modo eclatante. Il suo, tuttavia, come quello dei suoi eredi, è un pensiero “calcolante”, che “conta” su determinati risultati in base a determinati mezzi, per raggiungere gli scopi prefissati dai ricercatori nel campo della scienza. Con la nuova era, osserva Heidegger, il primato del pensiero calcolante ha messo a tacere un altro stile di pensare, quello che egli chiama “meditante”, il pensiero che pensa il senso delle cose, comprese le scoperte frutto della scienza e della tecnica.
È questo il pensiero davanti al quale l’uomo è in fuga, e che, paradossalmente, appare ancora più latitante dinanzi alla dichiarazione di diciotto Premi Nobel che Heidegger riporta: “La scienza […] costituisce una strada che conduce l’uomo ad una vita più felice”. È un’affermazione che pensa davvero la felicità dell’uomo in relazione al senso della sua vita, ossia alla direzione verso cui è diretta, al fine che per l’etica classica coincide con il Bene supremo? A leggere le pagine della cronaca quotidiana di ogni parte del mondo, sembrerebbe di no. Al progresso tecnologico e scientifico che ha accompagnato la cosiddetta quarta rivoluzione, quella digitale, non sembra corrispondere un analogo avanzamento, globale, inequivocabile e inarrestabile, negli ambiti della politica, della morale, del diritto.
Il prevalere del pensiero calcolante, soprattutto nella forma della tecnologia resa fruibile a tutti (almeno in linea di principio), ha via via ridotto il campo d’azione del pensiero meditante. Questo ha smesso i panni di custode di umanità e di sorvegliante critico dell’agire tecnologico, per rendersi latitante: se ne sta inoperoso e nascosto, anche se non ancora morto. Ma lo spazio che ha lasciato libero è tale da aver trasformato l’altro pensiero in “ideologia”, secondo i suoi due significati più diffusi: quello originario (degli idéologues di primo Ottocento), che si associa ad un processo di razionalizzazione dell’organizzazione sociale funzionale alla sua analisi scientifica; e quello marxiano, secondo il quale l’ideologia, nascondendo la parzialità del proprio punto di vista, lo presenta come l’espressione universale della natura umana o del fine verso cui l’umanità dovrebbe progredire.
Questa universalizzazione di un punto di vista storicamente determinato fa emergere il doppio volto della razionalità che sovraintende al pensiero: non solo unità di misura critica, esercizio dello spirito illuministico e neoilluministico; ma anche criterio apologetico di un sistema auto- legittimantesi e auto-regolantesi. Come Jürgen Habermas aveva notato già in un saggio del 1968, la razionalità tecnica, delegittimando domande ad essa estranee come quella del senso, si rivela auto-referenziale. Siamo così di fronte ad una specie di schizofrenia della razionalità del pensiero tecnico-scientifico: da un lato, essa mantiene la sua originaria funzione critica, senza la quale non ci sarebbe scienza, ma ci si aspetterebbe che fosse rivolta anche verso se stessa, oltre che verso il mondo; dall’altro, si converte in razionalità strategica, che non solo difende se stessa dalla critica, ma anche costruisce progetti che ne estendono il dominio su tutti i settori della vita umana. In questo modo, osservava Habermas, si afferma una forma determinata di controllo politico non dichiarato, in nome di una razionalità che sceglie fra strategie, utilizza adeguatamente tecnologie e organizza sistemi funzionali al proprio potere. Con ciò essa sottrae al pensiero meditante e alla ricostruzione razionale gli interessi autenticamente morali e politici di quella società in cui si scelgono strategie, si utilizzano tecnologie e si organizzano sistemi. In altri termini, la razionalità strumentale e strategica del pensiero calcolante ha estromesso dalla società umana la razionalità finalistica del pensiero meditante.
L’affermazione di questa forma di pensiero induce una revisione del ruolo della politica e della sua influenza sull’opinione pubblica. La politica, infatti, permeata di tecnocrazia e di tecnologia, abdica alla tradizionale funzione di perseguire fini pratici, ossia morali, relativi alla buona vita e al senso della vita. Nella migliore delle ipotesi essa si trasforma in amministrazione, nella peggiore in mera propaganda. La prima è orientata alla soluzione di problemi tecnici, ossia all’eliminazione di quelle disfunzioni del sistema che sono soltanto di natura tecnica, non pratica né morale, e per le quali la discussione pubblica fra gli appartenenti al sistema risulta del tutto inutile. Ne deriva quella che Habermas chiama “spoliticizzazione” della popolazione: infatti, se i problemi pratici vengono esclusi, anche l’opinione pubblica perde la sua funzione politica. Nella trasformazione dei problemi pratici in problemi tecnici viene eliminata la differenza fra prassi e tecnica, oltre allo spazio etico che definisce le relazioni di vita sociale.
In questa opacizzazione del rapporto fra politica, amministrazione e tecnica, la tecnologia digitale, utilizzata in funzione propagandistica, ha buon gioco ad ampliare enormemente l’influsso della sfera emotiva di uomini politici ed elettori, e riduce altrettanto enormemente l’operatività del pensiero meditante. Il soggettivismo emotivistico e il relativismo morali che ne derivano, si accompagnano a incapacità di pensare, irriflessività e risoluzione della coscienza personale in una società indifferenziata e atomizzata, costituita di individui narcisistici che, in cambio della sicurezza e della protezione del proprio piccolo mondo, in una inconsapevole attualizzazione della profetica Leggenda del Santo Inquisitore di Dostoevskij, rinunciano ad esercitare libertà di pensiero critico, coscienza di sé e responsabilità nei confronti, soprattutto, di chi non è ancora nato.
Come nota la filosofa Roberta De Monticelli in Al di qua del bene e del male, ciò comporta, da un lato, l’esclusiva ricerca del consenso dell’opinione pubblica da parte della politica, dall’altro le “dimissioni” da se stessi di coloro che costituiscono quell’opinione pubblica. La riduzione della coscienza critica del pensiero meditante impedisce di vedere il disvalore (e il valore) presente nei fatti, e di riconoscere ciò che ne potrebbe derivare. Nella comunità civile e democratica ciò significa indifferenza al nucleo etico della convivenza e ai principi ideali che la ispirano (come la Costituzione della Repubblica Italiana) e imbarbarimento della società civile e della cultura politica pubblica: il male è banale.
Come allora riportare allo scoperto il pensiero latitante che è il pensiero meditante?
Attraverso l’educazione e la conoscenza: l’educazione delle emozioni e dei sentimenti, la conoscenza di sé e del mondo della vita che preesiste al sapere tecnico-scientifico. Si scoprirà allora che l’etica e la politica sono una questione di conoscenza prima che di volontà, che non c’è volere senza valutare, ossia senza un vaglio critico che verifichi l’adeguatezza di decisioni, scelte, azioni. Così come si saprà che sentire e sensibilità affettiva possiedono un valore cognitivo, che si esprime non in semplici preferenze superficialmente emotive, ma in scelte consapevoli, conseguenza del carattere profondamente morale di ogni essere umano.
Per approfondire:
R. De Monticelli, L’ordine del cuore. Etica e teoria del sentire, Garzanti, Milano 2003.
Id., La questione morale, Raffaello Cortina, Milano 2010.
Id., La questione civile, Raffaello Cortina, Milano 2011.
Id., Al di qua del bene e del male, Einaudi, Torino 2015.
F. Dostoevskij, La leggenda del Santo Inquisitore, in Id., I fratelli Karamazov, trad. it. di A. Villa, Einaudi, Torino 2005.
J. Habermas, Teoria e prassi nella società tecnologica, a cura di C. Donolo, Roma-Bari 1978.
M. Heidegger, L’abbandono, trad. it. di A. Fabris, il melangolo, Genova 1989.
H. Jonas, Il principio responsabilità, a cura di P.P. Portinaro, Einaudi, Torino 2009.
M. Marchetto, Il mondo del possibile. Figure, categorie e prospettive della cultura filosofica tardo- moderna, Libreriauniversitaria, Padova 2019.
La riscoperta del ruolo paterno nella relazione educativa
“Prof.! Tra le cose di cui ho più nostalgia di quando ero bambino e che ancora oggi mi fanno soffrire, c’è la mancata promessa di mio padre nell’avermi garantito che un giorno mi avrebbe portato a pescare al mare. Nonostante il rapporto con lui sia ormai inesistente, sono però ancora in attesa che quel giorno arrivi”. Qualche anno fa un mio alunno, con queste parole, mi ha illuminato su quanto la figura paterna sia fondamentale per una sana formazione dei figli.
Domanda di padre
Dopo il tentativo rivoluzionario da parte del 68’, di cancellare completamente la figura del pater nella sua accezione di “monarca assoluto”, accentuando le tesi freudiane sul complesso edipico, si è giunti all’evaporazione della figura paterna attraverso la figura del figlio anti-Edipo e del figlio Narciso, che incarnano in maniera piuttosto calzante il legame genitori-figli nell’ambito della cultura post-moderna, dove il rapporto tra i vari membri della famiglia è più orientato verso il soddisfacimento dei propri capricci e interessi individuali, piuttosto che in una autentica relazione d’amore. Tuttavia, prendendo spunto dalla confidenza nostalgica del mio alunno, accompagnata anche dai segnali che giungono dalla società civile, è evidente che, oggi, emerge sempre più con urgenza una insistente domanda di padre.
Da Edipo e Narciso a Telemaco
Si è passati, dunque, in breve tempo, dal raffronto della figura dei figli con quella di alcuni personaggi mitologici, come Edipo e Narciso, a quella in cui l’attenzione è rivolta verso un altro personaggio della mitologia greca: Telemaco. Per dirla alla Massimo Recalcati, “ noi siamo nell’epoca del tramonto irreversibile del padre, ma siamo anche nell’epoca di Telemaco[…]. Telemaco si emancipa dalla violenza parricida di Edipo; egli cerca il padre non come un rivale con il quale battersi a morte, ma come un augurio, una speranza, come la possibilità di riportare la Legge della parola sulla propria terra. Se Edipo incarna la tragedia della trasgressione della Legge, Telemaco incarna quella dell’invocazione della Legge”. Questo modo di concepire i figli come lo specchio di personaggi mitologici sopra citati, rimanda anche ai vari ruoli che la figura del padre può assumere nella relazione educativa.
L’eclissi del padre
Secondo Paul Ricoeur, infatti, l’immagine del padre è problematica e risulta incompiuta nella storia: si pensi alle diverse configurazioni del ruolo paterno nei vari contesti temporali, in cui si è passati dal padre castratore a quello lassista, per giungere fino ad oggi, dove sembrerebbe essenziale il recupero dell’autentica imago paterna. L’eclissi del padre è stata oggetto di riflessione da parte di numerosi studiosi, i quali sono giunti a svariate conclusioni: alcune condivisibili, altre meno. Ciò su cui si è d’accordo è che l’evaporazione del padre è legata a un tentato processo di democratizzazione, purtroppo però recepito in chiave prettamente ideologica, in cui si è venuto a creare un ribaltamento dei ruoli familiari, tra cui il decentramento della figura paterna, al fine di dare più spazio alle figure del figlio e della madre, che fino ad allora si erano trovati in una situazione di subordine. A ciò hanno contribuito le contestazioni giovanili della fine degli anni 60’, dove, se da una parte si è voluto chiudere i ponti con la concezione repressiva del pater familias, come padre dal carattere esclusivamente autoritario, dall’altra presi soprattutto da questo senso di rivalsa, non si è compreso quanto, invece, l’assenza del padre possa spingere la società verso le derive dell’anarchismo e del nichilismo.
L’omicidio del padre
H. Marcuse e W. Reich sono stati i fautori dell’ “omicidio del padre” in quanto simbolo del potere istituzionale e familiare, allargando l’orizzonte anche verso il profilo sessuale, sostenendo che il libero giuoco dell’attrazione erotica avrebbe portato alla definitiva scomparsa dell’istituzione domestica, giudicata come l’organismo primario al servizio della repressione operata da un potere gestito esclusivamente dal maschio. Altri studiosi, tra cui T. Parsons, hanno individuato le cause della perdita della figura paterna nell’industrializzazione e nella modernizzazione, dovuta alla “professionalizzazione del ruolo materno”. L’uomo non è riuscito a far fronte ai mutamenti che lo hanno coinvolto nell’assetto sociale, a differenza della donna che, invece, ha dimostrato maggiore disponibilità a ristrutturare i vecchi modelli comportamentali a cui era vincolata, arrivando quasi a monopolizzare alcuni settori dell’organizzazione societaria.
Un padre anafettivo
Secondo M. Junitsch, invece, la missione paterna “ha un carattere eminentemente personale e non è collegabile per forza di cose a una determinata forma del fenomeno sociologico. Ci sembra di poter dire che la crisi del padre non solo è causa del mutamento industriale, e cioè, impreparazione dei padri ad adattarsi alle nuove circostanze, ma vincolata al fatto che i padri abbiano continuato a porsi o come padri generatori, o come sostegni economici, o come detentori dell’autorità”. In tutti e tre i casi la figura paterna risulta anaffettiva: tale carenza d’affetto emerge dalla concezione dei figli come semplici oggetti che finiscono per diventare strumenti di appagamento dei desideri paterni. D
L’orizzontalismo
al timore di poter rivivere questi modelli di padre si è poi venuto a configurare un altro estremo, quello cioè dell’orizzontalismo: il rapporto tra padri e figli è arrivato ad essere quello tra due eguali, tra due fratelli, tra due “amici”, e non è più fondato, quindi, su una relazione di tipo asimmetrico. Il ruolo del padre, dovrebbe essere quello di trasmettere al figlio l’educazione intesa nel suo vero senso terminologico di ex-ducere, cioè di accompagnare il figlio a saper stare al mondo, a dargli sicurezza e a garantirgli la riuscita delle sue potenzialità nella propria esperienza di vita
Dall’in-ducere al cum-ducere
Sembrerebbe che, invece, oggi, sorpassato il tempo dell’educazione paterna come in-ducere, si è giunti secondo Daniel Marcelli a quella del se-ducere ( compiacere il figlio e prevenire ogni suo bisogno). Accanto all’ex-ducere per dare pieno compimento alla relazione educativa è richiesto anche un cum-ducere, cioè un condurre verso una meta. Il padre è, dunque, un testimone della saggezza del vivere. Ciò trova conferma in quanto dichiarato dallo scrittore inglese Clarence Budington Kelland: “mio padre non mi ha detto come vivere; ha vissuto e mi ha fatto osservare come faceva”. Così dovrebbe agire un vero padre, come un rappresentante della Legge, come colui che trasmette la Legge nel senso di un supporto al desiderio del figlio e non come una coercizione. La paternità non è imposizione e autoritarismo ma autorevolezza, cioè mediazione tra affetto e cura attraverso il riconoscimento del limite; la paternità consiste “nell’offrire in eredità il senso della Legge non come castigo ma come possibilità della libertà, come fondamento del desiderio”. Questa capacità di sintesi è importante nello svolgere la missione di padre, per evitare il rischio di giungere agli estremi dell’autosufficienza o dipendenza da chi ci genera. Non più quindi il padre padrone, ma neanche il genitore troppo amico o troppo permissivo, che cerca di soddisfare il figlio nel proprio progetto, ma che poi non è in grado di dargli speranza e fiducia nel futuro.
L’alleanza educativa
Ad una domanda posta a Robin Williams su cui gli si chiese un giudizio sull’operato del padre, l’attore così rispose: “mio padre per farmi addormentare mi lanciava in aria, purtroppo non era mai lì quando tornavo giù”. Un padre, comunque, può realizzare al meglio la sua missione solo con la collaborazione della moglie e dei figli. La moglie compie quell’alleanza educativa attraverso cui si realizza la complementarietà dei ruoli senza sconfinamenti; il figlio, invece, deve riconoscere che non può vivere senza padre, non può generarsi da solo, ma deve ammettere che per trovare se stesso ha bisogno dell’Altro da cui proviene. Secondo Oliver Reboul “educare non significa fabbricare degli adulti seguendo un modello, significa liberare in ogni uomo ciò che gli impedisce di essere se stesso, permettergli di realizzarsi secondo il proprio “genio unico”. Non si può essere veramente figli se non si riconosce di aver bisogno del padre.
Un modello di Padre
Anche Gesù, pur essendo della stessa sostanza del Padre, nella sua umanità ha fatto un’autentica esperienza di figlio, facendosi guidare e accompagnare da Giuseppe. Quest’ultimo non solo lo ha sostenuto nelle difficoltà, ma lo ha introdotto alla conoscenza delle consuetudini religiose e sociali del popolo ebraico; e, infine, gli ha insegnato il mestiere di carpentiere. Ecco, Giuseppe potrebbe essere il modello di padre giusto che fa da ponte tra norma e vita, che incarna il simbolo di una legge che non costituirebbe un giogo pesante per i figli, ma un sostegno e un ausilio nella ricerca del senso della vita. Nella società liquida di oggi, dove non ci sono quasi più punti di riferimento, la figura di Telemaco rappresenta quella dei figli che non riescono a trovare la vera felicità assumendo lo stesso contegno dei Proci, dando cioè importanza solo al possesso e al consumo sfrenato dei beni materiali, ma che, anzi, invocano a gran voce il ritorno del padre come garante di quell’ordo amoris che li condurrebbe verso un approdo sicuro.
Concludo con un paragone:
lo status dei figli, oggi, mi fa pensare al personaggio che Caspar David Friedrich ha raffigurato nell’opera Il monaco in riva al Mare, dove il soggetto rappresentato potrebbe essere paragonato a ogni figlio che come Telemaco scruta l’orizzonte sperando e confidando nel ritorno del padre. Chissà, magari per pescare insieme.
Premessa
Perché un progetto sulle emozioni a scuola? Quale possibilità offre ai ragazzi una tale proposta?
Tutto è iniziato dall’osservazione degli alunni sia per quanto riguarda il loro atteggiamento nell’affrontare la quotidiana fatica della scuola sia dall’osservazione di alcune difficoltà di convivenza relative ad una gestione delle emozioni non molto consapevole. Per tale ragione noi docenti abbiamo ritenuto necessario avviare un’unità di apprendimento allo scopo di riuscire ad aiutare la classe a vivere le proprie emozioni in modo più disteso e costruttivo. Un ulteriore intento di tale proposta è stato quello di facilitare di conseguenza le possibilità di apprendimento soprattutto favorendo uno stile collaborativo e meno competitivo tra gli stessi alunni.
Situazione di partenza
Il progetto in questione è stato svolto nella classe II B della scuola secondaria di primo grado dell’Istituto Comprensivo Fidenae. La classe, di livello culturale medio alto e di livello socioeconomico medio, è composta da un totale di 21 alunni, di cui 9 maschi e 12 femmine con una buona percentuale di studenti stranieri. Il progetto ha coinvolto tutti gli alunni e si inserisce, in aggiunta e integrazione delle finalità sopraindicate, all’interno della proposta didattica globale al fine di migliorare le interazioni tra i ragazzi, l’inclusione e la consapevolezza critica del proprio vissuto.
Gli obiettivi L’obiettivo generale è stato quello imparare a riconoscere la grammatica delle cinque emozioni primarie: PAURA, GIOIA, TRISTEZZA, DISGUSTO, RABBIA.
Per ogni emozione abbiamo proposte delle attività per mettere in evidenza i seguenti punti :
1. riconoscere le manifestazioni corporee delle emozioni.
2. riconoscere i pensieri:
A. Riconoscere quale pensiero automatico fa seguito a un’emozione.
B. Insegnare ai ragazzi a relativizzare questo pensiero.
C. Aiutarli a rendersi conto che quello che hanno avuto è un pensiero e non tutta la realtà. La nostra mente funziona pensiero dopo pensiero ma il pensiero non è la realtà.
3. Nominare l’emozione.
4. Riconoscere i comportamenti associati.
Le tappe del progetto 1. La prima tappa del nostro percorso è stata la visione del film ‘ Inside Out’ e la relativa riflessione evidenziando gli aspetti che sarebbero poi tornati utili nel lavoro successivo.
2. Successivamente abbiamo chiesto ai ragazzi di scrivere una loro definizione di ‘Emozione’. Abbiamo fatto un braistorming circa quanto avevano scritto prendendone nota alla lavagna. Da quanto loro hanno condiviso ci siamo collegati alla definizione di emozione .
3. Siamo poi passati a trattare le diverse emozioni secondo differenti modalità:
– Mettere per iscritto un episodio significativo della loro vita mettendo in evidenza i vari elementi indicati nella definizione ufficiale.
– Rappresentazione rappresentare attraverso il disegno a mano libera un’emozione.
– Scelta di una o più immagini (o fotografie) che rappresentano l’emozione indicata spiegando la motivazione della scelta al gruppo classe.
– Drammatizzazione in classe dell’emozione indicata attraverso mini-storie in piccoli gruppi
– Elaborazione in piccoli gruppi di una storia, lasciando spazio a fantasia e immaginazioneNella condivisione dei vari episodi abbiamo aiutato i ragazzi nell’esplicitare i vari punti (manifestazioni corporee, pensieri, comportamenti) qualora non li avessero già identificati ed espressi.
4. Abbiamo elaborato poi verifica sia sui contenuti sia sulle modalità scelte nei vari incontri sia sull’utilità personale che i singoli alunni hanno percepito nel corso della realizzazione del progetto. Quindi possiamo meglio dire che le verifiche in questione sono state sia soggettive (svolte al termine di ogni sessione per valutare la partecipazione e il coinvolgimento dei singoli ragazzi, la capacità di rielaborazione e il rispetto delle consegne e osservazione finale da parte dei partecipanti) sia oggettive (verifica finale attraverso un questionario circa l’assimilazione dei contenuti e l’acquisizione delle specifiche competenze).
Conclusioni
L’esperienza realizzata è stata interessante e ci ha permesso di constatare sia l’utilità di un tale intervento a favore dei ragazzi sia nel poter rafforzare generalmente un rapporto di maggiore fiducia sia tra il docente e l’alunno sia tra gli stessi membri del gruppo classi e soprattutto una maggiore capacità di accoglienza reciproca permettendo così ai ragazzi stessi un confronto più sereno con il proprio mondo emotivo a beneficio sia della didattica che più in generale dell’esperienza di apprendimento e acquisizione di competenze per il proprio benessere.
Compassione: Bibbia e psicanalisi per uno studio della società
Siamo “programmati” per la compassione: dolore e gioia dell’altro sono per ognuno di noi una chiave che ci permetterebbe di costruire un’etica universale globale. Contro la società dell’indifferenza che abbandona l’innocente nel suo dolore. Lo sostiene Erminio Gius nel suo saggio “Compassione: Bibbia e psicanalisi per uno studio della società” (Edizioni Dehoniane, € 18,50), con la prefazione dello psichiatra Eugenio Borgna. Gius è stato professore ordinario di Psicologia sociale all’Università di Padova, è frate francescano cappuccino. Ha pubblicato numerosi libri e articoli scientifici in campo psicologico, delle neuroscienze e dei comportamenti sociali.
L’intervista
Gli abbiamo chiesto:
Cosa l’ha spinto a dedicare un intero saggio al tema della compassione. “L’ho voluto fare dal punto di vista di uno scienziato della mente: tramite la psicanalisi, la psicologia sociale e infine le neuroscienze. Con molti riferimenti biblici, pur non essendo un biblista. Certamente la dimensione della fede è sullo sfondo, ma nel mio lavoro tutto è riferito a paradigmi scientifici. Ho cercato di scriverlo nella maniera più chiara possibile, riducendo molto, per arrivare all’essenzialità. In sostanza non ho voluto parlare sulla compassione, ma della compassione incarnata nell’uomo”.
Misericordia e compassione sono due parole che crescono in ambito cristiano. “Nel prologo infatti tratto le radici epistemologiche del termine compassione: la Sacra Scrittura sostiene che l’essenza stessa di Dio sia la misericordia. E’ il suo nome: comprende l’identità di Dio stesso. L’uomo non ha la misericordia in “dotazione”: è invece programmato per la salvaguardia della sua vita. Può accedere alla misericordia di Dio, cioè alla comprensione del significato di misericordia, tramite la compassione, che invece gli è propria. Questa è la tesi di fondo. L’uomo fa parte di quel disegno di costruzione del creato proprio tramite la compassione”.
Ma dal punto di vista psicologico cosa abbiamo a che fare con la misericordia? “Il nostro cervello è programmato per la compassione o empatia. Emerge dagli ultimi studi nel campo delle neuroscienze che noi agiamo tramite un “programma” atto a percepire, sentire, il dolore dell’altro, così come la gioia e le altre emozioni”.
Quindi la misericordia è propria di Dio, mentre l’uomo può capirla solo attraverso l’empatia con gli altri, cioè la compassione? “Capire il concetto di misericordia è possibile nel momento in cui abbiamo la possibilità di agire la compassione. Ma punto di vista della psicanalisi esistono anche dei lati oscuri della compassione: in alcuni casi può essere scambiata una patologia con un atteggiamento empatico”.
Bibbia e psicanalisi per uno studio della società è il sottotitolo del saggio: significa che. possiamo capire la società attuale attraverso il tema della compassione?
“Per spiegare questa relazione parto dal peccato originale narrato nella Genesi: la disobbedienza della regola imposta da un “Altro”, da Dio. Il tema dell’alterità e della differenza è quello fondamentale nella vita degli uomini. Ognuno di noi vive in un contesto di dipendenza dagli altri. Molto difficilmente si arriva alla libertà, nel senso di totale indipendenza dall alterità. Ma solo attraverso la disobbedienza, come quella del peccato originale, l’uomo ha potuto per un verso capire la propria fragilità, dall’altro ciò gli ha permesso di conoscere la sua identità: “ora l’uomo conosce il bene e il male”, dice la Genesi. Le scelte responsabili rispetto al bene e alla giustizia non ci sarebbero state senza questa iniziale “disobbedienza”.
Quindi l’uomo ha la possibilità di distinguere tra ciò che è giusto, razionalmente, e ciò che è buono, secondo il criterio della compassione? “Anche in questo caso rispondo con un brano della Scrittura: la parabola del figliol prodigo, interpretata da Rembrandt. Qui il padre mette le mani sulle spalle del figlio. Normalmente quella parabola viene interpretata come la misericordia di Dio, incarnata dal padre. Nel dipinto di Rembrandt però, il padre ha una mano femminile e una maschile: la mia interpretazione è che a ri-accogliere il figlio sono il padre e la madre che gli hanno permesso di allontanarsi per cercare la sua identità. La grandezza è quella dei genitori che hanno permesso a se stessi di sopportare il dolore della separazione. Hanno consegnato all’altro di poter vivere la sua alterità”.
In un contesto sociale globale invece come va interpretata la compassione? “In questo caso mi è tornata utile la parabola del buon samaritano: l’outsider, fuori da contesti regolati, è colui che restituisce dignità e giustizia al malcapitato. La compassione va intesa in questo caso come responsabilità nei confronti degli altri. Ci sono aspetti prosociali e neuroscientifici della compassione che ci permetterebbero di praticare la giustizia e il bene. Il dolore innocente genera compassione e può diventare una carta etica globale”.
Che problema ha, dal punto di vista dello psicologo, una società che non prova più compassione di fronte al dolore innocente dei migranti abbandonati in mare? “E’ malata d’indifferenza e di chiusura difensiva. Il dolore ha un valore universale, che non può essere ignorato o scansato da nessun tipo di etica”.
pubblicato sul quotidiano L’Adige il il 21/04/2019
Le proteste che si sono susseguite nel 2019 ad Honk Kong e che hanno subito un escalation negli ultimi mesi,sono scaturite dalla volontà di Pechino di uniformare il sistema giudiziario di Honk Kong a quello della Cina continentale.Attualmente chi commette un reato in Cina e si rifugia ad Honk Kong non può essere estradato perché non esistono accordi tra queste due realtà. Pur esistendo una costituzione cinese comune, Honk Kong ha una sua indipendenza ed autonomia che gli permette di essere libero dalle decisioni di giudiziarie di Pechino.Il governo cinese ha voluto varare una legge sull’estradizione che potesse consentire un giudizio da parte dei tribunali di Pechino,questa prevede un pre-giudizio ad Honk Kong al quale seguirebbe un giudizio in Cina.
I giovani di Honk Kong sono scesi in piazza per protestare, infatti tali misure potrebbero presto estendersi anche agli oppositori di Pechino, che così potrebbero essere estradati e giudicati per le loro idee politiche.La paura è che vengano meno quelle garanzie presenti grazie ad uno stato di diritto che si basa sulla common law britannica.Oggi l’ultimo grado di giudizio è previsto davanti la corte suprema di Honk Kong alla quale si può appellare chi commette un reato per essere giudicato in ultima istanza. La riforma voluta dal governo di Pechino mira a voler far comunicare questi due sistemi e a non renderli più separati, proprio grazie all’istituto dell’estradizione.
La popolazione di Honk Kong non è scesa in piazza solo contro il singolo provvedimento ma protesta in senso più ampio contro la Cina. La protesta mira a rallentare la transizione che porterà Honk Kong sotto Pechino per ogni aspetto della sua vita, da quello economico a quello dei diritti delle persone nel 2047. Ciò darà conclusione alla dichiarazione congiunta sino-britannica del 1984 che portò alla fine del mandato inglese nel 1997.Questi accordi prevedevano il mantenimento dello status quo per cinquant’anni e vedranno nel 2047 il passaggio definitivo di Honk Kong sotto la guida di Pechino.
Per capire quanto sia radicata la questione di Honk Kong nella popolazione cinese è necessario fare una digressione storica che parta da inizio ‘800. L’impero inglese, tramite la compagnia delle indie,avviò una penetrazione commerciale in Cina per vendere l’oppio prodotto in India. Gli inglesi crearono problemi economico sociali con l’espandersi dell’uso della droga all’interno della Cina e questo portò alla prima guerra dell’oppio (1839).Le autorità cinesi reagirono distruggendo l’oppio stoccato nei magazzini e chiusero le fumerie presenti in Cina. La risposta di sua Maestà non si fece aspettare e comportò una violenta e sanguinosa repressione da parte dell’esercito che si concluderà con il trattato di Nanchino (1842). Il trattato,primo dei trattati ineguali, stabiliva la necessità dei britannici di disporre di porti e magazzini e veniva sancito che la Cina cedeva per sempre la penisola di Honk Kong a sua Maestà la regina di Gran Bretagna.Inoltre dato che il governo britannico era stato costretto a mandare un corpo di spedizione militare per intervenire a tutela dei suoi interessi,la Cina fu costretta a pagare 21 milioni di dollari per i danni avuti per la distruzione dell’oppio e per le spese sostenute.
Nel 1898 la Gran Bretagna annetterà anche la penisola di Kowloon e i new territories che saranno concessi dalla Cina per 99 anni. Il vasto malcontento per queste nuove misure porterà alla Rivolta dei Boxer (1899) contro la quale verrà impiegato un contingente internazionale di 16000 uomini (2000 italiani) per reprimere la rivolta nel sangue. La Cina da questo momento sarà costretta a cedere molti territori e a diventare una colonia in cui lo sfruttamento e il saccheggio delle potenze estere: Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti, Russia, Giappone, Italia, Germania, etc, costrinsero la già fiaccata popolazione cinese ad un‘emigrazione di massa.I cinesi andati a lavorare nel sud est asiatico, in Australia e negli Stati Uniti furono discriminati e sfruttati.
Con queste premesse storiche è evidente che la CIna ha vissuto 100 anni diumiliazioni sul suo territorio e proprio in quell’area. Oggi le attuali interferenze delle potenze straniere in appoggio alle rivolte di Honk Kong sono viste come un retaggio della loro politica coloniale e imperialistica e sono mal tollerate dai nazionalisti cinesi. Proprio in quest’area vi è lo sviluppo di un grande progetto economico. La politica di Pechino guarda al 2047 con la creazione della GREATER BAY AREA (foto 1). Questo progetto mira a collegare le città di Honk Kong e Macao con altre 9 città della regione del Guandong comprese Shenzen e Guangzhou.Nascerà un centro economico integrato che diventerà secondo le previsioni, un distretto tecnologico capace di competere con la Silicon valley di san Francisco. L’integrazione dell’area ha già visto la costruzione del ponte marino più grande al mondo che collega Honk Kong a Macao fino la città cinese di Zhuhai (foto 2). In quest’area i distretti industriali di Dongguann e Foshan sono in ordine: un centro per la robotica e uno per la manifattura, mentre Shenzhen è la capitale hi tech del settore delle comunicazioni con la Huawei.
Honk Kong sarà il centro finanziario e commerciale di questo Hub tecnologico e Macao il polo di attrazione turistico dell’area. Nella realizzazione di questo imponente progetto, a mio avviso,non vi è un pericolo per la popolazione di subire una repressione che porti alla riduzione dei diritti attuali, in quanto dovrà essere garantita una libera circolazione di merci, persone e capitali per favorirne l’economia.Semmai,con il tempo, vi sarà il pericolo di un controllo indiretto che verrà esercitato dalle aziende di Pechino.Queste spinte dagli enormi interessi economici potranno incominciare ad esercitare un controllo su settori come la comunicazione, magari indirizzando diversamente l’opinione pubblica o pressando i social media occidentali attualmente operanti ad Honk Kong verso una visione politica più vicina a Pechino. A supportare tale progetto vi è anche la politica migratoria che permette attualmente a 55 mila cinesi continentali di entrare ad Honk Kong ogni anno. Ciò andrà a creare un significativo cambiamento nei pesi della popolazione della penisola nel 2047 con una cittadinanza numericamente più “fedele” a Pechino che permetterà un passaggio di consegne meno turbolento.
Quindi la vera modifica della società sarà data da una nuova visione imposta dall’alto, ma senza grandi strappi e tantomeno repressioni ma con una preparazione lenta e inesorabile così come la Repubblica popolare cinese ci ha abituato in quest’ultimo secolo. Questo è un ulteriore passo verso la riunificazione con Honk Kong alla quale Pechino guarda non solo per interessi geopolitici ed economici evidenti, ma anche per sanare 100 anni di umiliazioni da parte delle potenze straniere che ancora oggi cercano di far pressione perché questo processo venga ostacolato.
Oggi si afferma un paradosso che disorienta e illude il cittadino contemporaneo: pur avendo a disposizioni, come mai prima nella storia, strumenti per vivere al riparo e senza paure, l’essere umano si ritrova ad affrontare inedite fragilità, che per quanto si provi ad arginare, non possono essere contenute e sono fatte di altre povertà, di precarietà, instabilità, di disuguaglianza e di emarginazione, sintomi che evidenziano anche una nuova vulnerabilità, individuale e sociale. Decifrare quanto stiamo vivendo appare cosa molto difficoltosa. Sembra che ci muoviamo nell’epoca dell’indecifrabile. Il sociologo tedesco Ulrick Beck ha utilizzato il termine “metamorfosi” per definire quanto stiamo vivendo. Un movimento culturale che non sappiamo dove ci porterà, se alla salvezza oppure alla distruzione (Metamorfosi). Come d’improvviso siamo scaraventati in un clima a tinte opache, dall’incomprensibile moto, dove l’umano avverte la pressione di un tempo complesso che ha visto frantumare tutte le risposte certe che la storia passata aveva dato. Un periodo in cui continuamente l’umano si chiede come abitare nella cornice dell’attuale senza cedere alla sfiducia e alla semplificazione culturale che pare sempre di più prendere il sopravvento. Infatti siamo tutti alla ricerca del modo migliore per fare fronte alle conseguenze che questa inedita situazione può avere per la nostra esistenza, i nostri figli e il futuro del mondo. Una preoccupazione legittima, dinanzi alla quale più di qualcuno ha cominciato a guardare all’indietro, come ha scritto Zygmunt Bauman nel suo libro postumo Retrotopia. Sintomo di una nostalgia mai sopita, di ciò che è stato, rimpianto di un passato in cui ci si percepiva sicuri, uniti e stabili, dove si affermavano spinte a chiudersi nel proprio piccolo mondo, e tutto era facilmente comprensibile, leggibile ed ospitale.
Le conseguenze della crisi di sistema
Il cittadino globale e particolarmente l’inquilino europeo ed occidentale faticano ad affrontare una crisi di sistema che ha visto dissolvere tutti i punti di riferimento, come ha puntualmente evidenziato l’analisi del sociologo Zygmunt Bauman, garanzia di una prospettiva di vita che, nonostante le possibili fatiche e difficoltà del vivere, manteneva un valido senso di appartenenza e una chiara identità, soprattutto apriva ad un futuro carico di promesse. Con la caduta delle ideologie, delle grandi narrazioni e l’avanzata di un capitalismo finanziario selvaggio sono stati messi in discussione lo stesso vivere quotidiano del cittadino globale e le istituzioni democratiche, in particolare la politica e l’economia, oggi sempre più incapaci di gestire il reale sviluppo delle persone e garantire il bene comune. Basta pensare alla massa di nuovi poveri che non trovano ascolto, i senza fissa dimora, i giovani che non trovano lavoro, gli immigrati, le persone sole e abbandonate, gli anziani e i bambini, così come l’acuirsi della questione ecologica. Inoltre si manifesta una nuova fragilità morale, quella che nasce dalla debolezza della volontà nel rimanere ferma, coerente alle proprie scelte o ai propri principi e valori. Così come le nuove fragilità spirituali, quelle che si manifestano quando si avverte un senso di vuoto e di inutilità, di smarrimento della propria identità, dei valori di riferimento e la perdita del significato del vivere. Accanto alle quali si uniscono anche le fragilità religiose, che si presentano quando il rapporto con il divino subisce battute di arresto e tradimenti, oppure quando tale rapporto si costruisce su un’idea equivoca se non addirittura deviata di Dio, che lo crede violento, giudice punitore e giustiziere, contro l’uomo e tutto ciò che lo riguarda.
Fragilità e paura
a fragilità è di grande attualità. Oggi molti studiosi registrano una rivincita della fragilità. Certamente non da intendere come la giustificazione delle responsabilità che abbiamo di fronte alla storia, o il paravento delle proprie incapacità, per cui meglio rassegnarsi e accettare passivamente le cose come stanno, bensì come nuovo paradigma che può insegnarci qualcosa di importante e di salvifico. Alda Merini nelle sue poesie ha scritto che la fragilità mette a nudo l’essere umano nella sua interezza e scardina tutte le convenzioni culturali e strutturali che l’uomo si è dato nel tempo e spesso ha relegato il suo fratello fragile in ghetti che lo tenevano lontano dalla persone considerate sane. Il tema della fragilità è particolarmente urgente per noi che ci troviamo a fare i conti con nuove e paralizzanti paure che non ci permettono di essere veramente noi stessi, aperti all’altro, organizzare la costruzione di un futuro buono. Paure che ci rendono più insicuri e per cui alla continua ricerca di armature forti. Difatti oggi si afferma un’idea di uomo riuscito che viene coniugato con il verbo “potere”, quale sinonimo di forza, di dominio, di perfezione, di inappuntabilità e inespugnabilità, che poi nella pratica si traduce nell’esasperazione della sindrome di prestazione e competizione, ed un agire pragmatico e dai tratti cinici, che in realtà evidenzia una debolezza individuale e sociale che spaventa e intimorisce, e crea nuove dipendenze e prigionie. Per questo ai annota la crescita di atti di prepotenza che mentre tendono ad affermare la propria forza in realtà coprono l’evidenza di una più grave e insopportabile debolezza umana.
L’ermeneutica esistenziale della fragilità
n un tale contesto ritornare sul tema della fragilità e leggerlo dal punto di vista dell’ermeneutica esistenziale consente non soltanto di individuare a riconoscere la dimensione più profonda dell’umano, ma soprattutto smaschera l’illusione di essere invincibili e inappuntabili, ci aiuta a comprendere chi siamo realmente e a ricomprendere il nostro posto nel mondo. Una prospettiva che rimette la persona al centro liberandola da qualsiasi deriva ideologica e promuove un processo di conoscenze e di pratiche che offre all’esistenza un significato valido. Un approccio che si serve della fenomenologia di matrice husserliana, la quale osserva i puri fenomeni che si offrono alla conoscenza, tratte dal vissuto dell’essere umano, con tutte le contraddizioni e le difficoltà che si trova a vivere nel qui e ora della storia, per portarli poi al pensiero ed alla coscienza, dove si esercita la facoltà di conferire un senso alle evidenze. In tale orizzonte l’ermeneutica esistenziale, in quanto arte dell’interpretazione che consente di andare dai fatti ai loro significati, si mette al servizio di un respiro di senso ampio, quale comprensione del proprio destino, di una verità per sé, di trovare l’idea significativa per cui vivere. Questo ci permette anche di compiere un’opera di trasparenza e iniziare a vedere le cose dalla prospettiva della realtà, dalla concretezza della vita e non dai puri principi calati dall’alto. Principalmente consente di scoprire che proprio nella fragilità si nascondono delle opportunità per costruire un mondo più vero, più giusto e più buono, orientato verso la speranza della fraternità e non della disperazione dell’individualismo, dell’egoismo e dell’indifferenza che esclude, discrimina e uccide. Come quella di scoprirci semplicemente degli esseri umani, fatti di «miseria e grandezza» come ebbe a dire il pensatore Blaise Pascal (Pensieri). Riprendere il tema della fragilità è un’opera di trasparenza che provoca anche ri-comprensione della rivelazione biblica di un Dio che nell’incarnazione del Figlio non soltanto ha scelto ma ha assunto la fragilità quale luogo per rivelarsi al mondo. Una logica da non leggere secondo un riduzionismo sociologico ma come categoria teologica. In quanto luogo in cui Dio ha deciso farsi conoscere al mondo ed ha abbracciato l’umano tutto intero. Tale scelta se accolta senza accomodamenti ha delle ricadute pastorali ed ecclesiali innovative: come prima cosa ci spinge a vedere le cose dalla prospettiva opposta di come guarda l’attuale società, come più volte ha suggerito papa Francesco: bisogna iniziare ad osservare, riflettere e decidere dalla periferia verso il centro, dai confini al centro, dalle sedi della povertà ai palazzi del potere. In altre parole, dal punto di osservazione di ciò che può rompersi e necessita di essere trattato con cura. Inoltre ci permette di poter scoprire che nella fragilità si nascondono delle opportunità nuove per un mondo più vero, più giusto e più buono, orientato verso la speranza della fraternità e non della disperazione dell’individualismo, dell’egoismo e dell’indifferenza che discrimina e uccide.
Abitare la fragilità
Certamente qualcuno potrebbe dire che la fragilità fa parte della vita e saremo sempre chiamati a fare i conti con le nostre debolezze e la provvisorietà dell’esistere. Per cui non serve riflettere e agitarsi su questo aspetto dell’esistenza, perché la fragilità c’è sempre stata è sempre ci sarà, meglio puntare sulla nostra forza e sull’idea di invincibilità. Ma è proprio così? Siamo proprio sicuri che la prospettiva dell’insuperabilità e dell’inespugnabilità ci rende più forti? Ci garantisce una vita più felice e al riparo dalle ferite? O piuttosto la fragilità è il vero punto di forza dell’essere umano? Il luogo da cui ripartire per immaginare e costruire una nuova società, un’economia dal volto umano ed una politica a servizio del bene comune? L’umano in quanto essere aperto, come insegnava il teologo Romano Guardini, è chiamato ad abitare le fragilità con intelligenza e responsabilità. Quale azione più appropriata e confacente per un’esistenza autenticamente umana e cristiana, in quanto promuove l’atteggiamento del prendersi cura della vita in tutti i suoi ambiti, di sé stessi, dell’altro e del creato. L’abitare come affermava il filosofo esistenzialista tedesco del secolo scorso Martin Heidegger è: «il modo in cui i mortali sono sulla terra […]» nel senso di «Costruire e il coltivare ciò che cresce». Il filosofo ebreo Martin Buber utilizza il termine tedesco “existieren”, per indicare l’esistenza autentica e piena che trova il suo centro fuori di sé, nell’essere per l’altro, in contrapposizione alla “vorhandensein”, all’esistenza che invece sottomette tutto all’arbitrio dell’io. Una distinzione che evidenzia la responsabilità di abitare il mondo e la storia, attivamente, animati dalla giustizia e dal bene, in relazione agli altri e per gli altri (La vita come dialogo). Il luogo dove l’individuo percepisce, manifesta e conosce il suo essere più profondo e si proietta verso il suo compimento. Ma questa è un arte da imparare continuamente. Per questo ancora Heidegger afferma che: «[…] i mortali sono sempre ancora in cerca dell’essenza dell’abitare, che essi devono anzitutto imparare ad abitare» (Costruire, abitare, pensare). Ogni tempo richiede di ripensare l’abitare la propria storia. Infatti oggi si è imposto un modo di abitare le città ed il mondo, sganciato da quelle relazioni umanizzanti, che garantivano di non sentirsi soli e schiacciati dalla propria condizione di debolezza. Per cui è necessario ricomprendere cosa significa abitare, di coglierne l’essenza e reimparare ad abitare il presente. Ciò richiama un altro atteggiamento che l’uomo e la donna contemporanei devono fare proprio, il comprendere. Il maggiore esponente dell’ermeneutica esistenzialista Hans-Gerg Gadamer ha evidenziato che «Il comprendere è l’originario modo di attuarsi dell’esserci, che è l’essere nel mondo […] il comprendere è il modo di essere dell’esserci in quanto poter-essere e possibilità» (Verità e metodo).
Esserci come protagonisti
In questo panorama il comprendere diviene la risposta dell’essere all’esserci nella storia, non in quanto spettatori bensì come protagonisti, aperti al poter-essere e alla possibilità dell’essere nel mondo attivamente. Per cui assumere la categoria dell’abitare dunque non è soltanto l’esigenza di una garanzia per sopravvivere nel contesto in cui ci troviamo ad essere, alquanto confuso, ma piuttosto promuove una visione sapiente dell’esistenza, quale principio ermeneutico per ripensare, riorganizzare e ricostruire un tessuto sociale dal respiro più umano. Soprattutto consente di vivere i fatti in una dimensione di senso che diviene comprensione del proprio destino, di «una verità per sé» come sosteneva il filosofo e teologo danese Kierkegaard, ovvero di trovare quell’idea significativa per cui «vivere e morire» (Diario). Risulta chiaro, dunque che, l’abitare è legato alla relazione con l’ambiente circostante, con le cose e le persone, non come un impossessarsi anonimamente di uno spazio circoscritto, occupando un posto, ma nel significato suo più vero di avere consuetudine e abitudine, quale atteggiamento di responsabilità e familiarità con il luogo, gli uomini e le donne che vi abitano a loro volta e con i quali condivide il comune destino. L’abitare richiama la casa, l’ambiente dell’intimità, in cui ritirarsi e raccogliersi, come descritto dal filosofo Emmanuel Lévinas, dove trovare il tempo per ristorarsi, ripararsi e riposarsi, rilassarsi e ritemprarsi, per poi ripartire nuovamente verso l’esterno: esattamente il ruolo della casa non consiste nel fine dell’attività umana, ma nell’esserne la condizione per raggiungere il fine e dunque l’inizio dell’agire e dello stesso essere (Totalità e infinito). L’abitare nel significato più ampio, quindi, si riferisce allo stare in un luogo pubblico, precisamente nell’agire in rapporto alla vita sociale, in un determinato contesto, con il quale si ha consuetudine. Per cui richiama il legame tra la propria casa e la strada, il luogo dove comincia l’attività umana. Senza per questo rinchiudersi tra le mura domestiche, cosa che spesso oggi accade, dove la casa è divenuta sinonimo della tana dove nascondersi, lo spazio privato dove i comportamenti si chiudono totalmente all’esterno. L’abitare infatti, contrariamente a quanto si pensa non conduce a vivere rintanati nel proprio nido, anche se evidentemente contiene e necessita in parte di tale dimensione dell’esistere, ma principalmente esprime l’apertura della persona, la sua stessa identità e appartenenza, da quelle più affettive e familiari, fino ad arrivare a quelle sociali, professionali e culturali.Quale compagnia che spezza lo stesso pane, fatto di fatiche e di gratificazioni, di miseria e di grandezza, esposti sulla stessa strada correndo continuamente il rischio di essere feriti, partecipi di un unico cammino. Per cui l’abitare è il permanere, un dimorare, ossia uno stare nel mondo, non astrattamente, ma concretamente, con la testa e con il cuore, con le mani e con i piedi, un esserci moralmente e responsabilmente riparando gli uni gli altri le proprie fragilità. Un vivere positivamente il luogo dove ci si trova, aprendosi alla relazione con la storia e le persone che ci vengono incontro, soprattutto con chi si trova in condizioni di debolezza e vulnerabilità. Da ciò nasce l’organizzazione della città, la politica, la scuola, la costituzione della famiglia, l’arte del lavoro, l’invenzione della techne e dell’oikonomia, quali strumenti dell’ingegno umano e mezzi per comprendere, vivere ed abitare attivamente sulla terra, amministrare e addomesticare l’ambiente dove si vive, renderlo ospitale e carico di significato.
La civiltà dell’amore
In tale prospettiva la fragilità non è da intendersi come una disfunzione che diminuisce l’essere e le sue capacità, ma in quanto figlia di questo incontro-scontro con la realtà dove si abita, il luogo in cui si viene dati e ci si percepisce senza tutele, dove si forma il carattere e si plasma la propria identità, ma anche il luogo dove si manifesta più chiaramente l’esposizione all’altro e la caducità dell’esistenza nel suo duplice aspetto: da una parte perché non siamo i padroni della nostra vita, durante il cammino dell’esistenza si apprende che è stato qualcun altro che ci ha donato l’essere, e dall’altro perché il nostro corpo e la nostra psiche possono deperire fino a morire. Allo stesso modo però la fragilità afferma un’esperienza capace di condurre la persona a sé stessa, al suo valore più autentico, alla parte più vera di sé e ritrovarsi in un maniera del tutto nuova e più sincera, senza artificiali infingimenti. In tale senso la fragilità come ha sostenuto lo psichiatra italiano Vittorino Andreoli «ha il potere di rifare l’uomo» nel senso di accoglierlo e ripararlo nelle sue debolezze e riscrivere una nuova pagina di umanità, secondo anche quella prospettiva molto cara a san Paolo VI, ossia la «civiltà dell’amore».
La speranza come apertura all’inedito
Soltanto quando l’umano si riesce a riconciliare con la propria fragilità può ricomprendere più profondamente sé stesso, non soccombere all’idea di bastare a sé stesso e non cedere alla paura, all’illusione di una vita chiusa e autoreferenziale che molto spesso conduce alla solitudine. Così come non lasciarsi plagiare da quella volontà di potenza che si configura nell’uomo forte a tutti i costi. Abitare il presente dalla prospettiva della fragilità significa organizzare una società più umana e per questo umanizzante. La paura infatti è esattamente quell’emozione primaria di difesa che si innesca quando ci sentiamo minacciati e messi in pericolo da qualcosa, di reale o di immaginario, che in qualche modo rompe la fiducia, e mette a nudo la nostra condizione di vulnerabilità e fragilità originaria. Nelle paure che quotidianamente ci accompagnano, precisamente, si avverte la sensazione di esposizione della precarietà della nostra esistenza. Così ci sentiamo insicuri, angosciati e ansiosi perché non riusciamo più a percepirci capaci di gestire e padroneggiare l’incertezza esistenziale, ovvero il terreno su cui si poggiano le prospettive di vita. Le paure quando vengono portate alla luce acquistano una fisionomia, il volto più vero dell’umano. Spesso dischiudono cammini e disvelano risorse che non si immaginava di possedere. Le paure pertanto non sono soltanto dei buchi neri dove essere risucchiati, ma conducono misteriosamente un arcano respiro di vita e ad una rinnovata fiducia. Il coraggio nasce invece dalla capacità del cuore di non fuggire le paure che soffocano la vita, ma di agire e affrontare le incertezze e le minacce che subisce. Solo guardando le paure che assalgono l’esistenza si può trovare la forza di attraversarle, anche se sono motivo di angoscia e di conflitto, e trovare infine il coraggio di non lasciarsi andare all’abbattimento, alla disperazione e alla tristezza. Qui entra in gioco la speranza, la grande, la speranza affidabile, come ha affermata papa Benedetto XVI nell’interessante Enciclica Spe Salvi, quella che sostiene e rende sopportabile la vita umana. La speranza cristiana, quella che non soltanto rende il tempo memoria e nostalgia del già stato ma anche apertura all’inedito. Eppure la speranza è una virtù oramai dimenticata, nonostante resti la disposizione intima alla paura capace di dare fiducia e gettarsi in avanti coraggiosamente verso il futuro. La fiducia è la forza che, come ha affermato il filosofo Salvatore Natoli, permette di abitare attivamente il presente in vista del mantenimento e del rafforzamento dei beni futuri e dello stesso futuro del bene (Fiducia).
Le esperienza fondamentali per lo sviluppo della persona
Premessa
In questo breve articolo vogliamo brevemente rispondere ad alcuni interrogativi:
Quali esperienze fondamentali segnano lo sviluppo dell’identità, in cui si gioca la possibilità dell’individuo di diventare se stesso? Quali i compiti di sviluppo a cui nelle diverse fasi dell’esistenza è chiamato a rispondere?
Possiamo individuare nel cammino verso lo sviluppo del Sé – o del vero Sé nel senso di D. Winnicott – alcune tappe imprescindibili su cui tutta la ricerca psicologica concorda?
Una breve disamina della letteratura della psicologia dello sviluppo, ma anche di quella dell’adulto, può offrirci indicazioni preziose che l’educatore saprà poi declinare in termini pedagogici.
Infanzia e fanciullezza
La relazione è l’ambiente in cui la vita può crescere
Le ricerche sia di matrice filosofica che psicologica sono concordi nel riconoscere che non si può parlare della persona e della sua realizzazione se non in chiave relazionale. L’ambiente in cui la vita germina è fin dalle origini relazionale, come dimostrano anche le più recenti ricerche della neonatologia, e non è possibile pensare all’individuo se non in stretto rapporto con l’ambiente familiare, sociale e naturale. Siamo parti di un sistema, di un tutto, in cui e con cui interagiamo. Questo scenario in cui cercheremo di collocare le fondamentali esperienze che ciascun individuo è chiamato a fare è imprescindibile per comprendere lo spessore e il senso di ciascuna.
«Assume sempre più posizione centrale nella nostra comprensione del bambino l’esperienza d’incontro con la madre, la costruzione di una reciprocità relazionale frutto di interazioni continue co-regolate ed è alla relazionalità che viene attribuita la funzione di strutturare la psichicità infantile, gli assetti personologici futuri».
Come afferma A. Adler: «Il bambino e la madre sono reciprocamente dipendenti, e questa relazione non solo deriva dalla natura ma ne è favorita….Il ruolo della madre è quello di richiedere la cooperazione del bambino. Ella con l’allattamento e le altre trasformazioni funzionali del suo corpo…ha bisogno del bimbo proprio come lui ha bisogno di lei; infatti per natura essi sono interdipendenti e la possibilità che il sentimento sociale si sviluppi dipende proprio da questa reciproca interazione».
Il costrutto “sentimento sociale” che rappresenta uno dei pilastri della teoria adleriana si basa sul riconoscimento che il sentimento di tenerezza della mamma nei riguardi del suo bambino stimola un’attitudine innata del figlio alla socialità che via via si allargherà ad altre persone e ad ambienti di vita sempre più vasti:
«Lo sviluppo del bambino è sempre più permeato dalle relazioni sociali. Infatti gradualmente fanno la loro comparsa le prime manifestazioni dell’innato sentimento comunitario e le prime espressioni di tenerezza influenzate da un substrato costituzionale e protese a ridurre la distanza con il mondo degli adulti…»
Lo sviluppo sano dell’individuo sarà, dunque quello che favorirà la sua tendenza innata all’empatia come capacità di “Vedere con gli occhi di un altro, udire con le orecchie di un altro, sentire con il cuore di un altro”- capacità che nelle ricerche recenti in campo neurologico, trova le sue basi nella presenza di neuroni specchio già attivi fin dalla nascita nel bambino- e la sua predisposizione alla realizzazione del bene comune, considerata da Adler, pulsione primaria.
«Il continuo sviluppo del sentimento sociale consente di supporre che la sopravvivenza dell’umanità sia legata alla nozione di bontà».
Come bene esprime Maria Luisa Mondello, psicoterapeuta di bambini, adolescenti e famiglie modello Tavistock, ordinario AIPPI:
«Riteniamo i bambini culturali, relazionali, raffinati comunicatori, competenti conoscitori dell’altro e del mondo. Naturalmente a patto che gli adulti, la madre si tengano in relazione, comunicazione, ricerca di senso con e per il bambino».
Si tratta di interrogarsi e quindi di intervenire sulle condizioni che permettono o ostacolano un sano sviluppo del bambino che –forse in tono meno romanticamente ispirato, più dimesso, ma proprio per questo anche più condivisibile -Selma Freiberg connota come il:
«Mantenimento, all’interno della personalità, di un equilibrio tra le fondamentali esigenze umane e i desideri egocentrici da una parte e le richieste della coscienza e della società dall’altra».
La fiducia di base, frutto di relazioni positive con l’ambiente materno
Una madre che sa sintonizzarsi con i bisogni del suo bambino e rispondervi adeguatamente favorisce in lui lo sviluppo di quella predisposizione verso sé stesso, gli altri e la vita tutta che lo psicoanalista E. Erickson chiamerà “fiducia di base”.
Nella prima fase dello sviluppo: la fase orale, il bambino impara la modalità del prendere e del dare. Il prendere il seno della mamma, il suo latte, presuppone la possibilità di rilassarsi. Il calore del corpo materno, il latte buono che da esso proviene costruiscono l’esperienza del sentirsi accettati e sostenuti , del sentirsi amati gratuitamente e incondizionatamente, di trovarsi in un “porto sicuro”. Dalla fiducia di base scaturisce la capacità di dire “sì” alla vita.
La fiducia di base rappresenta “lo sfondo di sicurezza” (Sandler, 1960) su cui possono crescere tutte le altre relazioni anche quella con Dio.
La prima esperienza su cui si costruirà l’identità del bambino è lo sguardo della madre che lo rispecchia con tenerezza e che gli rimanda l’immagine di se stesso come persona degna di essere amata.
Il rispecchiamento dei genitori può anche fallire perché l’immagine del bambino che essi riflettono non è reale. Essi esaltano il bambino per soddisfare i loro bisogni narcisistici. Questo fa si che il bambino non si senta accettato per ciò che è e si avverta sempre inadeguato rispetto ai desideri irrealistici dei suoi genitori .
Con il crescere dell’età la percezione di separatezza tra il bambino e i genitori si accentua e si accompagna alla percezione della propria piccolezza riguardo all’adulto. In questa fase che Freud chiama edipica per indicare la presenza della necessaria conflittualità con le immagini dei genitori a cui il bambino vorrebbe rassomigliare è anche quella in cui il bambino deve riconoscere il suo limite (egli è piccolo, non è il papà o la mamma), ma in cui può anche sviluppare la speranza di crescere per diventare come loro. La percezione della propria piccolezza e dipendenza e dell’incapacità di tenere sotto controllo gli avvenimenti esterni ed interni può trovare nell’immagine di Dio e nella religione un contenimento per cui il bambino apprende che la perdita non è senza ritorno, che la colpa può essere riparata da una sua azione integrativa, che la sua aggressività può essere contenuta dall’altro a cui si affida, riducendo così il pericolo di distruzione dell’altro e di sé.
L’esperienza di sé come soggetto vitale e creativo
Il bambino esperimenta fiducia non solo nella forma di accoglienza e consolazione, propria del matriage, ma, soprattutto dalla seconda infanzia, anche nella forma “paterna” di accompagnamento, quella che spinge all’autonomia e all’iniziativa. La fiducia diventa la base sicura da cui partire per esplorare il mondo.
Il sentimento di autoefficacia che nasce dalla consapevolezza di poter sviluppare competenze e raggiungere obiettivi concreti ed è confermato da piccoli e grandi successi, è fonte di gioia e di gratificazione. Il bambino che cresce non si contenta di ricevere aiuto, ma “vuole fare da solo”. Desidera che gli adulti significativi siano fieri di lui e che i piccoli amici lo stimino. Scopre il gusto del pensare e di agire efficacemente sulle cose. Assapora le nuove potenzialità del suo corpo e della sua mente. E’ fiero di ciò che riesce a creare. Dal punto di vista psicologico, non è irrilevante che la mamma e il papà gli dimostrino di amare la sua crescita e di non temerla. Ugualmente importante che essi incoraggino i suoi sforzi e non lo facciano vergognare dei suoi inevitabili errori.
Attratti dalle bellezza, catturati dal mistero
La spinta insopprimibile alla relazione conduce la persona, in ogni età della vita a vivere l’esperienza estetica che porta sulla soglia del mistero.
Scrive Donald Meltzer .
«La qualità estetica dell’esperienza umana è proprio nel vivere una relazione intima, di vera conoscenza – quasi in senso biblico: di comunione con l’oggetto. Il prototipo di tale esperienza è sempre stato rappresentato dal primo rapporto con la madre: basti pensare alle innumerevoli raffigurazioni artistiche di Madonne col bambino. Un bebè, al momento della nascita, è colto da panico e da estasi. La frammentazione panica viene ricomposta e modulata dalle braccia della madre, dalla sua voce, dal suo odore e solo lo sguardo di lei apparirà al piccolo come una sorta di santuario in cui l’appassionato anelito verso la bellezza di questo nuovo mondo potrà trovare quella reciprocità necessaria a renderglielo sopportabile».
Il volto della madre vela tuttavia il mistero della sua identità. È proprio questo mistero che genera anche timore nel bambino. Solo la disponibilità a sostenerlo finché nell’incontro e nella conoscenza non si sveli l’identità dell’altro permette la salvezza. «Si può essere salvati solo dalla ricerca di conoscenza, dal desiderio di conoscere più che di possedere l’oggetto del desiderio: il desiderio rende possibile, perfino essenziale, dare all’oggetto la sua libertà».
Riconoscere la bellezza e goderne è caratteristica di una personalità autenticamente umana. Essa si declina nella capacità di:
a) evitare una fissazione a bisogni meramente egocentrici;
b) evitare l’incapacità schizoide di rallegrarsi della vita;
c) provare sentimenti di gioia, felicità, stupore, interesse nei confronti di cose e persone dell’ambiente reale, viste come piacevoli e valide di per sé, e, quindi,
d) sperimentare la vita nella sua totalità come una realtà gratificante e significativa, e perciò
e) apprezzarla positivamente in una visione complessiva e trascendente.
Dalla percezione della bellezza all’atteggiamento della gratitudine
Da un punto di vista psicologico, il fenomeno della gratitudine nasce dall’interesse per la fonte e l’origine di esperienze di piacere.
La radice organico-psichica di tale interesse, e quindi della prima forma di gratitudine (e presupposto per le forme ulteriori), può essere rinvenuta nella disponibilità originaria del neonato a rivolgersi con i suoi bisogni alla madre, a sperimentare le sue cure come piacevoli e “buone” e a contraccambiare il piacere ricevuto. Anche se il bambino impara a dire “grazie” in modo formale, condizionato dall’ambiente, egli prova tuttavia, nei confronti dei suoi genitori e di altre persone di riferimento, uno spontaneo sentimento di amore e gratitudine. Nella gratitudine, l’individuo gode di una soddisfazione non soltanto autocentrata, ma anche allocentrica: si rende conto, infatti, di dovere tale soddisfazione a un altro, che essa è un dono. Provare gratitudine significa riconoscere il carattere di dono di un beneficio e rivolgersi consapevolmente e amorosamente al donatore che n’è all’origine, rallegrarsi con lui e trovarlo degno d’amore.
Man mano che aumenta la curiosità del bambino sull’origine di sé stesso (sulla sua nascita), dei genitori e di tutto il mondo, il suo atteggiamento positivo nei confronti della vita assumerà le caratteristiche di una “gratitudine anonima” (B. Schwartz): in particolari momenti di gioia, egli si sentirà il bisogno di ringraziare per la sua vita e per il mondo un’origine e un donatore che trascende i suoi simili.
La possibilità di fare esperienze positive di relazione, di cura e di reciproco piacere permette al bambino di sentire la saldezza dei legami anche in assenza delle figure di accudimento.
Nell’esperienza del bambino la possibilità di sopportare l’assenza della madre è data dall’acquisizione della permanenza dell’oggetto: essa tornerà, il bambino avverte di essere presente nella sua mente. Quando questo processo si realizza positivamente il bambino può pregustare la gioia dell’incontro come momento di festa. Si parla in questo caso di attaccamento sicuro. Nei casi in cui la madre delude le aspettative del bambino – l’attesa è troppo lunga e , quindi, insostenibile; i ritmi assenza – presenza sono irregolari e imprevedibili e generano ansia, – il bambino esperimenta uno stato di confusione e smarrimento e alla speranza subentrano la delusione e il senso di abbandono.
Se invece sono misurate alla sua capacità di tollerarle, il bambino collega l’assenza – in cui egli sa di essere presente nella mente della madre- con l’aspettativa della gioia del suo ritorno.
Il presentimento della gioia può maturare in quell’atteggiamento di speranza che permette di accogliere il futuro nella sua incertezza e che, da un punto di vista religioso, fonda la fede nelle realtà ultime.
2. Lo snodo dell’adolescenza
Nell’adolescenza tutte le esperienze primarie maturate nelle fasi precedenti vengono richiamate, messe in crisi e ridefinite per rispondere ai nuovi compiti di sviluppo.
L’adolescente entra in una nuova dimensione di vita, deve adattarsi a nuove condizioni, è vulnerabile e dipendente, se non dalle cure fisiche del suo ambiente, dai suoi giudizi, da cui spesso cerca di difendersi, rifugiandosi dietro uno scudo di aggressività o indifferenza. La sua autostima è così fragile che basta un nulla per farlo cadere in depressione. La psicoterapeuta francese F. Dolto lo paragona a un gambero che perde il suo guscio e si nasconde dietro le rocce, finchè non ne ha secreto un altro. Se viene colpito in questo momento, le ferite inflittegli saranno incancellabili. La perdita del suo rapporto infantile con i genitori è un lutto difficile da rielaborare: è come se il bambino piccolo morisse per poter diventare qualcosa d’altro: «Sedia, tavolo o Dio», come esclamava pittorescamente il professore citato dalla psicoanalista francese.
Nella ridefinizione della sua identità egli ha bisogni di compagni e di alleati.
Il rapporto con i coetanei
Per la crescita dei ragazzi, l’amicizia è importante come l’aria per la vita. L’identificazione in una persona scelta liberamente, più o meno della stessa età, al di fuori della famiglia, sostiene il processo d’identità dell’adolescente che non si trova solo a fronteggiare le molteplici trasformazioni fisiche e psichiche. “Lui (lei) mi capisce, prova le stesse cose, gli (le) posso confidare tutto, non mi giudica, mi ascolta” così è descritto generalmente il rapporto di amicizia, arcipelago importante nel paesaggio delle nuove appartenenze del giovane. Spesso essa assume le caratteristiche di una relazione gelosa ed esclusiva, come se si volesse ricreare il rapporto simbiotico tipico della prima infanzia: la fedeltà dell’amico, la sua capacità di ‘mantenere il segreto’, di comprenderti in ogni circostanza sono le qualità più apprezzate; l’adolescente si mette alla prova in un rapporto affettivo che prolunga, sostituendolo, il caldo contenitore della famiglia e al tempo stesso prepara i nuovi legami di coppia.
Spesso gli adulti criticano il bisogno dell’adolescente di uniformarsi al gruppo dei pari, lo considerano un rischio, l’espressione di una carenza di personalità: in realtà esso è un passaggio indispensabile.
Espulso dall’infanzia, sulle soglie del mondo degli adulti, senza patria e senza paese, egli cerca qualcuno, nelle sue stesse condizioni, con cui condividere i nuovi spazi di scoperta di esperienza e anche di trasgressione. Ecco perchè spesso gli amici sono tanto diversi da quelli che desidererebbero i genitori: la scelta di un amico, così lontano dai modelli proposti dalla famiglia, può essere la spia della voglia di esplorare parti ignote di sè e del mondo, zone misteriose e affascinanti, proprio per quell’alone di pericolo che le circonda.
A volte, i genitori, timorosi che il figlio scelga amici “pericolosi”, cercano quasi di sostituirli, non senza rischi, però. Infatti o si nega al ragazzo di stringere relazioni sociali al di fuori dell’ambito familiare, facendone un escluso e un isolato, o lo si rende ‘orfano’ di quel genitore che, assumendo i panni dell’amico, non assolve più la sua funzione di punto di riferimento adulto che deve porre regole, e ‘fronteggiare’ il figlio, proprio per aiutarlo a conquistare la sua identità, staccandosi senza troppi sensi di colpa dalla famiglia.
Inserirsi in un gruppo, in una compagnia è in realtà una condizione indispensabile per la maturazione della personalità: oltre ad esperimentare un senso di appartenenza, il ragazzo impara a confrontarsi con gli altri, a limitare il proprio egocentrismo in favore delle loro esigenze, a negoziare e a collaborare. Il consiglio o il rimprovero dei coetanei hanno un’influenza più forte di quelli dell’adulto e rappresentano un potente stimolo al cambiamento. Anche le inevitabili delusioni costituiscono un’insostituibile palestra di vita.
Quando la famiglia è un nido troppo comodo
Mentre nel passato si registravano quasi in ogni famiglia i conflitti generazionali tra padri e figli, caratterizzati da forti momenti di ribellione al padre autoritario, con conseguente abbandono del nucleo familiare, oggi assistiamo al generale fenomeno di convivenza pacifica tra le mura domestiche. I figli trovano la loro autonomia all’interno della famiglia stessa che funge spesso da albergo accogliente e per di più gratuito. Non si sente il bisogno di volare fuori dal nido, ma al contrario si scopre che è confortante (ed economico!) rimanere con mamma e papà, anche quando la presenza di un lavoro permetterebbe di crearsi un’esistenza indipendente.
Alla ribellione delle generazioni precedenti si sostituisce un accentuato narcisismo: la famiglia diventa quasi un grande utero che avvolge e sostiene, ma, al tempo stesso limita lo sviluppo e la crescita dell’individuo.
Ma del resto perchè volare via se non si sa verso chi e che cosa volare e a quale scopo rischiare l’ignoto?
Parafrasando il titolo di un libro molto fortunato del gesuita americano De Mello, si potrebbe dire che un certo modo di crescere i figli e di prospettargli la vita rischia di trasformarli in tanti ‘polli’ che paurosi di orizzonti più vasti, si accontentano di becchettare qua e la nell’aia domestica.
L’adultità emergente (emerging adulthood): una nuova categoria?
Questa categoria, proposta dal sociologo Jeffrey Arnett, si riferisce alla fase di vita tra la tarda adolescenza e l’età adulta, in cui i compiti di sviluppo dell’adulto non sono ancora stabilizzati. Si riferisce a quei giovani adulti che non hanno figli, né un’abitazione indipendente da quella dei genitori, né usufruiscono di un reddito sufficiente per essere completamente indipendenti. Essi vivono un intervallo di tempo durante il quale « non sono più ‘badati’ dai loro genitori o coinvolti nella rete di ruoli adulti e hanno l’eccezionale opportunità di provare differenti modi per vivere e differenti opzioni di amare e di lavorare» .
«In questo modo, possiamo presentare l’emerging adulthood come quel progetto personale che il giovane elabora e cerca di realizzare man mano che “cresce”, progetto condizionato (ossia: facilitato/ostacolato) dalle strutture sociali (le politiche di welfare state, la configurazione della famiglia e i rapporti in seno a questa, la distribuzione delle risorse, etc.) e da quelle culturali»
Dare ali ai giovani
Se è vero che in questa epoca del postmoderno tutti i grandi ideali hanno perduto le maiuscole, per cui non si parla più di Patria, di Pace, di Amore, di Religione, ma più dimessamente, di patria, di pace, di amore, di religione, relativizzando e facendo rifluire nel privato le grandi mete verso cui orientarsi, resta tuttavia nei giovani la nostalgia di grandi scopi a cui consegnare la propria esistenza.
Molti di noi, genitori e insegnanti a contatto ogni giorno con i giovani, rifiutiamo, credo giustamente, il ricorso alle esortazioni retoriche proprie di una certa pratica educativa del passato, temiamo le ideologie e gli integralismi e piuttosto di servirci di vuote parole, preferiamo restare in silenzio di fronte ai giovani che pure ci chiedono indicazioni e suggerimenti. Quando il silenzio della parola si accompagna, però, a una pretesa neutralità nelle scelte e a un relativismo molto vicino al qualunquismo o all’indifferenza, quando niente sembra suscitare la nostra passione o la nostra ira, allora la nostra opera educativa fallisce, perché spegniamo in qualche modo nei giovani il senso del futuro e della speranza e lasciamo affogare i loro interrogativi nel piatto buon senso del quotidiano.
Pronti a contestare qualsiasi affermazione autoritaria, i giovani sono altrettanto desiderosi di cogliere sulle labbra di chi si pone in atteggiamento di ascolto e di dialogo nei loro riguardi la conferma che vale la pena di vivere, impegnandosi fino in fondo, amando e costruendo.
3. L’adulto è una persona in evoluzione
Pensare all’adulto come a qualcuno che ha raggiunto stabilmente i suoi obiettivi e che ora deve solo mantenerli è irrealistico soprattutto in una società “liquida” (Baumann) come l’attuale dove tutto è in continuo cambiamento. Già Edgar Morin (1999) poneva tra gli obiettivi irrinunciabili quello dell’educare a un pensiero complesso e flessibile, capace di accogliere le sollecitazioni di un contesto sociale sempre più vasto e mobile e di gestirle. Così l’adulto è messo sempre di nuovo alla prova da un mondo che cambia ad una velocità vertiginosa e che a volte sembra sradicare valori secolari e modificare scenari dati come definitivi.
Non solo nella vita sociale, ma anche nel privato l’adulto si trova a fronteggiare dei cambiamenti. Così nella vita di relazione egli può sperimentare la fluidità dei legami: separazioni e divorzi, convivenze e famiglia allargate richiedono aggiustamenti e, spesso, ricominciamenti, che possono mettere in crisi la comprensione di sé e del proprio ruolo.
Tuttavia per molti adulti, la presa di coscienza di essere costantemente in movimento diventa motivo di rinnovamento e di crescita. Così essi riscoprono, pur nella fatica, una vitalità di pensiero e di affetti, una giovinezza che non s’identifica con un superficiale giovanilismo (i tardo adolescenti di 50 anni!), ma è piuttosto capacità di vivere la vita con intensità e passione e di rispondere alle sfide dell’esistenza con responsabilità e creatività.
Affermava Duccio Demetrio, docente di Formazione degli Adulti all’Università degli Studi di Milano, in un intervento tenuto al Convegno Nazionale dei Direttori degli Uffici Catechistici Italiani: «Non si “matura” mai definitivamente. A meno che non si decida di fermare il desiderio di vivere. Se accadesse, si compierebbe il nostro cammino, ci staccheremmo dal ramo. Sfatti più che sazi, poiché vivere non dovrebbe saziarci mai».
Le caratteristiche dell’identità adulta
L’autore della ricerca che abbiamo citato avanza una riflessione sull’identità adulta come specifica relazione sociale caratterizzata da quattro componenti:
Responsabilità nelle relazioni
Disponibilità di mezzi
Autodeterminazione
Cura della generazione
L’ultima caratteristica diventa il principio organizzatore di tutte le altre se la intendiamo nella prospettiva di E.Erikson secondo cui «la nuova ‘virtù’ emergente (…), la Cura, è una forma di impegno in costante espansione che si esprime nel prendersi cura delle persone, dei prodotti e delle idee che ci siamo impegnati di curare. Tutte le forze che dai primi sviluppi dell’ordine ascendente che va dall’infanzia alla giovinezza (speranza e volontà, finalità e competenza, fedeltà e amore) vengono alla luce, si dimostrano ora e ad un esame più attento come elementi essenziali alla realizzazione del compito generazionale: quello di sapere accrescere la forza nella nuova generazione. Questo è, in effetti, il ‘negozio’ della vita».
Alcuni titoli di pubblicazioni sulla condizione giovanile descrivono le attuali generazioni come:
– sdraiati
– fragili e spavaldi
– incapaci di distinguere il bene dal male
– senza progetti
– apatici
– disorientati e soli
– senza padri né maestri
– (e altro ancora…)
Se sono così, è tutta colpa loro o piuttosto il fenomeno è il prodotto di una mancata “eredità” (educativa, culturale, valoriale…) nei passaggi intergenerazionali?
In questa prima parte ne analizziamo le conseguenze e successivamente le possibili risposte/cambiamenti per affrontare le emergenze educative.
I fenomeni emergenti
L’attuale periodo storico pur disponendo di beni, mezzi e risorse di cui l’umanità non aveva mai goduto in passato, si caratterizza al tempo stesso per una serie di problematiche e di emergenze che vanno dall’inquinamento alla difesa dell’ambiente, da quelle alimentari a quelle energetiche, dai processi di globalizzazione alle migrazioni di massa.
A fronte di queste problematiche i giovani di oggi vivono in un contesto che si caratterizza per essere non solo all’insegna della complessità, quanto soprattutto di un forte indice di “disorientamento” a causa dell’accelerazione dei cambiamenti in atto. Problematiche che provocano opportunità ma anche esclusioni, accentuata competitività e precarietà. Ciò che ne va di mezzo è soprattutto il diritto ad un futuro fondato su una migliore qualità della vita.
1.1. Senza padri, né maestri
I giovani sembrano percepire di far parte di un mondo “vecchio”, dove non c’è spazio per loro: “Ci stanno rovinando la vita!”, “Non c’è posto per noi in questa società”, “Ci stanno rubando il futuro!”, “Ci hanno rubato il lavoro!”, sono le frasi sempre più ricorrenti e che stanno portando masse di giovani di tanti Paesi a manifestare di fronte alle istituzioni parlamentari su scala mondiale. Ciò che preoccupa di più è che al presente non possiamo dedurre quali conseguenze dannose provocheranno queste “rapine” alle spalle delle future generazioni.
La gioventù contemporanea sperimenta infatti più che mai sulla propria pelle il pluralismo delle culture, l’accelerazione del tempo (con invecchiamento precoce degli individui, delle relazioni umane, dei modelli di vita e di consumo …), la frammentazione dei valori, la complessità degli eventi che caratterizzano il vissuto quotidiano a livello micro e macro sociale, il conflitto ermeneutico, i condizionamenti del mercato-consumo globalizzato, la centralità del corpo, lo smarrimento nella prova dei sentimenti e delle emozioni, la profonda frattura provocata dalla perdita della memoria storica e la mancanza di prospettive di futuro e di progettualità.
Senza padri, né maestri, ma anche senza “patria”, in permanente fuga alla ricerca di luoghi-spazi ove realizzare i propri sogni. Le conseguenze più immediate le riscontriamo in quegli tzunami migratori dalle dimensioni esodali: si è dato il via ad una rincorsa dove tutti, in diverso modo e a seconda dei bisogni, vanno alla ricerca non solo di “nuove terre” ma soprattutto di “nuove opportunità” di vita.
Il giovane di oggi quindi può essere paragonato a tutti gli effetti ad un “orfano”, se rapportato ai processi educativi delle società “senza padri né maestri”. Di fatto egli approda in un “limbo” dove la liquefazione del tempo e delle relazioni sociali stanno ipotecando il suo futuro.
1.2. “Rapidazione” (Papa Francesco)
Un altro fenomeno che appartiene ai cambiamenti generazionali sta nella “rapidazione” con cui essi avvengono: tutto avviene nel “presentismo”, cosicché tutto è destinato ad invecchiare precocemente. Accelerazione del tempo e cambiamenti costituiscono il binario su cui scorre la locomotiva della società contemporanea: il valore delle cose non si misura più per la loro durata e validità, ma per l’uso strumentale che se ne fa nel generare piacere, poi si cambia con un altro. E’ come se nell’”usa e getta” non sia previsto alcun riciclo, né di tipo materiale e tanto meno valoriale.
Un tempo “a-crono”, privo di sequenze e di cicli: se tutto è contemporaneo, non c’è posto per la memoria. Un tempo senza memoria del passato e senza slanci verso il futuro è destinato a diventare “liquido”, incastrato nell’attimo fuggente. Da un lato vengono meno quelle radici solide, ancorate alle esperienze della vita concreta che fanno crescere, mentre dall’altro, dove tutto è “presente”, non c’è posto per sognare e per progettare il futuro.
La conseguenza è una vita appiattita sul “presente”, senza futuro e quindi senza orizzonti progettuali, rattrappita sul “qui e ora, tutto e subito!”. L’”uomo-presente” ha smarrito la bussola nel rapporto con il tempo: la sottomissione a un presentismo, frantumato in una frequenza di attimi, ha fatto perdere il rapporto con il “tempo lineare”, quello che ha permesso finora un percorso “in linea” con l’identità; un crescere attraversando gradualmente i vari stadi di sviluppo: dall’infanzia, all’adolescenza, alla maturità adulta e responsabile.
Il passaggio dalla dimensione lineare a quella circolare del tempo genera invece un individuo con un’identità frammentata, facilmente assoggettabile ai poteri forti che stanno dietro alla tecnologia e ai sistemi di comunicazione di massa, e di conseguenza un’identità schiava, “asservita” al sistema dominante, sempre meno in grado di essere protagonista della realizzazione di sé e del bene comune.
1.3. La società della “super-diversità”
Una prima “super-diversità” va collegata ad un intreccio di variabili associate a nazionalità, etnia, lingua, religione, ideologia, motivazione, percorsi di migrazione.
Un’altra “super-diversità” va individuata in un’identità plurima, sotto il profilo socio-culturale, frutto di matrimoni misti e di cui sono sempre più portatrici le nuove generazioni. Oggi questo fenomeno è fortemente favorito dai sistemi di informatizzazione su cui viaggiano gli scambi ed i processi di globalizzazione. Chi risente maggiormente di questi cambiamenti epocali sono i giovani, pressati, sedotti dalle “sirene tecnologiche”, spesso veicolo di condizionamenti subdoli, ingannevoli.
1.4. L’esperienza corto-circuitata tra reale e virtuale
Muoiono antiche società nate sulla vicinanza spaziale e socio-culturale e, viceversa, nascono sempre più nuove comunità virtuali fluttuanti tra locale e globale, tra qui e altrove, in grado di provocare accelerazione della vita su tutti gli spazi-tempo, interconnessione simultanea, interdipendenza di tutto con tutto. Conseguenza: finisce il futuro prevedibile, quindi finisce anche per i giovani la voglia di progettare il proprio futuro.
Questa prossimità spazio-temporale non garantisce tuttavia l’aver qualcosa in comune e ciò che ne va di mezzo è il senso di cittadinanza: l’idea di cittadinanza resta legata al vecchio “spazio”, mentre nel frattempo stanno nascendo sempre più “cittadinanze virtuali”.
L’altra emergenza riguarda la multi-identità: questo fluttuare tra locale e globale, tra qui e altrove porta a “de-spazializzare” anche l’identità: i giovani vengono coinvolti in processi che danno loro “appartenenza” a più “comunità”, quali fonti di altrettante identità “liquide”; una molteplicità di spazi comunicativi in cui si intrecciano fattori, talora conflittuali, che giocano a frammentare l’identità poiché a questa età mancano gli “strumenti” (risorse, competenze, maturità…) che permetterebbero lor di “mediare” le varie identità di volta in volta acquisite.
1.5. Lo sviluppo dei saperi al di fuori di ogni controllo
Un recente studio[1] che ha coinvolto studenti delle scuole secondarie di secondo grado ha rilevato: – gli studenti, avendo poca speranza nei confronti del futuro, tendono ad investire meno nella formazione, sono pessimisti, hanno meno grinta, meno abilità di problem solving;
– il 70% degli studenti apprende fuori dalla scuola, ma senza un “filtro” e senza sentire il bisogno di impegnarsi per apprendere.
Si è di fronte ad una “babele” enciclopedica, dove tutto accade fuori dal controllo della scuola: i giovani sono esposti ad una molteplicità di apprendimenti senza possedere competenze interpretative e selettive.
Il fenomeno è l’evidente conseguenza di una scuola che produce saperi statici, rigidi, omologati, frammentati e, come tali, non al passo per interagire con l’altro 70% di apprendimenti via on line. Ne consegue che la scuola ha perso ormai la funzione di istruzione, non è più formativa, in quanto sempre meno in grado di offrire linee-guida per la crescita (personale, sociale, professionale…). Questo significa che si è di fronte ad una vera e propria “Caporetto” dai suoi compiti.
1.6. Le condotte a rischio
Infine non si può non prendere in considerazioni l’emergenza più emergente, i giovani a rischio:
– hanno difficoltà a dare un senso alla vita;
– questo senso lo trovano talora “sfidando la morte” (dare prove di coraggio, stendersi sui binari…): il fatto di essere sopravvissuti dopo aver sfidato la morte dà loro il senso di sentirsi “vincitori” sulla vita;
– sono inchiodati su se stessi, fino ad arrivare a cancellare l’identità (Hikikomori…);
– sono dei “contrabandieri” di se stessi: il corpo come schermo su cui auto-presentarsi (tatuaggi, piercing, taglio dei capelli, abbigliamento alla moda…) per agganciarsi/sentirsi parte attiva della società consumistica;
– sono come una “camera di decompressione”: droghe, alcol, altre dipendenza vengono utilizzate per colmare “il buco”, il vuoto interiore; un modo per ancorarsi al mondo da parte di chi non è del tutto “morto” a se stesso, una specie di cadavere ambulante.
Il giovane che ha la passione per il rischio non trova in sé il sentimento di essere vivo/reale. E tuttavia anche le condotte a rischio trovano un certo scopo nella costruzione dell’identità in quanto il “riconoscimento” della propria identità-a-rischio gli viene dato dal gruppo dei pari a cui appartengono, e non dalla società degli adulti da cui si sentono esclusi. E comunque pure in questo caso non bisogna rinunciare ad educare: anche nelle condotte a rischio, infatti, non c’è nulla di perduto. I giovani che non hanno un senso della vita non avendo più nulla da perdere inventano nuovi riti: ed è proprio lì, in questo preciso contesto che bisogna sapere come intercettarli.
Dall’insieme di queste emergenze si ha la percezione della profonda frattura che nel tempo si è venuta provocando ormai tra il mondo adulto e le giovani generazioni: l’adulto di oggi sembra offrire più libertà e protezione, piuttosto che testimonianza, dialogo e ascolto; per converso l’atteggiamento delle giovani generazioni sembra catalizzarsi sotto la voce del riscatto: “Non ci avrete mai come volete voi, a vostra immagine!”
Le sfide emergenti
Cosa fare perché gli adulti responsabili, di fronte a questo gap generazionale non mettano la testa sotto la sabbia di fronte alle emergenze educative?
Per rispondere a questo interrogativo occorrerebbe partire dal porsi altri interrogativi:
– come cambia la domanda educativa nei confronti delle nuove generazioni? – quali metodologie/strategie educative innovative occorrerebbe mettere in atto per intercettare le nuove generazioni?
E’ un dato di fatto che i giovani di oggi tendono a restare giovani sempre più a lungo e, al tempo stesso, a diventare adulti prima. In pratica si ha a che fare con una “adolescenza prolungata” che utilizza strumenti mediatici che permettono loro di anticipare le competenze di “adulti” rispetto ai tempi impiegati dalle precedenti generazioni.
Ne consegue che i confini tra adolescenza, gioventù ed età adulta diventano sempre più labili.
2.1. La famiglia dov’è?
Anzitutto bisognerebbe partire dal chiedersi “quale” famiglia: classica, monoparentale, ricostruita, coppie di fatto…?
La stessa idea di “famiglia” quindi sta mutando. Ma è proprio dalla famiglia che oggi scaturiscono al suo interno fenomeni sociali emergenti: abbandono, maltrattamenti, violenza, abusi sessuali… che contribuiscono ad aumentare le “povertà”: crisi, separazioni, relazioni conflittuali, solitudine, abbandono delle responsabilità…, tutti fattori inquinanti che hanno diretta ricaduta sul disagio dei figli.
Per quanto riguarda poi l’emergenza educativa ci si scontra sempre più con un’educazione familiare carente di obiettivi e di valori, che considera i figli dei “pacchi postali” caricandoli di impegni, ma senza avere tempo e pazienza per il dialogo e il confronto, al fine di coinvolgerli nell’autoeducazione, nel prendersi responsabilità per costruirsi il proprio futuro.
Per di più la famiglia che si sente impotente di fronte alle emergenze educative non può sottrarsi al proprio compito formativo ritenendo di poterlo delegare, scaricandolo sulla scuola e/o su altre agenzie educative, ma rimane a tutti gli effetti “titolare” nel farsi responsabile dell’intervento educativo.
Oggi quindi la famiglia deve saper rinegoziare con una società in rapida evoluzione al fine di ottenere una ricaduta sugli equilibri familiari: i genitori sono chiamati a gestire il delicato equilibrio tra la necessità di mantenere economicamente i figli sempre più a lungo e, contemporaneamente di riconoscere loro autonomia sociale e indipendenza culturale.
Di conseguenza, coinvolgere i giovani in progettazioni future di qualità, inclusive e sostenibili, significa partire dal chiedersi “quali nuove sfide” occorre affrontare, quali obiettivi perseguire in termini comportamentali, in grado di coniugare l’io con il tu, con il noi, il privato con il pubblico, il capitale personale con la prosocialità e il bene comune.
Tale equilibrio può essere trovato partendo anzitutto dall’offrire un’educazione che sappia farsi “prossimità”, vicinanza, quale pedagogia del “viaggio”. Il “viaggio”, infatti, è una sfida, un andare alla scoperta, una conquista, ma può trasformarsi anche in un pericolo, in un perdersi/smarrire la giusta direzione. Lo stesso si può dire dell’educazione, che si distingue tra quella che è una sfida aperta alla “scoperta” (di sé, delle relazioni con l’altro…) e quella ripetitiva, arroccata su vecchie formule, non più in grado di alimentare la costruzione della personalità delle nuove generazioni.
2.2. Occorre educare tutti ad educar-“ci”
Perché i giovani abbiano un futuro è necessario anzitutto che siano stati “educati ad orientarsi” verso il futuro, disponendo di buone “guide”. In questo senso l’educazione è prevenzione, è preparare a ogni possibile cambiamento, trasformazione (relazionale, sociale, economica, tecnologica…). Da qui la necessità di partire anzitutto dall’educare gli adulti (genitori, insegnanti, educatori…) offrendo loro la “patente” per guidare le giovani generazioni, dopo aver appreso nuove modalità di comunicare/relazionarsi con loro.
Al tempo stesso il gruppo dei pari, reale e contemporaneamente virtuale, costituisce per le nuove generazioni il bacino d’incubazione per la crescita dell’identità.
La peer education può rappresentare al riguardo il ponte di comunicazione tra l’adulto e l’adolescente. Queste amicizie/relazioni, specchio per l’adolescente del proprio sviluppo identitativo, assolvono alla funzione di “camera di compensazione” dei rapporti sociali. Man mano che acquista/conquista una propria identità il giovane sarà in grado di fare scelte più responsabili, in grado di arricchire la sua personalità secondo una linea di ricerca di senso.
2.3. Educare alla responsabilità
In tema educativo ci si interroga sul rapporto sempre più stretto che intercorre tra responsabilità e processi educativi. Solo se si forma una società rispettosa dell’altro e delle regole si può contribuire a superare la crisi valoriale a cui stiamo assistendo attraverso un’educazione che non passa soltanto dalle aule scolastiche. Devono entrare in gioco competenze da testimoniare e poi trasmettere, le strategie per affrontare le problematiche da risolvere, l’impegno per la gestione del bene comune.
Non si tratta semplicemente di “indottrinare” le nuove generazioni, ma piuttosto di testimoniare uno stile di vita che permetta loro di acquisire atteggiamenti responsabili sulle proprie azioni e che permetta di vivere la cittadinanza in maniera attiva e responsabile. La sfida educativa si colloca infatti nella dialettica tra rispetto delle regole e libertà, al fine di un corretto uso della libertà stessa: rispondere delle proprie azioni e delle loro conseguenze.
Senza l’applicazione disciplinata di regole non si può costruire una società educata ed educante, ma solo gruppi di “nomadi” dove ognuno sopravvive in funzione di se stesso. Lo sviluppo delle responsabilità nelle relazioni tra persone richiede invece che esse si basino anzitutto sul rispetto e sul riconoscimento degli altri in qualità di portatori di pari libertà e dignità. Per cui, in sostanza, occorre partire dall’educare i genitori ad educare i figli alla responsabilità.
Il fondamento dell’azione educativa infatti sta nel riconoscere pari dignità ad ogni persona, indipendentemente da qualsiasi etnia, ideologia, religione appartenga.
Educare a vivere “in/come” comunità aiuta perciò a sentirsi tutti più responsabili.
2.4. Educare alla cittadinanza
La responsabilità a sua volta ben si coniuga con la cittadinanza: “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la sopravvivenza delle generazioni future (Hans Jonas).
Bisogna educare/ci a vivere il mondo come qualcosa di cui ognuno, seppure nel suo piccolo, è responsabile, evitando di scadere nella facile delega (alle istituzioni, alla politica…), soprattutto quando sono in crisi i rapporti sociali e si è portati a contrarsi/rinchiudersi/murarsi entro rapporti “noistici”.
La responsabilità a sua volta risponde al concetto di libertà, e viceversa. Chi è responsabile è libero. Dal canto suo la libertà è fatta di relazioni, rapporti, legami, comunicazioni che creano “comunione & comunità”, che danno l’opportunità di far crescere le proprie potenzialità, di fare libere ma responsabili scelte, di affermarsi con una propria identità e autonomia.
Ne consegue che l’educazione alla cittadinanza attiva non appartiene solo alle istituzioni educative (scuola, famiglia…) ma è responsabilità di “tutti verso tutti”. Così come tutti “insieme” ci educhiamo, altrettanto si deve dire che tutti insieme ci responsabilizziamo ad educare.
La cittadinanza non si impara sui libri ma diventa “attiva” quando si assumono responsabilità verso gli altri e verso il contesto-ambinte di vita, in pratica si impara attraverso concrete esperienze di vita. Non basta conoscere ciò che è bene, per essere buoni (per dirla con Aristotele).
2.5. “Service Learning”
E’ uno dei metodi pedagogici per formare ad una cittadinanza attiva: “apprendere serve, servire insegna”. A loro volta “apprendere” e “servire” sono legati da una relazione circolare che vede il soggetto in formazione mettere a disposizione degli altri (servizio), di fronte a problemi reali, le competenze che sta sviluppando grazie a ciò che apprende. Ciò significa compiere azioni solidali capaci di rispondere con “competenza” a problemi realmente presenti nel contesto-ambiente.
Se poi un tale metodo viene calato nel contesto scolastico di apprendimento, ciò porta a rinnovare le competenze delle discipline scolastiche, intese non più come deposito di conoscenze astratte e presto dimenticate, ma come strumenti concreti in grado di contribuire costruttivamente alla vita del contesto-ambiente sociale in cui si gestisce la propria vita.
In tal modo gli alunni diventano protagonisti del proprio apprendimento, in quanto motivati e capaci di dare senso, di misurarsi nel sentirsi coinvolti in iniziative concrete di risposta ai bisogni presenti nel sociale.
In questo modo la “solidarietà” e la “cittadinanza attiva” non sono qualcosa che si predica nelle aule, ma si sperimenta in pratica nella vita, testimoniandola.
Sul piano pedagogico questo metodo ha una ricaduta sull’educazione integrale del giovane, promuovendo lo sviluppo della mente (la testa ben fatta), della mano (le competenze nell’azione) e del cuore (la disponibilità/solidarietà verso gli altri).
Sotto questo profilo l’educazione quindi è di fronte a sempre nuove sfide: nuove tecnologie, globalizzazione, migrazioni, diseguaglianze sociali, conflitti identitari, ambiente… non si possono più affrontare con vecchie categorie di pensiero e di discipline di apprendimento prodotte in età “arcaiche”. La sfida posta dall’educare richiede di rifarsi al principio dell’”imparare-facendo”, dove si sperimentano in partica i principi della cittadinanza attiva, del dialogo tra le “differenti-diversità”, dell’impegno per il bene comune.
2.6. Educare alla ”cura della casa comune”
E’ un dato di fatto che la forte crescita tecnologica non è stata accompagnata da altrettanta crescita dell’essere umano in fatto di coscienza, valori, responsabilità civili/sociali.
Occorre quindi potenziare fin da giovani la “coscienza ambientale” con l’educazione ad un uso critico delle risorse che favoriscono il rispetto dell’ambiente; beni prodotti da materie prime che sono patrimonio di “tutta” l’umanità.
Questo richiede una educazione che comporti il passaggio da una “cultura dello scarto” all’etica del “prendersi cura/custodire”, a creare un atteggiamento interiore allargato a una “ecologia integrale”: società, cultura, economia, politica.
L’educazione diventa così una opportunità per far leva non soltanto sulla paura di catastrofi, quanto soprattutto sul riconoscimento che ogni risorsa del creato (uomo, animali, piante, suolo, aria, acqua…) ha un valore da rispettare, ha il mandato di una custodia responsabile, e non un possesso di cui abusare, aggredire, predare.
2.7. Educare ai media
La “Teoria della spirale” applicata ai mezzi di comunicazione di massa attribuisce i cambiamenti sociali ad un duplice movimento, circolare e verticale al tempo stesso: essi, informando, condizionano la società la quale, modificata dall’esposizione ai mezzi, scopre nuovi bisogni e a sua volta reagisce richiedendo nuove prestazioni per soddisfarli, influenzando e condizionando in tal modo la natura, la funzione ed i contenuti dei mezzi stessi.
Un tale movimento, circolare-verticale, non è innocuo, comporta dei rischi: o ci porta più in alto, se questi bisogni corrispondono a valori-guida che ci fanno crescere, o ci fanno scendere sempre più in basso a causa dell’omologazione e massificazione dilagante dei bisogni, che favorisce inesorabilmente il grande business della globalizzazione dei consumi.
Un piccolo ma significativo esempio di questa discesa viene dall’adozione nei media di un linguaggio sempre più strepitante, sgrammaticato, volgare ed aggressivo, fino allo scontro verbale (e talora non solo).
Tutto questo rimanda alla questione etica della mission dei media: la loro mission è quella di farsi strumento di cultura, educando e migliorando la società facendola crescere attraverso la qualità dei programmi, o piuttosto di soddisfare l’utente per ottenerne il più alto tasso di ascolto-consenso (e con esso del mercato-profit)?
Dal confronto tra media ed educazione è nata una nuova branca della pedagogia, “Media Education”, la quale mira a fornire una competenza mediale culturale affinché il minore sappia confrontarsi in modo critico e costruttivo con l’universo dei media creando nuove forme di comunicazione.
Non solo educazione con i media, quindi, ma l’educazione ai media, facendo riferimento alla comprensione critica dei media, intesi non solo come strumenti ma come nuovo linguaggio e cultura.
Questa educazione si caratterizza per prendere avvio da alcune domande di fondo: chi comunica e perché? Che tipi di comunicazione si tratta? Come è stata prodotta? Come se ne conosce il significato? Chi riceve il messaggio quale significato gli attribuisce? Quali interessi sono in gioco? Come viene rappresentata la “realtà”?
La finalità è il conseguimento dell’autonomia critica a fronte delle sempre nuove sfide prodotte dall’avanzare della tecnologia.
2.8. Educare attraverso attività extracurricolari per diventare protagonisti del proprio percorso di vita
Prendiamo esempio, in particolare, dallo sport.
Con lo sport:
– si sperimentano le proprie capacità e abilità (autostima);
– si superano i propri limiti (autocontrollo);
– si impara a stare bene con se stessi appropriandosi del proprio corpo (auto-coscienza);
– ci si allena sistematicamente per conseguire risultati (porsi obiettivi e raggiungerli);
– ci si auto-valuta di fronte a ostacoli e sconfitte (pensiero critico);
– si tende a migliorarsi sempre più (pensiero positivo);
– si decide le possibili scelte da fare (presa delle decisioni);
– si accetta l’aiuto degli altri (interdipendenza);
– si cerca di risollevarsi dalla sconfitta facendone tesoro (controllo delle emozioni);
– si impara a lavorare in gruppo (lavoro in team);
– se fanno sempre nuove amicizie (relazionalità);
– si sperimenta il rispetto per compagni e avversari (interazioni empatiche);
– si imparano e si adattano strategie di gioco (problem solving).
L’efficacia educativa dello sport non dipende solo dall’acquisizione di specifiche abilità motorie quanto soprattutto dalle interazioni tra dirigenti, allenatori, giocatori, genitori, educatori che trasmettono comportamenti e valori positivi.
Ciò comporta di coinvolgere i ragazzi proponendo attività in cui siano protagonisti in prima persona nella gestione delle responsabilità.
Lo sport rappresenta uno strumento privilegiato per una sfida al superamento dei limiti personali attraverso la dedizione (allenamento costante), la resilienza (in caso di sconfitta), il conseguimento dell’obiettivo (in caso di vittoria): processo che ha successo soltanto se condiviso tra l’allenatore/educatore (“alleducatore”) e l’atleta. Migliorando le proprie potenzialità quest’ultimo acquisisce contestualmente fiducia in se stesso, autostima, pensare positivo, autoefficienza, diventando così protagonista del proprio processo di crescita e di presa delle responsabilità nel “giocare” il proprio ruolo all’interno della vita di squadra, facendo reale esperienza di condivisione.
In tal modo il “campo sportivo”, inteso e vissuto come materia prima ma anche come contesto-ambiente, si traduce in una vera e propria palestra di vita ove si praticano relazionalità, cooperazione, solidarietà, “intelligenza sociale”.
Lo scontro-confronto con gli altri, compagni e avversari, stimola strategie di problem solving, gestione responsabile del proprio ruolo per la riuscita collegiale, capacità di rimodulazione delle strategie da adottare, appropriate modalità di espressione delle proprie emozioni di fronte sia al successo che alla sconfitta. Apprendimenti trasferibili poi anche ai diversi ambiti “fuori campo”, nel contesto stesso della vita quotidiana.
In pratica, l’acquisizione di una piena padronanza di “abilità di vita” porta poi a scoprire la propria vocazione/posizione da “giocare” anche nella vita attiva: definizione degli obiettivi, risoluzione dei problemi, pensiero positivo, controllo delle emozioni e dei comportamenti impulsivi e antisociali, capacità decisionali, pensiero creativo, clima motivazionale, senso di autoefficacia, orientamento al successo, attitudine a superare gli ostacoli confidando nelle capacità proprie e dell’aiuto di squadra, utilizzando diverse modalità comunicative per imparare dagli altri, trovare l’intesa, affinare le strategie, educano l’atleta alla cittadinanza attiva, al rispetto delle regole, alla lotta contro ogni forma di violenza e di discriminazione, ai valori di inclusione sociale.
Concludendo
La relazione educativa deve costituire il contenitore entro cui si rende possibile per il giovane strutturare la propria personalità e diventare protagonista della propria crescita assumendosene la responsabilità: si tratta di fare il passaggio dall’educazione all’auto-educazione.
Per fare questo passaggio:
a) occorre saper lavorare in rete tra i vari soggetti pubblici e privati che si occupano di educazione e di formazione;
b) ma soprattutto occorre cambiare la propria forma mentis.
Tutto questo rimanda alla scoperta di nuove formule educative.
In sintesi, nel riquadro in basso viene riportata, nel lato sinistro, una serie di cambiamenti nelle nuove generazioni e, negli altri due riquadri a destra, sono stati descritti, contestualmente ai cambiamenti generazionali, i cambiamenti che occorre apportare nella forma mentis degli adulti (genitori, insegnanti, educatori…) per entrare nei loro “mondi”[2].
CAMBIAMENTI GENERAZIONALI
CAMBIAMENTI nella FORMA MENTIS….
… per ENTRARE-IN “QUEI MONDI”
– la loro comunità sta nella rete
– la rete è “casa loro”, il baricentro della loro vita
– senza Wi Fi si sentono persi
– emigranti digitali
– solitari-interconnessi
– autistici-elettronici
– rimangono ammaliati da “sirene” digitali di ogni tipo
– alla ricerca permanente di collegamenti
– equipaggiati di tutti i tipi di beni
– si abbuffano a fronte di un menù di scelte consumistiche
– non progettano di formare famiglia né di avere figli
– non accettano l’autorità
– i divieti non li accettano né sono efficaci per la loro crescita
– le istituzioni non sono credibili, non funzionano
– nessuno ha la verità
– la fede non li interessa o non va imposta
– il Vangelo non è utile per vivere
– sono mix di tutto un pò: credenti-increduli ma anche increduli-credenti
– non sposano “una” sola causa, perché il loro baricentro si sposta contestualmente al variare degli interessi
– non scelgono pur di essere scelti dalle tecnologie
– gioventù “liquida”
– più allegri che ottimisti
– più curiosi che interessati
– più aperti che profondi
– più capacità creative che concretamente operative
– generazione “porosa”, spugnosa, assorbente
– imbrigliati tra una cultura a ribasso e voglia di cambiamento
– bulimia di emozioni allo sbando, senza far intervenire la ragione
– ricercatori affamati di felicità disancorata da concrete possibilità di realizzarla
– sospesi tra “non più” e “non ancora”
– “rapidazione” (Papa Francesco – l’azione che ha una durata nel tempo per loro non ha più senso perché occorre cambiare e poi cambiare ancora il più rapidamente possibile…)
– vivono nel “presentismo”
– vivono in un tempo privo del corpo fisico per diventare prigionieri di un corpo virtuale
– vivono nel “tempo liquido” (senza passato né futuro)
– vivono nel tempo “acrono” (un tempo-non-tempo)
– vivono in uno spazio “smaterializzato”
– radicati nel qui e ora, mordi e fuggi, carpe diem
– vedo/sento/sono collegato… ergo sum!
Occorre fare il sorpasso ….
… dal fare-per, al fare-“con”, accompagnando
… dallo stare insieme, a essere “mente collettiva”
… dal senso di impotenza, a sentirsi “agenti di cambiamento”
… da usufruitori, a “produttori” di servizi educativi
… da una critica distruttiva, ad una “critica-mente” costruttiva;
… dal curare, al “prendersi cura”;
… da un atteggiamento pessimistico di fronte ai problemi, alla capacità di “problem solving”
… dall’”io”, al “tu”, al “noi”
… da una rigida posizione di chiusura (“aut”…”aut”), a quella flessibile fatta di “et”…”et”
… dal pensiero unico, al “pensiero sistemico-reticolare”
… dal conflitto, alla negoziazione, al dialogo
… da leadership onnipotente, a leadership “di servizio”
… dalla semplice accoglienza e accettazione, alla condivisione, alla cooperazione
… dall’interazione, all’integrazione, all’interdipendenza
… dal dare, all’interscambio dare-ricevere fondato su un asse paritario di reciprocità
… da un atteggiamento critico-distruttivo, all’investimento delle energie nella progettazione attiva
… dal solipsistico fare, al “fare-in-rete” coordinando le risorse comunitarie
… da comunità, a “comunità-di-vita” in grado di auto-rigenerare sempre nuove risorse
… da passivo senso di appartenenza, al “senso-di-comunità”, alla “voglia-di-fare-comunità”
– ascolto+accompagnamento (ma senza correre, stando al loro passo…)
– far diventare loro dei protagonisti (e non solo dei destinatari…)
– fondare la propria autorità sul carisma personale piuttosto che sul ruolo e/o ufficio che si occupa
– andare a scoprire e poi riconoscere le loro potenzialità – saper accettare quel voler essere unici, eccentrici, quel voler mettere tutto sottosopra
– non etichettarli ma rispettarli – interculturare la loro fede con la mentalità delle loro culture “glocali”
– no a una lettura univoca dei giovani
– no a blocchi ma a flussi
– saper sviluppare i loro interessi
– orientarli alle scelte come processo/itinerario metacognitivo per sviluppare la “bussola” dentro di loro
– dare spazio alla narratività (per scoprire “da dove vengo”, “dove sto andando”, “dove voglio andare”…)
– prevenire è educare a scegliere
– educarli a saper fare scelte per crescere, così da uscire dalla schiavitù dell’io-virtuale
– educarli a vivere nel “tempo lineare”, perché (all’opposto di quello “virtuale”) è quello che dà identità
– l’educatore è un raggio di sole che fa crescere la pianta
– educare è portare il giovane ad “abitare” la propria vita
– l’educatore è colui che “pianta la tenda” nel mondo giovanile
– educare è intraprendere percorsi formativi mirati a sconfiggere il senso di impotenza
– saper dare loro la gioia di sentirsi amati
– l’amore è l’alimento per crescere sani
– amorevolezza è amare i giovani così come sono
– amare quello che amano i giovani
Letteratura di riferimento
Congresso Internazionale “Giovani e scelte di vita”, Roma, Università Salesiana, 20-23 settembre 2018
Costa C.-M. Ivaldo-G.M. Salvati (edd.), Educare alla responsabilità, Roma, Angelicum University Press, 2019
Crugati F., Gli orfani dell’assistenza, Bologna, Il Mulino, 2001
De Rita G.-A. Galdo, Prigionieri del presente. Come uscire dalla trappola della modernità, Torino, Einaudi, 2018
Fiorin L., Oltre l’aula. La proposta pedagogica del Service Learning, Milano, Mondadori, 2016
Mortari L. (a cura di), Service Learning. Per un apprendimento responsabile, Milano, FrancoAngeli, 2014
Pieroni V.-A. Santos Fermino, Costruire la comunità. Dal capitale educativo del gruppo alla vita della comunità, Torino, Editrice ELLEDICI, 2019
Pieroni V.-A. Santos Fermino, Fare-rete per educare. La cassetta degli attrezzi & Istruzioni per l’uso, ed. on line EAI /Edizioni Accademiche Italiane), 2017
Rivoltella P.C., Media Education. Modelli, esperienze, profilo professionale, Roma, Carocci, 2001
[1] A cura di Nota, Soresi, Ginevra, Santilli, Di Maggio e presentato al XVIII Convegno della Società Italiana Orientamento, Roma, Giugno 2018.
[2] Cfr. Pieroni V.-A. Santos Fermino, Costruire la comunità. Dal capitale educativo del gruppo alla vita della comunità, Torino, Editrice ELLEDICI, 2019, p. 263-65.
L’IRC: un “cammino” ermeneutico esistenziale percorso insieme agli adolescenti
Appassionati e indifferenti, spavaldi e smarriti, sensibili e violenti, spensierati e tormentati, invincibili e vulnerabili: gli adolescenti del nostro tempo vivono sulla loro pelle queste contraddizioni. Definiti dagli esperti «supereroi fragili», i giovani d’oggi soffrono, in misura sempre più crescente, di nuove forme di disagio che si sovrappongono a quelle connesse colle fasi naturali della crescita e che rappresentano un allarmante fattore di sfida per il mondo degli adulti, specie in ambito educativo.
Due magneti dello stesso segno che si respingono
rendere oggi particolarmente gravoso l’impegno didattico di un docente, specie nelle scuole superiori di II grado, è la difficoltà di coinvolgere gli adolescenti nel processo di apprendimento. Quante volte, infatti, i professori lamentano di non riuscire a tenere a bada la classe, di incontrare notevoli difficoltà a farsi ascoltare o di avere la sensazione di parlare a vuoto. Quello che, però, molti di loro dimenticano è che gli attuali adolescenti, oltre a doversi cimentare con una fase complessa, critica e caleidoscopica della vita, fatta di profonde trasformazioni a livello fisico, psicologico, sociale, cognitivo, affettivo-relazionale, devono al contempo misurarsi con un rapido e incalzante «cambiamento d’epoca» (papa Francesco), ovvero con la crisi di una società liquida e nichilista, difficile da comprendere e da abitare, in cui gli adulti, irretiti dal miraggio di una giovinezza permanente, non sono più in grado di offrire modelli e valori di riferimento. Ciò fa sì che essi si ritrovino a dover gestire da soli e in prima persona, spesso con fatica e dolore, due situazioni complesse che, come due magneti dello stesso segno, si respingono: l’una legata al loro percorso di crescita e l’altra connessa con l’ambiente in cui si ritrovano a vivere. Ne consegue che, laddove un docente pensi di trasmettere soltanto tecno-competenze cognitive, che con il vissuto dei ragazzi non hanno niente a che fare, il suo impegno didattico può non solo diventare complicato, ma risultare persino inefficace o controproducente. E questo vale ancora di più per un insegnante di religione (Idr).
Una relazione significativa con l’esperienza vissuta
Pertanto, più che trasmettere contenuti dottrinali, che di fatto interessano poco o nulla all’adolescente di oggi, l’Idr deve sforzarsi di metterli in relazione e corrispondenza con l’esperienza vissuta ogni giorno dai suoi allievi, ovvero deve fare in modo che tali contenuti risultino provocatori per il loro cuore e significativi per la loro vita. Questo implica, però, non un semplice aggiustamento della didattica, ma un radicale cambiamento nel processo didattico, che rinunci a ogni atteggiamento cattedratico e assuma i tratti di un cammino ermeneutico-esistenziale fatto insieme ai ragazzi: un cammino comune che muova dal loro vissuto, dai loro stati d’animo, dalle bisogni reali essi manifestano sempre più spesso in aula; che li aiuti a definire i tratti, ancora indefiniti, della loro personalità, a scoprire talenti e desideri che neanche pensavano di avere, a sviluppare la loro dimensione interiore (compresa quella religiosa); che offra spunti di riflessione per interpretare il nostro tempo e sappia additare loro «orizzonti di senso» e valori alternativi a quelli imperanti nella nostra società. A tale scopo, però, è necessario creare (sebbene non sia sempre facile) un clima di classe accogliente, rassicurante e coinvolgente che faciliti una relazione significativa tra docente e alunni, basata sulla fiducia, il rispetto, l’affidamento e l’ascolto reciproci. In caso contrario, c’è il rischio che gli studenti non solo abbiano la sensazione di non venir nemmeno compresi dal loro docente di religione, ma si convincano persino, come ricorda Andrea Matteo, dell’«inutilità della fede per la vita» – cosa che alla fine potrebbe indurli a sentirsi ancora più soli di fronte a quella «notte di senso» che attanaglia il loro vissuto e, da qui, ad assumere atteggiamenti di ribellione e di insofferenza, se non di rifiuto e di fuga definitiva dall’ora di religione.
Una vocazione artistica, all’inizio incerta e confusa, diventa, se ascoltata e coltivata, sempre più chiara e travolgente, fino a far emergere un talento che aspettava solo di essere ascoltato. Attraverso la pittura si esprime l’emozione di gioia o di sofferenza dell’artista che vive l’atto creativo.
L’artista avverte come una necessità interiore, come affermava Kandiskij, di esprimersi, in modo sempre più consapevole e appunto necessario per la propria piena realizzazione. Non soltanto quella artistica, ma anche quella umana, pena l‘infelicità.
“L’uomo non solo ha linguaggio, ma più radicalmente è linguaggio. Vale a dire si realizza interpretando un mondo in cui è immerso e soprattutto decifrando la propria esistenza” [1].(M.Buber)
Un artista onesto non può prescindere infatti dallo sguardo introspettivo; egli si trova ad intuire un proprio mondo carico di suggestioni, da esplorare per se stesso e per gli altri, e quindi a vivere un proprio spazio simbolico e relazionale.
Durante l’atto creativo scegliere il contenuto, forma e colori del quadro è, per l’artista, un emozionante momento di sospensione: consiste nel decifrare, attraverso l’ascolto interiore della propria storia, con la propria sensibilità, cosa si vuole esprimere, cosa si vede affiorare dalla propria esperienza e dal proprio mondo interiore. In una parola è capire cosa il proprio cuore prova e a cosa l’anima anela.
Durante il processo creativo, l’artista sente la persona nuova che in quel momento si sta formando. Infatti l’esperienza creativa modifica la persona, è uno strumento di conoscenza e di ampliamento essenziale del suo orizzonte ermeneutico-interpretativo, rispetto a se stesso e quindi alla realtà tutta [2]. L’artista si svela prima a sè e quindi all’altro, e ogni suo quadro è, in questo senso, uno squarcio interiore.
Esperienza di laboratorio di pittura con la musica
Un’esperienza creativa di tipo pittorico-sinestetico, cioè accompagnata e stimolata dall’ascolto di musica scelta, può aiutare i ragazzi a scoprire il proprio mondo interiore. Inserita in un progetto didattico artistico che educhi al Bello, può essere un passo educativo importante per promuovere un atteggiamento di ascolto, sia esteriore che soprattutto interiore, per la valorizzazione della creatività e la maturazione della persona.
Si introduce l’esperienza di laboratorio con la spiegazione da parte dell’insegnante della possibile complementarietà tra pittura e musica, attraverso la narrazione dell’esperienza creativa di due grandissimi artisti del secolo scorso, entrambi russi, quali esempi chiarificatori: V. Kandinsky per la creazione pittorica e M. Mussorgsky per la composizione musicale.
La bolla creativa e silenzio: Si prepareranno poi gli allievi ad entrare in una bolla creativa, aiutati dalla musica che ascolteranno. Entreranno in un personale spazio di silenzio, durante la quale saranno invitati a tenere all’inizio gli occhi chiusi per qualche minuto, per poter favorire la concentrazione.
Ascolto interiore: si spiegherà loro che in questo modo avranno modo di concentrarsi anche su un tipo di ascolto interiore, per esplorare e lasciar affiorare nella calma, le emozioni, i sentimenti e le suggestioni evocati dalle note.
L’espressione artistica: Solo in un secondo momento, aprendo gli occhi, potranno lasciar esprimere in tutta libertàl’artista che è in ognuno di loro e dedicarsi alla creazione pittorica, secondo il mezzo espressivo preferito tra quelli a disposizione, privilegiando, rispetto alla figura, linea-forme-colore; però ognuno sarà libero di scegliere cosa rappresentare e come.
L’esperienza personale: Questa libera attività dovrà essere vissuta senza competizioni e senza temere giudizi, in quanto si tratta di un’esperienza del tutto personale, che sarà tanto più soddisfacente quanto più si metteranno all’ascolto interiore delle sensazioni suscitate dalla musica.
Note
[1] M. BUBER, La vita come dialogo, a cura di M. Marchetto, La Scuola, Brescia 2013.
[2] Z.TRENTI-R.ROMIO, Pedagogia dell’apprendimento nell’orizzonte ermeneutico, Elledici, Torino 2008
Educare con l’arte ed educare all’arte, aiuta fin da piccoli a conoscere la narrazione e le narrazioni dell’esperienza umana di un territorio. (Pontificio Consiglio della Cultura, Documento dell’assemblea plenaria la “Via Pulchritudinis“, 27 – 28 marzo 2006).
L’arte, propone all’uomo il frutto della sua esperienza, del suo bisogno di esprimere se stesso, la propria storia e la propria narrazione culturale, offrendo letture di tipo antropologico, caratterizzate dalla dimensione estetica, contemplando l’apertura anche alla dimensione interiore e trascendente. Questo implica una specifica attenzione educativa perché propone, l’accostamento alla comprensione globale del patrimonio culturale che include la codificazione dell’esperienza umana inserita in uno specifico contesto socio culturale.
Si può dire che anche l’arte è “narrazione”: di un’esperienza, di una visione del mondo, delle cose e delle emozioni. Educare a leggere e comprendere queste narrazioni, induce fin da piccoli a rapportarsi con la ricchezza culturale, umana e religiosa di un territorio espressa nel tempo e nello spazio con il linguaggio della creazione artistica.
Parlare di narrazione in merito all’arte, si collega al concetto del racconto come parte integrante della storia dell’uomo, che si manifesta in molti modi diversi.
I racconti suscitano curiosità, collegano con la storia e le storie, luoghi e tempi in cui si innestano le esperienze personali. Una storia aiuta a confrontarsi e mettersi in relazione con gli altri, favorisce la comprensione del sentire dell’altro. Coinvolge a molti livelli: saper vedere, immaginare e ascoltare in profondità favorisce la possibilità di entrare in uno spazio dove oltre a immedesimarsi nella storia, si può costruire uno spazio nuovo in cui è possibile liberare l’immaginazione come approfondimento, propedeutico alla riflessione. Si possono creare rapporti positivi dal confronto di narrazioni provenienti da culture diverse, cercando di superare le divisioni e i pregiudizi; aprendo al quel divenire che si fa base per una relazionalità aperta e accogliente. Il racconto è descrizione di azioni, di eventi, di esperienze, di personaggi, di vita sociale, di situazioni che si evolvono; ma è anche riflessione sugli atteggiamenti e i pensieri dei protagonisti. In particolare il racconto attraverso le immagini, come forma di comunicazione innesca un processo di interazione fra chi vuol comunicare un messaggio, il messaggio e i destinatari. L’immagine è immediata, colpisce subito per la forma, per il colore, coinvolge sia i piccoli che i grandi; poiché in qualche modo attiva i sensi della persona, induce a porsi domande, ad interpretarne a livello personale il significato. Abituandosi fin da piccoli a “frequentare l’arte” in tutte le sue forme (pittura – scultura – poesia- – letteratura) ci si abilita ad acuire la propria sensibilità, le capacità cognitive, la percezione con tutti i sensi; promuovendo la possibilità di esercitare la creatività, favorendo la comunicazione e la rappresentazione di sé.
E’ fondamentale quindi l’impegno attento sia di chi costruisce il messaggio che di chi lo interpreta; affinché i messaggi siano comprensibili e significativi. Questo approccio pone l’attenzione sulle connessioni fra le diverse componenti inerenti la costruzione di significati: il testo, i suoi segni e chi si pone di fronte all’opera artistica. Ovviamente si deve tener in considerazione anche l’esperienza culturale e sociale di chi si avvicina a questo mondo, perché attraverso una lettura più profonda, possa ritrovare le connotazioni che aprono possibilità di ricostruire i processi fondativi, e confrontarli con l’attualità , operazione propedeutica alla formazione del pensiero critico.
Alla luce di queste considerazioni si possono fare alcune osservazioni:
educare narrando e nello specifico attraverso l’arte è aprire una finestra sull’uomo, la sua storia e le sue emozioni, vuol dire imparare a conoscere il proprio sentire e confrontarlo con quello di altri. E’ entrare nell’orizzonte più ampio della narrazione, fatto di due tempi: vedere – capire – conoscere – interpretare e un momento in cui giocare a creare narrazioni con l’arte; sentire di essere capaci di esprimersi, di poter essere costruttori di narrazioni personali che prendono avvio dalla profonda conoscenza di tutto il bagaglio culturale personale e sociale.
Non si tratta di confondere il piano dell’arte codificata con quello della creazione spontanea e personale, ma di sviluppare la capacità di riconoscere le narrazioni perché si possa educare a riconoscere il significato del vero del bene e del bello.
Una grande responsabilità è quella dell’educatore, dell’insegnante che sa accompagnare in questo percorso di avvicinamento, comprensione e appropriazione della rappresentazione dell’esperienza culturale di una comunità e di un territorio. Questo implica non solo presentare le opere, ma anche leggere e interpretare tutto quel patrimonio di valori che sono insiti nell’opera d’arte, ciò che l’autore ha voluto comunicare, ciò che riesce a comunicare in quel preciso momento.
Un particolare riferimento merita l’arte cristiana, di cui è permeata gran parte dell’espressione artistica italiana ed europea legata alle vicende umane e sociali del territorio. E’ un sistema di segni che rappresentano immagini significative ed evocative di una memoria comunitaria. Saper leggere e interpretare ancora oggi il messaggio dell’esperienza un religiosa, vuol dire saper leggere la realtà che ci circonda; ed è per questo che è fondamentale conoscere i codici interpretativi il linguaggio religioso al di là della propria appartenenza o non appartenenza di fede.
Bibliografia
BRUNER J., La fabbrica delle storie, GLF Editori Laterza, Bari 2002.
COMOGLIO M., Educare insegnando. Apprendere ad applicare il cooperative learning, LAS, Roma 1999.
MANTEGAZZA R. (a cura di), Per una pedagogia narrativa, EMI, Bologna 1996.
TRENTI Z.– ROMIO R., Pedagogia dell’apprendimento nell’orizzonte ermeneutico, Elledici, Torino 2006
VERDON T., Breve storia dell’arte cristiana, Queriniana, Brescia 2012.
Si deve a Shakespeare, com’è noto, una delle definizioni più importanti del teatro. Quando il principe Amleto si rivolge al capocomico della compagnia girovaga giunta nel castello di Elsinore, per convincerlo a mettere in scena una recita a soggetto che lo aiuti a scoprire se sia vero che a uccidere suo padre sia stato lo zio con la complicità della madre, egli afferma che il fine del teatro “sia all’inizio che adesso, era ed è quello di reggere lo specchio alla natura, di mostrare alla virtù il suo proprio volto, al vizio la sua propria immagine e alla stessa età e allo stesso corpo la sua forma e la sua impronta.” (Amleto, atto terzo, scena seconda).
Questa funzione di essere lo specchio che permette agli uomini di vedersi in esso riflessi e, dunque, di conoscersi meglio, oggi sappiamo è tipica di ogni forma d’arte. Dunque ogni arte contribuisce a fornirci delle chiavi interpretative per leggere in profondità la contemporaneità, oltre il semplice susseguirsi dei fatti: se l’arte è uno specchio, noi siamo, al tempo stesso, il soggetto e l’oggetto di un processo ermeneutico che ha come luogo contestuale l’oggi.
Ma se questa è prerogativa di ogni forma d’arte, qual è lo specifico contributo che a questo processo ermeneutico può portare il linguaggio teatrale? Certamente è un contributo multiforme che, qui, nello spazio consentitomi, mi sembra di poter individuare soprattutto in due aspetti.
Uno degli aspetti specifici del linguaggio teatrale è costituito dal fatto di essere una forma di spettacolo dal vivo (da questo punto di vista, questa è una specificità condivisa con altre forme d’arte che hanno la stessa caratteristica, come, per esempio, la danza, l’opera lirica, il concerto dal vivo, lo spettacolo circense).
L’evento teatrale, infatti, non va ridotto alla scrittura teatrale in senso tradizionalmente drammaturgico. Il testo teatrale, quale testo scritto sulla pagina, è soltanto propedeutico alla messinscena e, considerato in sé, è da intendersi come l’equivalente di una partitura musicale, la quale sarà musica soltanto quando verrà eseguita.
Il teatro, dunque, agito da attori sulla scena al cospetto di un pubblico, si presenta, oggi, con una carica dinamica difficilmente sopravvalutabile. Esso va a fornirci una peculiare lettura di quanto e di come l’esplosione comunicativa attraverso i linguaggi digitali e i social abbia modificato la prassi comunicativa.
La centralità del corpo nella sua immediatezza fisica, esposto all’esperienza diretta, priva di mediazioni digitali, provoca reazioni sostanzialmente modificate rispetto al passato, in un pubblico quotidianamente immerso in contesti comunicativi fortemente indeboliti dell’immediatezza fisica.
Si pensi, per esempio, a una delle caratteristiche più tipiche di qualsiasi forma di spettacolo dal vivo: l’esposizione all’errore. In contesti fortemente mediati, la possibilità di errore è tendenzialmente ridotta fino a poter essere espunta poiché la performance, in quei contesti, può essere ripetuta, modificata e corretta prima di essere immessa nella relazione comunicativa. Viceversa, nelle performance dal vivo, la continua possibilità di errore svela in maniera evidente i tratti più essenziali dell’esperienza umana: la sua caducità, l’inevitabile mescolanza dell’errore con la corretta esecuzione, fino alla fragilità intrinseca in ogni atto umano.
Oppure si consideri il ruolo che, nell’evento teatrale, rivestono fattori apparentemente marginali, puntualmente cancellati nelle forme di comunicazione altamente mediate, quali, per esempio, il sudore dell’attore o lo scricchiolio di una scarpa sulle assi del palcoscenico, la polvere sollevata da un costume che sfiora il pavimento o il respiro affannato di un attore che ha effettuato una lunga tirata. Tutto questo viene espunto da contesti comunicativi altamente mediati, come elemento residuale e di disturbo. Al contrario, in un contesto dal vivo, proprio questi fattori costituiscono un plusprodotto artistico che contribuisce a costruire l’unicità dell’evento.
Non appare esagerato dire che alla patinatura artificiale di relazioni comunicative in cui la contemporaneità si scopre sempre più immersa, questo altro tipo di esperienza contrappone un’autenticità capace di svelare proprio l’artificiosità.
Una seconda caratteristica, il teatro la presenta essendone il titolare esclusivo: la dimensione dialogica.
Ovviamente, il teatro non è l’unica forma d’arte che utilizzi la dialogicità. In esso, però, la dimensione dialogica costituisce l’unica dimensione. Se, per esempio, in un testo narrativo, il momento dialogico compare di fianco a quello del racconto, nella pagina teatrale esso costituisce l’unico momento. Il teatro o è azione drammatica, vale a dire dialogo, o non è.
Sia chiaro che con il termine dialogo non s’intende soltanto l’atto del parlare fra due o più persone. Dialogo è “azione fra”, non racconto di un’azione. E anche quando in un contesto teatrale si racconta un’azione (si pensi al fatto che, per esempio, nella tragedia greca la morte non veniva mostrata ma raccontata in scena), il racconto di quell’azione è esso stesso “azione tra”: tra due personaggi o fra un personaggio e il pubblico (in quest’ultimo caso vanno inseriti, per esempio, i monologhi teatrali).
Ebbene, l’immediatezza della dimensione dialogica, tipica del linguaggio teatrale, sollecita lo spettatore a esercitare costantemente una pratica ermeneutica in cui interprete e interpretato vengono collocati in una relazione strettissima, riducendo al minimo gli elementi mediatori. Se, cioè, per esempio, in un contesto narrativo, il fruitore è guidato dal narratore nell’atto interpretativo, il linguaggio teatrale immette immediatamente lo spettatore nell’attività ermeneutica.
Non sembri ovvio e scontato questo dato specifico. È sempre più frequente, infatti, dover registrare quante persone trovino difficile leggere un testo teatrale. Non che lo trovino, per esempio, noioso: questo potrebbe semplicemente essere attribuibile a questioni di gusto. Molte persone trovano, invece, proprio difficile questo tipo di lettura, poiché poco abituati alla coscienza dell’esercizio ermeneutico e, dunque, necessitanti di una guida all’atto ermeneutico che, invece, il teatro (scritto e agito) richiede senza ulteriori mediazioni.
Come le tecnologie moderne possono essere sfruttate per aggregare i vari popoli nel mondo di globalizzazione: radio, tv, web, social. L’uomo dei concetti e dei comportamenti ha bisogno di viaggiare ed esprimersi liberamente.
Gli strumenti di sviluppo possono essere meglio utili per creare ponti che le barriere.
Stiamo vivendo un periodo particolare della storia umana. Sia nei mondi sviluppati che nei mondi meno sviluppati cresce l’attenzione nazionalista. Allo stesso tempo con le tecnologie moderne si accorciano le relazioni dei popoli e delle culture diverse. Non solo dal punto di vista relazionale ma anche dal punto di visto economico.
Per farvi capire meglio, posso brevemente raccontare la mia esperienza. Sono arrivato nel 1993 in Italia per gli studi. Fino a pochi anni fa il costo delle telefonate agli esteri, soprattutto al mio paese d’origine, era elevatissimo e i modi erano diversi: cabina telefonica, varie carte, etc. Invece con le chiamate Voip, di tipo whatsapp, telegram, etc, non ci sono gli ulteriori costi e nemmeno la necessità di avere un telefono fisso per chiamare all’estero. Si può contattare chiunque nel mondo in qualsiasi momento. Adesso può sembrare una banalità, ma per coloro che hanno dovuto utilizzare per forza le cabine telefoniche pubbliche è un’esperienza da ricordarsi per sempre per apprezzare in modo sano gli strumenti moderni di comunicazione.
Non si può nascondere allo stesso tempo che questi strumenti vengono utilizzati in modo scorretto. Spesso e volentieri vengono utilizzati per creare distanze tra le persone e addirittura per atti di violenze a distanza. Basta pensare a vari post su facebook o twitter.
Credo invece che gli strumenti di comunicazione, partendo da una semplice telefonata per arrivare a un twitter, siano utilizzati per creare relazioni sane e per diffondere pensieri e idee che aggregano le persone e i popoli, perché tali strumenti sono potenzialmente utilizzabili da tutta l’umanità.
Questa mattina ho incontrato alcuni professori di una scuola secondaria di primo grado. Parlando degli strumenti tecnologici di comunicazione, tipo facebook e twitter, qualcuno ha dichiarato che non li utilizzerà mai. Da diversi professori questi strumenti sono considerati pericolosi e da negare completamente. Invece possono diventare un luogo di immediata comunicazione e di sana relazione tra professori e gli alunni. Naturalmente uno strumento extra-curriculare.
Alcune volte gli alunni sono più aggiornati, più informati e hanno più dimestichezza con le tecnologie. Solo chi ha delle conoscenze e competenze sulla materia, può mettersi in gioco con gli alunni e creare occasioni e opportunità di dialogo anche in questo campo.
In conclusione si può dire che le tecnologie moderne debbano essere prese in giusta misura nei loghi di educazione. Le tecnologie sono diventate un elemento esistenziale della vita quotidiana. La società intera, in modo particolare l’ambito scolastico, non può negarne l’utilizzo. La saggezza dell’uomo sta nel corretto uso di questi strumenti per il bene di tutti.
Una lettura creativa ed esperienziale per bambini e ragazzi ispirata al Caviardage
Un testo già scritto, una pagina di giornale o un vecchio libro scordato in un cassetto; un pennarello nero, qualche matita colorata, dei cartoncini colorati e…può cominciare il viaggio!!!
Nel momento attuale dove le parole sono sempre più sostituite da “like” e “mi piace”, l’esercizio di lettura, di ricerca di un pensiero poetico e di un’espressione emotiva può essere una piacevole novità. A questa sorta di “gioco” possono partecipare tutti perché ognuno ha qualcosa da raccontare, da esprimere soprattutto con l’uso della propria fantasia e creatività.
L’attività qui di seguito descritta, ispirata alla tecnica del Caviardage, fa parte di alcuni laboratori svolti nelle Diocesi di Torino, Fossano (CN) e Belluno. Rivolti agli insegnanti di ogni ordine e grado sono stati tenuti dalle sorelle Delsoldato Patrizia, Ilaria e Beatrice che dal 22 agosto 2019 hanno costituto l’associazione culturale e ricreativa: “Creativity’s Sisters”: Laboratori didattici. Fin da subito, nel proporre questa tecnica, ci si rende conto quanto la fantasia possa essere efficace ed importante per stimolare ed accrescere i processi di apprendimento degli alunni. Dunque si parla di didattica del fare in quanto si opera per mezzo di attività laboratoriali e di gruppo: ogni l’alunno non “subisce” le informazioni in maniera passiva, non diventa un vaso vuoto da riempire con nozioni e precetti, ma “fa”; è lui il vero protagonista e co-artefice di ciò che apprende nel tempo. Senza dubbio per gli insegnanti la didattica del fare risulta essere uno strumento sempre più necessario e complementare durante le attività di classe.
Obiettivi del laboratorio
Stimolare la creatività e la fantasia per mezzo di attività pratiche.
Trasformare la pagina scritta in una vera e propria cartolina tattile.
Utilizzare e incrementare la propria creatività per dare origine a brevi poesie
che mettano in risalto il rispetto e atteggiamenti positivi verso gli altri e tutto ciò che ci circonda.
Sviluppare l’empatia, il senso artistico dando voce a parole e sensazioni spesso difficili da esprimere nel quotidiano.
Sostenere la collaborazione tra i gruppi dei pari.
Svolgimento dell’attività
Nel primo incontro gli insegnanti sono stati riuniti in gruppo in base al proprio ordine e grado di scuola. Sono state distribuite alcune pagine di quotidiani, con un tema preciso da sviluppare e successivamente sono stati invitati a leggere. L’obiettivo era di far riflettere e individuare le parole più significative, profonde e fortemente evocative di un testo.
Una volta rilevate, sono state evidenziate colorandole sia con un colore a tinta unita che con colori diversi per renderle più visibili e, collegandole tra loro con segni grafici come frecce e linee, esse hanno acquistato un nuovo significato reso ancor più impattante dal completo annullamento della parte restante del testo utilizzando un pennarello di colore nero.
A questo punto ogni “artista” ha completato la propria opera, secondo i propri gusti, usando decorazioni diverse (bottoni, pezzi di cartoncini colorati, piccoli oggetti di stoffa o di altro materiale) utilizzando svariate tecniche espressive tipo il decoupage e l’acquerello. Infine la propria pagina è stata incollata su di un cartoncino colorato per dare uno spazio più incisivo all’opera creata dal gruppo. Questa forma di espressione creativa prende spunto dalla tecnica del Caviardage, un METODO DI SCRITTURA CREATIVA POETICA utilizzato in ambiti diversi: a scuola, in arte terapia e nella relazione di aiuto sociale ed in altri ambiti (teatro,meditazione ecc).
Consiste nel ricavare una poesia da una pagina di testo, annerendo o colorando tutte le parole che non vengono utilizzate nella composizione del testo. Le sue origini sono lontane nel tempo, il significato della parola deriva dal francese: caviardage che significa “cancellare” e indica la censura, la cancellazione di parole da articoli e opere letterarie non conformi ai dettami di regimi e quindi una costrizione della libertà di pensiero.
In questi laboratori invece la censura, la cancellazione, libera il pensiero poetico sviluppando l’empatia e il senso artistico rendendo così possibile una forma di comunicazione intima, viva ed espressiva che, in alcuni casi, può essere difficile da esprimere nel nelle condizioni normali quotidiane. E’ proprio per questi motivi che questa tecnica è altamente inclusiva quando viene usata in classe, dà la possibilità ad ogni alunno di potersi esprimere liberamente, oppure se si lavora in gruppo è la squadra che raggiunge gli obiettivi, grazie alle competenze di ciascuno.
Valutazione e autovalutazione
“La valutazione precede, accompagna e segue i percorsi curricolari […]. Essa assume una preminente funzione formativa, di accompagnamento dei processi di apprendimento e di miglioramento continuo” (in Indicazioni Nazionali 2012: L’organizzazione del curricolo – valutazione). E’ importante strutturare una griglia osservativa sul raggiungimento degli obiettivi previsti. Per quanto riguarda l’insegnante, si valuterà il suo operato in base ai seguenti indicatori:
Le attività proposte hanno coinvolto tutti gli studenti?
I tempi calcolati erano idonei al tipo di attività?
I contenuti proposti erano accattivanti?
Come avrei potuto migliorare le attività
Di seguito alcuni link utili per approfondire la tecnica:
• Emilio Isgrò (http://www.emilioisgro.info)
• Facebook:Creativity’s Sisters: Laboratori Didattici
• https://www.metadidattica.com/2013/04/14/il-caviardage-ovvero-trova-la-tua-poesia/